sabato 16 marzo 2013

QUANDO PALPEGGIARE IL SEDERE DI UNA COLLEGA DIVENTA VIOLENZA SESSUALE.


Articolo del dott. Daniele Tuorto.

Rif:  Cassazione Penale, Sez. III,  20 dicembre 2012 n. 49459 

Con la recente sentenza, in epigrafe richiamata, la Suprema Corte torna a statuire in tema di violenza sessuale, allineandosi ad un orientamento sempre più granitico: anche il mero palpeggiamento del sedere integra il reato di cui all’art. 609 c.p.
Nei fatti di causa, un uomo è stato ritenuto colpevole prima dal Tribunale di Como poi dalla Corte di Appello di Milano del reato di violenza sessuale (nella forma continuata di cui all’art. 81 cpv  poiché l’episodio si è verificato in due occasioni) per aver compiuto atti sessuali su una sua collega, consistiti proprio nel palpeggiamento del sedere di quest’ultima.
Ricorre per Cassazione l’imputato sostenendo, in particolare, oltre ad altri motivi di natura squisitamente procedurale, come la condotta posta in essere dallo stesso non fosse idonea a concretizzare il reato ascrittogli, trattandosi al più di comportamenti volgari, privi comunque della necessaria connotazione di “atti sessuali”.
Non sono di questo avviso gli ermellini. Richiamando numerosi precedenti conformi (ex plur. si ricorda Cass. Pen., Sez. III, 18 ottobre 2005 n. 44246 e Cass. Pen., Sez. III, 02 luglio 2004 n. 37395) la Corte di legittimità afferma come il palpeggiamento del sedere, posto in essere con atto repentino e comunque in una situazione in cui la vittima non ha la possibilità di sottrarsi alla condotta posta in essere dall'aggressore, integra il reato di violenza sessuale.

Infatti, proprio in uno degli episodi contestati, la vittima aveva le mani impegnate per portare i piatti e non poteva in alcun modo contrastare le intenzioni dell’aggressore.
La decisione in commento, come anticipato, non si smarca dall’insegnamento più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di reati sessuali.
Invero, è oramai pacifico ritenere che i delitti di violenza sessuale offendono la libertà personale intesa come “libertà di autodeterminazione a compiere un atto sessuale” (così Cass. Pen., Sez. III, 1 aprile 2004 n. 15464), e non già la libertà morale della vittima, oppure il pudore e l’onore sessuale di questa.
Su queste basi si può comprendere allora la rigida prospettiva reocentrica adottata dalla giurisprudenza. Così, la condotta vietata dall’art. 609 bis c.p. non si risolve nelle sole ipotesi di congiunzione carnale, ma comprende altresì ogni contatto corporeo, ancorchè fugace ed estemporaneo, finalizzato (ed idoneo) a porre in pericolo la libera autodeterminazione nella sfera sessuale del soggetto passivo, non avendo rilievo determinante, per il perfezionamento del reato, lo scopo dell’agente, e neppure l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale (così, da ultimo, Cass. Pen., Sez. III, 29 novembre 2012, n. 49088).
In altri termini, dunque, l’elemento della “violenza” rilevante ai sensi dell’art.
609 c.p. può estrinsecarsi anche nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi. (Cass. Pen., Sez. III, 15 giugno 2010, n. 27273).

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