sabato 30 aprile 2011

Reati ambientali: al via il decreto sulla tutela penale dell'ambiente.

Presentazione

Sanzioni pesanti a carico delle imprese e di chi mette in pericolo l’ambiente. Il Consiglio dei Ministri dello scorso 7 aprile ha approvato, in via preliminare, uno schema di decreto legislativo che, in esecuzione delle direttive comunitarie 2008/99 e 2009/123, prevede l’introduzione di nuove fattispecie di reato sinora non previste dal nostro ordinamento penale ed estende l’applicazione del decreto legislativo 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese al settore dei reati contro l’ambiente.
Il provvedimento si compone di tre articoli ed opera quindi in due distinte direzioni.
Da una parte introduce le nuove fattispecie di reato nel codice penale, inserendo gli articoli 727-bis e 733-bis, per sanzionare la condotta di chi uccide, distrugge, preleva o possiede, fuori dai casi consentiti, esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette e di chi distrugge o comunque deteriora in modo significativo un habitat all’interno di un sito protetto.
Dall’altra estende la responsabilità delle persone giuridiche a tutti quegli illeciti commessi in violazione delle norme a tutela dell’ambiente e posti in essere anche da propri dipendenti, dalla commissione dei quali devono aver tratto vantaggio o avuto interesse.
Tutte le condotte illecite vengono suddivise in tre grandi aree a seconda della gravità per poi applicare le sanzioni di natura pecunaria secondo il meccanismo delle quote.
In alcuni casi considerati più gravi e cioè per le infrazioni al "Codice dell'ambiente" e per quelle derivanti da inquinamento provocato da navi è prevista anche l'applicazione, per un massimo di 6 mesi, delle sanzioni ineterdittive.
Sul presente decreto deve essere acquisito il parere prescritto.
Fonte: Schema di decreto legislativo
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/reati_ambientali/

giovedì 28 aprile 2011

La Cassazione sulla legittima difesa e la detenzione abusiva di armi.

Cassazione penale, sez. V, 15 febbraio 2011, n. 5761.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha affrontato il problema della configurabilità, o meno, della causa di giustificazione della legittima difesa (art. 52 cod. pen.) anche nell'ipotesi di reato di detenzione abusiva di armi.
 sussistendone i presupposti di operatività e cioè previo accertamento della effettiva sussistenza e dell'attualità del pericolo e ulteriormente verificando se, avuto riguardo alle circostanze ed al contesto, la detenzione dell'arma, ancorché abusiva, appaia giustificata.
Il caso è quello di Tizio il quale deteneva abusivamete una pistola che si era procurato a Parma al solo fine di proteggere la propria incolumità personale per l'ipotesi, tutt'altro che remota, dato l'ambiente e le circostanze, di un nuovo attentato in suo danno, subito dopo quello a seguito del quale L. e P. avevano perso la vita e lui stesso era rimasto ferito
La Cassazione, optando per la ammissibilità della legittima difesa anche in detta fattispecie di reato, afferma che “fondato è anche il ricorso del Tizio limitatamente al capo della sentenza impugnata che ha disconosciuto la sussistenza dell'esimente della legittima difesa, sia pure a livello putativo, in relazione al delitto di detenzione di una pistola. Con i motivi di appello era stato dedotto come fin dalle indagini preliminari il GIP avesse ritenuto per certo che il ricorrente si era procurato Parma al solo fine di proteggere la propria incolumità personale per l'ipotesi, tutt'altro che remota, dato l'ambiente e le circostanze, di un nuovo attentato in suo danno, subito dopo quello a seguito del quale L. e P. avevano perso la vita e lui stesso era rimasto ferito; era stato perciò chiesto, in riforma della sentenza di primo grado, il riconoscimento dell'esimente, almeno a livello putativo.
La sentenza impugnata ha ritenuto l'infondatezza del suddetto motivo, adducendo a sostegno della decisione solo la citazione di una sentenza di questa Corte (Sez. 2 n. 17329 del 29.2.2008 Rv 239770), secondo la quale ne' la legittima difesa ne' lo stato di necessità varrebbero a giustificare la detenzione abusiva di un'arma. Rilevato allora che la stessa sentenza impugnata, come del resto quella di primo grado, aveva ritenuto per certo che la pistola costituiva una cautela a garanzia dell'incolumità personale, cautela che l'imputato percepiva come necessaria ed impellente dopo l'attentato al quale era scampato, restando tuttavia ferito, sarebbe stata necessaria più puntuale indagine intesa a verificare in fatto l'intensità ed attualità del pericolo grave paventato dal Tizio, sondando nei fatti la possibilità che la detenzione dell'arma potesse ritenersi scriminata dall'esimente.
La motivazione della corte territoriale appare infatti evidentemente inadeguata per la sua apodittica assertività, fondata sul principio dettato dalla sentenza su citata, che ha un solo precedente remoto, risalente al lontano 1984 (Sez. 1 n. 9176 del 10 maggio 1984 Rv 166320) del quale è nota e disponibile solo la massima, e che non pare condivisibile.
Osservare infatti, come fa la sentenza 17329/2008, che la detenzione abusiva di armi non può essere scriminata ne' dalla legittima difesa nè dallo stato di necessità sia al livello reale che putativo, perché la detenzione abusiva di armi costituisce delitto autonomamente connotato dalla volontà del legislatore di impedire la circolazione di tali mezzi di offesa alla persona, è affermazione di assoluta ovvietà, atteso che qualsivoglia condotta sanzionata dall'Ordinamento come illecita ha una sua autonomia concettuale, ed è sanzionata proprio perché il legislatore intende impedire l'aggressione dei beni giuridici tutelati.
Tale tautologica considerazione infatti non spiega perché le esimenti suddette possono scriminare un omicidio, che è in assoluto il più grave dei reati, ma non una detenzione abusiva di pistola che prescinda dall'uso dell'arma, e potrebbe essere giustificata dall'incombere di un pericolo grave ed imminente: basti considerare che un'arma può essere usata anche come strumento di deterrenza, di modo che in determinati casi può bastare mostrarla per sortire efficace dissuasione di eventuali aggressori.
Non appare poi decisivo il richiamo all'art. 52 c.p., comma 2, introdotto nell'ordinamento dalla L. 13 febbraio 2006, n. 59, art. 1, comma 1, che la sentenza 17329/08 fa a conferma dell'assunto della inapplicabilità delle cause di giustificazione al reato di detenzione abusiva di arma.
La norma detta testualmente "nei casi previsti dall'art. 614, commi 1 e 2, sussiste il rapporto di proporzione di cui al comma 1 del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità, b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione".
Pare allora chiaro che la norma ha il solo scopo di stabilire una presunzione assoluta di proporzionalità tra offesa e difesa nel caso in cui un'arma fosse utilizzata per fronteggiare una intrusione invito domino di estranei nel proprio domicilio o dimora, affrancando il titolare del legittimo jus excludendi dall'onere di provare l'adeguatezza della reazione all'aggressione patita, mentre ove in ipotesi fosse utilizzata arma detenuta abusivamente, la proporzionalità dovrà essere oggetto di attenta valutazione in concreto, e chi intendesse addurre a giustificazione del reato eventualmente commesso la legittima difesa, dovrà dimostrare la proporzionalità all'offesa dell'azione di contrasto attuata per fronteggiarla.
Del resto ritenere che il Tizio, per avvalersi dell'esimente, avrebbe dovuto conseguire l'autorizzazione prevista dalla legge per la detenzione della pistola, cosa per lui impossibile, varrebbe a sostenere che hanno diritto a cautelare la propria incolumità personale con un'arma solo gli incensurati e le persone dabbene, mentre tale possibilità verrebbe preclusa a chi si trovasse in condizioni di marginalità sociale, anche quando si trattasse di mera detenzione, come nel caso di specie, nonostante nell'ambiente al margine della legalità in cui il ricorrente viveva l'omicidio con armi da fuoco costituisse regola sociale di costante applicazione. Nel caso di specie andava dunque verificato innanzitutto se effettivamente fosse sussistente ed attuale il pericolo grave ed imminente di danno grave alla persona, e di poi se, attese le circostanze ed il contesto, la detenzione dell'arma potesse ritenersi in qualche modo giustificata.
La sentenza impugnata dovrà essere perciò annullata sul punto, con rinvio ad altra sezione della stessa corte territoriale, cui si demanda il compito di verificare la sussistenza in concreto dei presupposti della legittima difesa, reale o putativa, o dello stato di necessità, dando conto delle ragioni che consentano o meno il riconoscimento di talune delle suddette scriminanti”.

La violenza sessuale sul minore affidato per ragioni di istruzione.

Cassazione penale, sez. III, 20 gennaio 2011, n. 1820.

Nella sentenza indicata in epigrafe la Suprema Corte ha chiarito la nozione di "ragioni di istruzione", che rendono procedibile d'ufficio il delitto di violenza sessuale su minore infrasedicenne (art. 609 septies, comma quarto, n. 2, cod. pen.).
Il caso è quello di Tizio che aveva costretto con violenza ed abuso di autorità il minore Caietto, a lui affidato per aiutarlo nel lavoro, a subire atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti delle parti intime, nel portare la mano del Caietto verso il suo organo genitale e da ultimo nello spogliarlo e metterlo a contatto con le proprie parti intime.
Secondo la ricostruzione dei fatti riportata nella sentenza i genitori di Caietto. avevano deciso di mandare il figlio, ancora studente, con Tizio. , da loro conosciuto qualche anno prima, perché lo aiutasse nel suo lavoro di elettricista, sia pure senza compenso ed in modo non continuativo, nella prospettiva di consentirgli di apprendere un mestiere, che avrebbe potuto giovargli in futuro.
La Cassazione confermando la procedibilità d’ufficio per il reato contestato chiarisce che “la sentenza impugnata ha correttamente affermato che, nel caso in esame, l'azione penale era procedibile di ufficio, ai sensi dell'art. 609 septies c.p., comma 4, n. 2), essendo stato affidato il minore al P. affinché gli insegnasse un mestiere e, quindi, per ragioni di istruzione.
Tale termine deve intendersi di ampio significato, facendosi rientrare nella nozione di istruzione qualsiasi tipo di insegnamento che determini un rapporto costante, pur con qualche interruzione, tra colui che insegna e l'apprendista e la naturale sottoposizione del secondo alle direttive di colui che lo deve istruire. Va, infine, rilevato che la situazione prevista dall'art. 609 septies c.p., comma 4, n. 2), secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, è integrata da qualunque rapporto fiduciario di affidamento del minore infrasedicenne per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia, anche quando si tratti di un affidamento temporaneo od occasionale, (sez. 3, 30.9.2002 n. 38057, Cofone, RV 223789; sez. 3, 13.5.2009 n. 24803, RV 244124; sez. 3, 26.1.2010 n. 16461, RV 246755).
Sono inoltre infondati gli ulteriori motivi di gravame. In ordine alla fattispecie criminosa ascritta all'imputato la Corte osserva che, se è esatto il rilievo del ricorrente circa la non configurabilità della fattispecie di reato caratterizzato da abuso di autorità, in quanto l'autorità deve avere carattere pubblicistico (sez. un. 31.5.2000 n. 13, P.M. in proc. Bove. RV 216338), sussiste senz'altro, invece, l'ipotesi dell'abuso sessuale commesso con violenza, sia per essere stato accertato l'effettivo esercizio di forza fisica con riferimento all'ultimo episodio criminoso, sia perché nella nozione di violenza rientrano anche le azioni repentine, tali da impedire alla parte lesa di opporsi alla commissione dell'abuso sessuale, (cfr. sez. 3, 27.1.2004 n. 6945, Manta, RV 228493)”.

mercoledì 27 aprile 2011

Cronaca giudiziaria: è diffamazione se il titolo non trova riscontro negli atti giudiziari.

Cassazione penale, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 4558.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha stabilito che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca (nella specie giudiziaria) qualora il titolo dell'articolo attribuisca alla persona offesa - nei cui confronti penda un procedimento penale - una condotta sostanzialmente diversa da quella avente riscontro negli atti giudiziari e nell'oggetto dell'imputazione; né, a tal fine, rileva l'estraneità del titolo al resoconto giudiziario esposto nell'articolo, in quanto il titolo di un articolo di stampa può assumere carattere diffamatorio non solo per il suo contenuto intrinseco ma anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell'articolo, in specie ove esso ne travisi e amplifichi il contenuto.
Nel caso di specie il testo dell'articolo riferiva di un procedimento penale relativo ad irregolarità verificatesi nella sperimentazione della terapia oncologica Di Bella, avente per oggetto l'ipotesi di reato di cui all'art. 443 cod. pen., per avere somministrato ai pazienti farmaci con composizione diversa da quella indicata nei protocolli della terapia Di Bella mentre il titolo era del seguente tenore."così hanno truffato Di Bella".
 La S. C. ha ritenuto che il termine “truffa” contenuto nel titolo non trovava alcuna corrispondenza nel procedimento penale di cui riferiva l'articolo in questione.
Il ricorrente sosteneva che il titolo costituiva in realtà una parafrasi dell'accusa di cui all'art. 443 c.p. ipotizzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino nei confronti dei querelanti, esposta per esteso nell'articolo, del quale era stata riconosciuta la rispondenza ai criteri di una corretta cronaca giudiziaria con riguardo alla somministrazione ai pazienti di farmaci aventi composizione diversa da quella indicata nei protocolli della terapia del Di Bella, ed in questa prospettiva il termine "truffa" veniva utilizzato in senso atecnico quale rappresentazione sintetica dell'accusa meglio descritta nell'articolo, come del resto evidenziato dalle virgolette apposte in apertura e chiusura della frase, cogliendone l'aspetto essenziale dell'essere stato il Di Bella ingannato nella sperimentazione della terapia. Denunciava altresì violazione di legge laddove il riferimento della sentenza impugnata all'assenza di espressioni dubitative tradirebbe l'errata convinzione che la cronaca giudiziaria richieda la corrispondenza alla verità sostanziale e non al contenuto degli atti giudiziari.
Secondo la Corte l’articolo "riferiva puntualmente di un'indagine svolta nei confronti, fra gli altri, dei querelanti per un'ipotesi d'accusa individuata con riguardo alla fattispecie inerì mi natrice astratta della somministrazione di medicinali guasti o imperfetti di cui all'art. 443 c.p. ed alla fattispecie concreta della cura dei pazienti, nell'ambito della sperimentazione ufficiale della terapia del Di Bella, con farmaci taluni dei quali scaduti e talaltri insufficientemente dosati.
Evidente essendo la totale estraneità ad un siffatto contesto dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 640 c.p., letteralmente evocata dal titolo dell'articolo, insostenibile appare anche la tesi difensiva per la quale il termine "truffa" utilizzato nel titolo, inteso tecnicamente, costituirebbe una mera sintesi giornalistica del contenuto dell'articolo. Tale ricostruzione presuppone dichiaratamente, invero, che il termine di cui sopra sia stato adoperato con l'intento di designare, in un linguaggio comune e non giuridico, l'intento di boicottare la sperimentazione della terapia del Di Bella, facendo artatamente figurare quest'ultima come inefficace. Orbene, la lettura del testo dell'articolo pone in rilievo come nell'indagine della quale si riferiva non fosse assolutamente considerata tale prospettiva finalistica ed intenzionale della condotta attribuita ai soggetti indagati; a volerne ammettere la ricorrenza, anche l'accezione del titolo proposta dal ricorrente è pertanto estranea al resoconto giudiziario esposto nell'articolo. E che si tratti nella specie non di una diversa qualificazione giuridica dello stesso fatto, ma dell'attribuzione di una condotta sostanzialmente diversa, risulta evidente solo che si consideri come, laddove l'articolo aveva ad oggetto un reato implicante pericolo per la salute dei pazienti, il titolo, nel significato ipotizzato dallo stesso ricorrente, indurrebbe a ritenere sussistente una condotta posta in essere nei confronti di un diverso soggetto passivo, ossia il Di Bella, caratterizzata da una differente direzione lesiva, orientata a screditare lo stesso Di Bella quale autore di una valida terapia antitumorale, e connotata di conseguenza dall'attribuzione ai querelanti, dirigenti dell'Istituto Superiore di Sanità, di un comportamento di grave violazione dei doveri di imparzialità e correttezza nello svolgimento delle loro funzioni. Il titolo incriminato, pertanto, si poneva comunque al di fuori dei limiti dell'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria. E non può sostenersi che la lettura del testo dell'articolo, fornendo rappresentazione adeguata dell'oggetto dell'indagine, evitasse al titolo di svolgere la descritta efficacia lesiva dell'onore e della reputazione dei querelanti, mediante l'attribuzione agli stessi di condotte e finalità diverse da quelle per le quali l'indagine stessa era condotta. Come riconosciuto già in altra occasione da questa Corte (Sez. 5, n. 1298 del 12.1.1983, imp. Scalfari, Rv.lS7405), il titolo di un articolo di stampa può assumere carattere diffamatorio non solo per il suo contenuto intrinseco, autonomamente considerato, ma anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell'articolo, in specie laddove il titolo travisi e amplifichi quanto in quest'ultimo riportato.
 Non può invero prescindersi, nell'esame di questa materia, dal particolare rilievo orientativo che i titoli giornalistici, soprattutto quando formulati in termini forti e lapidari come quello in discussione, assumono nei confronti dell'utente, frequentemente proclive ad una lettura sommaria del contenuto dell'articolo.
Nel caso di specie, il titolo era senza dubbio idoneo, tenuto conto della efficacia suggestiva appena indicata, ad indurre il lettore a ravvisare nella riportata cronaca dell'indagine l'ipotesi della realizzazione di una condotta volutamente diretta a danneggiare la sperimentazione della terapia del Di Bella, In tal modo venendo ad essere travisato. Il contenuto dell'informazione giornalistica e trascendendosi i limiti dell'esercizio del diritto di cronaca.
È appena il caso di aggiungere che tale conclusione, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, rispetta pienamente il principio che collega la ricorrenza della scriminante alla corrispondenza della cronaca al contenuto degli atti giudiziari; proprio tale contenuto, per quanto appena detto, non trovava alcuna corrispondenza nel titolo oggetto dell'imputazione.
La motivazione della sentenza impugnata era pertanto logica, coerente e conforme ai principi normativi nell'affermare l'estraneità della terminologia utilizzata nel titolo dell'articolo in esame all'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria; il ricorso deve quindi essere rigettato anche per questo profilo".

E’ gestione illecita di rifiuti l’omesso controllo del funzionario Arpa sullo smaltimento.

Cassazione penale, sez. III, 1 febbraio 2011, n. 3634.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha affermato che risponde del reato di illecita gestione dei rifiuti, ove ometta il controllo delle operazioni di smaltimento, il funzionario dell'Agenzia Regionale per la protezione dell'ambiente notiziato dell'esistenza di rifiuti interrati, perchè così assume, nella veste di coadiuvante per legge le Regioni e le Province nelle funzioni di controllo sulle attività di gestione, intermediazione e commercio degli stessi, una posizione di garanzia.
Il caso è quello di Tizia, dirigente Arpa, e del funzionario Caio, i quali, consapevoli della esistenza dei rifiuti ospedalieri sul sito da bonificare, sia perché portate a conoscenza della esistenza di tali rifiuti telefonicamente e tramite comunicazione scritta all'ASS n. 5, sia per averne constatata la presenza in sito e sulla base di documentazione fotografica, non procedevano ad alcun controllo sostanziale sulle operazioni di rimozione e smaltimento del rifiuto, di tal che non impedivano che lo stesso fosse gestito come semplice terra, consentendone il conferimento con il codice errato in discarica non autorizzata.
Secondo la Cassazione “ritenere, come fa l’ordinanza impugnata, che il pubblico ufficiale preposto al controllo e alla vigilanza ambientale, che venga a conoscenza della esistenza di rifiuti interrati e partecipi alle operazioni di rimozione, non assuma una posizione di garanzia, in relazione alle sue condotte omissive poiché il D.Lgs. n. 152 del 2006, non prevede specificamente che si debba interessare della tipologia e dello smaltimento del rifiuto, si palesa errato, in quanto, peraltro, così ragionando si va a negare la causa del potere esercitato.
Va rilevato che tra i compiti fondamentali posti in capo alle Regioni (e alle Province), secondo quanto previsto dal citato D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 196, rientra la predisposizione dei piani regionali di gestione dei rifiuti, con esercizio, tra le altre, di funzioni attinenti al controllo periodico su tutte le attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti predetti, compreso l'accertamento delle violazioni delle disposizioni in materia". Orbene, per l'esercizio delle funzioni de quibus le Regioni e le Province si avvalgono del supporto dell'A.R.P.A., per cui, l'affermazione del giudice di merito, secondo la quale non sarebbe ravvisabile nella specie la esistenza di una norma di copertura in grado di legittimare una contestazione ex art. 40 cpv c.p., nei confronti delle prevenute non risulta corretto.
Il p.m. ricorrente rileva la sussistenza in capo alle indagate della ipotesi di responsabilità penale, in quanto esse non hanno eseguito o non hanno fatto eseguire il controllo che avevano l'obbligo giuridico di operare, pur avendo avuto contezza dell'attività illecita posta in essere dal M. e dagli altri coindagati. Questo Collegio ritiene di dovere annullare con rinvio la ordinanza impugnata, affinché il giudice ad quem riesamini la questione, nell'ottica di quanto evidenziato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Trieste.”

La Cassazione sulla querela nel reato permanente.

Cassazione penale, sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2241.

In una fattispecie di omessa corresponsione dei mezzi di sussistenza al figlio minore da parte del genitore (art. 570 c.p.) la Suprema Corte affronta il problema di come operi il termine ordinario di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato, per l'utile esercizio del diritto di querela, nel caso di reato permanente e, in particolare, "se il mancato tempestivo esercizio rispetto al momento dell'effettiva conoscenza, nonostante la natura permanente del reato, renda improcedibili le condotte antecedenti i tre mesi dalla proposizione della querela o, addirittura, tutte le condotte, passate ma anche future se rientranti nella medesima permanenza", in ragione della sopravvenuta "impossibilità" (normativa: l'art. 124.1 c.p. utilizza infatti la locuzione "non può essere esercitato", indice del venir meno del diritto/potere non esercitato) di esercitare il diritto.
Il caso è quello di Tizia che già il 5.6.2003 si era costituita nel giudizio per lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio concordatario prospettando con specifiche argomentazioni l'asserita volontaria e consapevole sottrazione di Caio all'obbligo di contribuzione al mantenimento di sè e della figlia, mentre solo il 26.1.2004 aveva presentato la querela per il reato di cui all’art. 570 c.p..
Caio contestava che la ritenuta permanenza del reato - in atto dal 22.12.1999 secondo la contestazione, quindi dal periodo temporale immediatamente successivo a quello considerato dalla precedente sentenza (deliberata il 21.12.1999) - o anche la ritenuta continuazione rendessero tempestiva la querela
La Cassazione stabilisce che, nell’ambito dei reati  permanenti, il diritto di presentare querela può essere esercitato dall'inizio della permanenza fino alla decorrenza del termine di tre mesi dal giorno della sua cessazione e la sua effettiva presentazione rende procedibili tutti i fatti consumati nell'arco della permanenza.
Di seguito si riporta la motivazione della Corte:
“Questa Corte ha, con le sentenze Sez. 6, n. 11556 del 19.11.2008 - 17,03.2009 e n. 22219 del 11.05 - 10.06.2010, evidenziato il dato normativo offerto dal capoverso dell'art. 382 c.p.p., che afferma il protrarsi dello stato di flagranza nei reati permanenti fino al momento in cui sia cessata la permanenza, affermando conseguentemente che la querela proposta in costanza di flagranza deve considerarsi comunque tempestiva almeno con riferimento al corrispondente periodo pregresso e, tenuto conto dell'intrinseca struttura unitaria del reato permanente, anche con riferimento al periodo successivo, finché si protrae la permanenza.
Tale conclusione va confermata, con la precisazione ed il chiarimento che seguono.
Come osservato fin da risalente dottrina, il termine di legge per l'esercizio del diritto di querela - una volta che il legislatore abbia scelto di subordinare all'istanza di parte la procedibilità di un determinato reato - muove da un duplice ragionevole presupposto:
evitare che per tutto il tempo nel quale matura la prescrizione del reato rimanga aperta la possibilità di perseguirlo; consentire un congruo lasso di tempo per le relative valutazioni del soggetto passivo del reato.
La previsione del decorso del termine per l'esercizio del diritto di querela è quindi strutturalmente connessa all'inizio del decorso della prescrizione. Termine per la querela e decorso della prescrizione presuppongono pertanto la certa e definitiva consumazione del reato cui si riferiscono. Nel caso del reato permanente, la prescrizione decorre dalla cessazione della permanenza (art. 158 c.p., comma 1).
Ancora, dal punto di vista sistematico la rinuncia all'esercizio di un diritto processuale non può che valere per i fatti che precedono il momento della rinuncia, quindi per la situazione allo stato degli atti del momento in cui essa interviene, unica in grado di attribuire effettiva consapevolezza alla scelta della rinuncia. Ed allora, sia la natura del reato - la permanenza in atto impedisce il decorso della prescrizione, elemento sistematico connesso e congruo al decorso del termine per la proposizione della querela, quando prevista -, sia l'indicazione normativa - il reato permanente è flagrante fino alla cessazione della permanenza, art. 382 c.p.p., comma 2 -, sia l'aspetto sistematico la rinuncia all'esercizio di un diritto processuale tendenzialmente non può che valere per i soli fatti, sostanziali o di procedimento, pregressi - concorrono all'affermazione del principio di diritto per il quale nel caso di reato permanente, il diritto di querela può essere esercitato dall'inizio della permanenza fino alla decorrenza del termine di tre mesi dal giorno della sua cessazione, rendendo sempre procedibili tutti i fatti consumati dall'inizio fino alla cessazione della permanenza medesima.
Nel caso di specie è pacifico che la querela sia stata presentata prima della cessazione della permanenza del reato di cui all'art. 570 c.p., sicché il ricorso va rigettato”.

sabato 16 aprile 2011

Gli amministratori della Thyssenkruup condannati per omicidio volontario

Per la tragedia del 2007 la seconda corte d'assise di Torino ha condanno i vertici della Thyssenkrup per omicidio volontario. Riconosciuta la configurabilità nel caso di specie del dolo eventuale. la sentenza rivoluzionaria ha condannato l'amministratore delegato a 16 anni e mezzo di reclusione.

domenica 3 aprile 2011

La Cassazione sull'uso di gruppo di sostanze stupefacenti.

Cassazione penale, sez. VI, 2 marzo 2011, n. 8366.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte affronta il tema della configurabilità, o meno, del reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 1 bis, lett. a, d.P.R. 309/1990) in capo a chi, in qualità di mandatario di un gruppo, viene trovato in possesso di una notevole quantità di sostanze stupefacenti destinate all’uso “personale” del gruppo.
Il caso è quello di Tizio che, come in molte altre occasioni, d’accordo con alcuni amici, che avrebbero rimborsato la loro quota, acquistava 18 dosi di ecstasy da consumare insieme agli altri.
A fronte di una sentenza che ne dichiarava l’assoluzione, vista la irrilevanza penale del fatto inquadrato come uso personale di sostanze stupefacenti, proponeva ricorso in cassazione il Procuratore generale sostenendo che nel caso di specie la condotta di Tizio realizza un acquisto "destinato ad un uso non esclusivamente personale" e si pone in essere un fatto pericoloso ed allarmante, in quanto si contribuisce alla diffusione verso terzi delle sostanze stupefacenti ricevute, agevolando così i soggetti nel cui interesse opera materialmente l'acquisto, aumentandone il vizio.
 In proposito specifica che se l'uso di gruppo, anche nella sottospecie del mandato ad acquistare, poteva essere ritenuto un fatto non integrante ipotesi di reato, prima della novella legislativa n. 49 del 2006, per effetto della nuova formulazione dell'art. 73, comma 1 bis, lett. a (che punisce la detenzione di sostanze stupefacenti, quando per la quantità, modalità di presentazione o per altre circostanze "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale") e dell'art. 75, comma 1 (che prevede che non integrano illecito amministrativo e dunque costituiscono illecito penale le ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 bis) è da escludere che non costituisca fatto di rilevanza penale la condotta di chi acquista per sè e per mandato di altri.
La Suprema Corte, in contrasto con quanto affermato in una precedente occasione con la sentenza n. 23574 del 2009, ha precisato che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto collettivo conferito ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità degli altri non è punibile ai sensi dell’art. 73, comma 1 bis, lett. a), d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche dopo le modifiche apportate a tale disposizione dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49.
Di seguito si riporta la motivazione sul punto:
“Il ricorso del Procuratore generale si riallaccia esplicitamente a quanto deciso dalla seconda sezione di questa Corte, che, con sentenza 23574 in data 6 maggio 2009, ha enunciato il principio di diritto secondo cui, a seguito della novella introdotta dalla legge 49/2006, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi del mandato all'acquisito e/o dell'acquisto in comune, è ora sanzionato penalmente.
E' ciò in quanto, non essendo ipotizzabile in questi fatti un uso "esclusivamente" personale della sostanza stupefacente, entrambe le suddette ipotesi sono sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 73, comma 1 bis, lett. a).
La sentenza 23574/2009 ha infatti ritenuto che il problema della valutazione penale dell'uso di gruppo di stupefacenti, definito dalle S.U. (Cass., Sez. Un., 28 maggio-18 luglio 1999, n. 4, r.v. 208216) e confermato da successiva conforme giurisprudenza (sono state sul punto massimate oltre una quarantina di decisioni conformi), sia radicalmente da rivedere a seguito della L. n. 49 del 2006 la quale, nel modificare il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 al comma 1 bis, ha stabilito che è punito, con le medesime pene di cui al primo comma chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17, comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che "per quantità...ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale". Tanto più che, in parallelo, il novellato art. 75 dispone che è punito con delle semplice sanzioni amministrative chiunque "... comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dall'ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 bis...".
Ora, secondo la sentenza citata, le due norme stanno a significare che è soggetto alle sanzioni amministrative solo colui che detiene sostanze stupefacenti o psicotrope al fine di immediato personale consumo e tale conclusione si ottiene dal raffronto della nuova normativa con quella previgente, dal quale apparirebbero due novità:
a) la prima, data dal mutamento della struttura normativa in quanto, mentre il previgente art. 75 disponeva che "chiunque per farne un uso personale...comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope...è sottoposto alla sanzione amministrativa...", adesso la non punibilità penale va desunta dal combinato disposto dei novellati art. 73, comma 1 bis e art. 75, in base ai quali non è punibile penalmente ma amministrativamente chiunque detenga sostanze stupefacenti o psicotrope che, per quantità e modalità, appaiono destinate ad un uso esclusivamente personale;
b) la seconda, caratterizzata dalla variazione della struttura semantica della frase, perchè, nel novellato art. 73, è stato introdotto l'avverbio "esclusivamente" che non esisteva nel previgente articolo.
In base a questa novità sarebbe di "immediata evidenza" la circostanza che il legislatore ha inteso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti, così equiparando in tale ottica ogni tipo di sostanza stupefacente, graduando diversamente il trattamento sanzionatorio penale e prevedendo nuove misure repressive (cfr art. 75 bis). E il mutato quadro legislativo, imporrebbe di ripensare l'orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il previgente regime, considerato il significato pregnante che l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente" assume.
Si osserva in proposito che una cosa è "l'uso personale" di sostanze stupefacenti, altra e ben diversa cosa è "l'uso esclusivamente personale", frase questa che, proprio in virtù dell'avverbio, non può che condurre ad un'interpretazione più restrittiva rispetto a quella corrente nella vigenza del precedente testo.
Da ciò l'affermazione -coerente con tali premesse- che non può più farsi rientrare nell'ipotesi di consumo esclusivamente personale la fattispecie del c.d. uso di gruppo, all'interno della quale è inclusa l'ipotesi in cui un gruppo di persone dia mandato ad uno di loro di acquistare dello stupefacente, sia l'altra ipotesi in cui l'intero gruppo procede all'acquisto di stupefacente destinato ad essere consumato collettivamente.
Ha ribadito ancora la sentenza:
1) che l'acquisto per il gruppo, presuppone, per assioma, l'acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità e/o per modalità di presentazione, appare, necessariamente destinato ad un uso non esclusivamente personale;
2) che la ratio legis (ossia il chiaro intendimento del legislatore di contrastare il fenomeno della diffusione della droga con il rendere più difficile l'acquisto, la diffusione ed il consumo), fa evidente che l'area di esenzione penale, per motivi di politica legislativa, circoscritta ai casi in cui l'acquisto e la detenzione siano finalizzati al solo esclusivo uso di colui che sia stato trovato nel possesso di un minimo quantitativo di stupefacente, è escluso in tutti i rimanenti casi, come appunto il consumo di gruppo, in quanto le modalità di acquisto, non essendo esclusivamente personali, servono a facilitare il consumo e la diffusione della droga, ossia proprio ciò che la legge ha inteso vietare;
3) che, pertanto, la riforma ha spostato il baricentro della normativa "dal consumo personale" (che veniva sanzionato in via amministrativa prescindere dal fatto che la detenzione fosse destinata al singolo possessore o al gruppo) "al consumatore" nel senso che non è penalmente sanzionato solo colui il quale sia trovato nel possesso di un quantitativo di stupefacente che appare destinato ad un uso "esclusivamente personale", ossia ad essere consumato solo ed unicamente dallo stesso possessore.
2.) Ora, per saggiare la validità di una simile conclusione, è innanzitutto opportuno ripercorrere l'iter formativo della legge sopravvenuta.
L'esame dei lavori preparatori, che hanno comportato la conversione in legge, con modificazioni del D.L. n. 272 del 2005 ed in particolare la lettura del resoconto stenografico della seduta n. 947 del 26 gennaio 2006 (atto Senato S. 376), non consente di chiarire univocamente il contesto che ha connotato l'approvazione definitiva delle norme in tema di stupefacenti.
Nello specifico, il dato di evidenza, documentato dagli interventi dei parlamentari è quello di due antipodiche interpretazioni del valore attribuibile alle modifiche normative in discussione: da un lato, per le opposizioni la matrice sostanzialmente repressiva della equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti e della equivalenza tra uso e spaccio; dall'altro, per il governo e la maggioranza, un provvedimento, chiesto dalla Consulta per le tossicodipendenze, idoneo ad affermare con chiarezza l'antigiuridicità del consumo delle sostanze stupefacenti, ed in grado di proporre al Paese un nuovo modo di interpretare il fenomeno.
Secondo questi ultimi, premesso che "drogarsi non è un diritto di libertà, bensì un disvalore e che lo Stato ha il dovere di difendere i cittadini", le nuove norme avrebbero posto una "barriera di principio e normativa articolata sulla rimodulazione dell'apparato repressivo", con il "superamento della mistificante distinzione fra uso e spaccio", per quel che qui importa, e tanto con il recupero del concetto di uso personale.
Per contro gli altri parlamentari vedevano nel testo, come già si è accennato, solo un appesantimento repressivo delle sanzioni, fermo restando l'ambito, già delineato dalla precedente normativa, della loro applicabilità. 3.) Tanto detto, ritiene questo collegio che le conclusioni della seconda sezione della Corte non siano condivisibili.
A questo proposito, si tratta di verificare se la nuova formulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, valutata nel complesso delle innovazioni caratterizzanti la L. n. 49 del 2006, e nel rispetto dell'art. 12 preleggi, sia o meno idonea ad escludere l'ipotesi dell'uso di gruppo di sostanze stupefacenti.
Come si è visto, è l'uso dell'avverbio "esclusivamente" ad essere ritenuto risolutivo per la soluzione del problema.
Esso peraltro, nella novella, risulta due volte in due diversi contesti:
a) in punto di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, all'art. 73, comma 1 bis, lett. a): "....appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale";
b) in punto di condotte integranti illeciti amministrativi, all'art. 75: "l'interessato può chiedere di prendere visione e di ottenere copia degli atti... che riguardino esclusivamente la sua persona".
Tanto premesso, ferma restando l'evidenza che l'avverbio in questione, avverbio di modo o qualità, è stato usato in entrambi i casi con funzione e finalità affermativa rafforzativa, ci si deve chiedere se è sufficiente il suo inserimento nel testo di legge per paralizzare "l'uso di gruppo", oppure se invece sarebbe stata essenziale, a tale effetto interpretativo, una esplicita ed inequivoca indicazione del legislatore, tanto più necessaria, avuto riguardo all'esito referendario (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171), e tenuto altresì conto che l'espressione "non esclusivamente personale" ha il medesimo intercambiabile significato di "tassativamente personale", suggerendo così all'interprete la ragionevole impressione di un'aggiunta ridondante, superflua e pleonastica.
Per di più, contrariamente all'assunto della seconda sezione, l'uso della forma indeterminativa "un uso esclusivamente personale" consente dunque inquadramenti nell'area di rilevanza meramente amministrativa delle condotte finalizzate all'uso esclusivamente personale (anche) di persone diverse.
E, pertanto, si verserebbe in un "deficit di determinatezza e di sicurezza ermeneutica" con violazione del principio di precisione derivante direttamente dalle norme della nostra Carta costituzionale:
se la finalità era quella di sanzionare comunque l'uso di gruppo, nelle due variabili dell'uso di gruppo vero e proprio (strictu sensu) e dell'uso comune, di un bene che (come nella fattispecie) è stato oggetto di previo mandato ad acquistare, essa è stata male espressa, con la conseguenza che, in ogni caso, nel dubbio interpretativo, vale l'opzione più favorevole al reo.
In buona sostanza ed in altre parole, la norma in esame non è dotata, per l'effetto, di quel grado di determinatezza sufficiente a fornire all'interprete una via indiscussa nell'individuare i nuovi pretesi percorsi applicativi, ove l'intenzione del legislatore, lo si ripete, fosse stata quella di escludere in radice la legittimità dell'uso di gruppo, nei termini indicati dalle S.U., tanto doveva essere affermato in modo esplicito ed in termini tali da consentirne la diretta percezione da parte di chiunque e non certo mediante sintagmi, variamente interpretabili, e con sequenze lineari (sostantivo - negazione - avverbio - aggettivo) in grado da produrre equivoci ed incertezze che, come tali, vanno necessariamente valutati "pro reo". 4) Dopo la decisione delle S.U. del 1997 in tema di uso di gruppo sono state infatti massimate decine di sentenze dalle quali è possibile individuare con estrema chiarezza le condizioni richieste dalla Corte di legittimità per ritenere la sussistenza di tale realtà.
In dottrina inoltre l'utilizzo di gruppo di sostanze droganti (quale forma specifica e qualificata dell'uso personale), è stato analizzato e pesato come condotta assimilabile alle vere e proprie cause di giustificazione.
La ragione è stata individuata nella considerazione che il comportamento ritenuto astrattamente illecito (essere in possesso di stupefacenti), finisce per essere privato di quell'immanente carattere di antigiuridicità, laddove si rinvengano elementi conformi che permettano di ricondurre la condotta, altrimenti penalmente rilevante (e sanzionabile) in un contesto extra penale.
L'analisi del fatto e delle sue connotazioni consente così di modificare il profilo di illiceità qualificante la condotta in esame.
Il risultato non è quello di rendere lecita, o meritevole di tutela giuridica, tale condotta, ma ciò che viene a mutare è il grado di offensività della stessa, che determina l'inserimento della fattispecie in una piuttosto che in un'altra categoria di illeciti.
In definitiva, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, quale ipotesi di non punibilità, si appalesa come una particolare specie del più ampio genus configurante il concetto di detenzione, indicato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ritenuto che la specificità decisiva, la quale consente di concludere nel senso della irrilevanza penale di un acquisto e di una derivata detenzione di droga da parte di più persone riunite, sia il raggiungimento della prova positiva di una comune ed originaria finalità che unisce e da forma alla partecipazione dei singoli alle condotte descritte.
Come perspicuamente rilevato, il disegno perseguito dai soggetti partecipanti all'acquisto deve, pertanto, caratterizzarsi palesemente nel denominatore comune di un uso esclusivamente personale.
Ne consegue che l'adesione preliminare a simile progetto comune esclude che colui (o coloro) che acquista, su incarico degli altri sodali, si ponga in una posizione di estraneità rispetto ai mandanti l'acquisto destinatari dello stupefacente, come si verifica (in ambito civilistico) per colui che operi in nome e per conto altrui, ma rimanga estraneo agli effetti del negozio che egli ha concluso.
E' inoltre richiesto:
a) che l'acquirente-mandatario, il quale opera materialmente (o conclude) le trattative di acquisto, sia anche lui uno degli assuntori (Cass. pen. sez. 4, 35682/2007);
b) che sia certa sin dall'inizio l'identità dei componenti il gruppo, nonchè manifesta la comune e condivisa volontà di procurarsi la sostanza destinata al paritario consumo personale (Cass. pen. sez. 6, 37078/2007) e si sia del pari raggiunta un'intesa in ordine al luogo ed ai tempi del relativo consumo (Cass. pen. sez. 6, 28318/2003, r.v. 225684);
c) che gli effetti dell'acquisizione traslino direttamente in capo agli interessati, senza passaggi mediati (Cass. pen. sez. 5, 31443/2006).
Pertanto, l'originaria finalizzazione di ripartire il compendio psicotropo fra i partecipanti al gruppo e la destinazione al consumo esclusivo dei medesimi della droga acquistata o detenuta da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri, si propone come elemento che rende inequivoca l'unicità del comportamento ed esclude frammentazioni determinate da ulteriori passaggi, i quali configurerebbero autonome cessioni penalmente rilevanti (Cass. pen. sez. 4, 4842/2003, r.v. 229368).
Per tutto quello che si è detto, l'avverbio in parola non lede la validità di tale ricostruzione e l'uso di gruppo è quindi una forma di uso "esclusivamente personale". 5) Ferme restando tali considerazioni, ci si deve allora chiedere quale sia il valore normativo del nuovo sintagma introdotto dalla novella del 2006.
A questo punto, reputa la Corte, ribadita la non sanzionabilità penale dell'uso di gruppo, il quale consegua ad un mandato ad acquistare, che debba assumersi una difforme conclusione per tutte le altre diverse residue "condotte di consumo di gruppo", nelle ipotesi in cui, nell'assenza del preventivo mandato (in ragione della futura ripartizione e destinazione all'esclusivo uso personale), più persone decidano, concordemente e unitariamente, di consumare droga, già detenuta da uno di loro.
In tale evenienza infatti non si concretizza affatto la previsione di "uso non esclusivamente personale", e, quindi, il comportamento del detentore risulta ora penalmente sanzionabile (nel senso della inquadrabilità anche di tale ultima evenienza nell'uso di gruppo, prima della riforma del 2006, cfr. Cass. pen. sez. 6, 29174/2008), trattandosi di due situazioni diverse e non omologabili, per la difforme potenziale lesività delle condotte, nelle quali il cedente è originariamente in posizione di estraneità rispetto agli altri consumatori, i quali, pertanto, non possono in alcun modo essere considerati come co-detentori della sostanza fin dal momento dell'acquisto, da cui essi fruitori sono rimasti estranei (cfr. in termini: cass. pen. sezione. 6, 9075/1999), con evidente necessaria amplificazione ed aggravamento della negativa realtà del fenomeno dell'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.
6) Venendo infine al caso di specie, ed osservato che in esso si è invece compiutamente realizzata la diversa ipotesi di un acquisto di stupefacente, per uso di gruppo (in nome e per conto degli altri mandanti consumatori, con determinazione anche del luogo di consumazione), adeguatamente argomentato nella motivazione del primo giudice, il ricorso del Procuratore generale non può essere accolto.”