sabato 19 febbraio 2011

Le società d’ambito per la gestione dei rifiuti sono soggette al D.L.vo 231/2001.

Cassazione penale, sez. II, 10 gennaio 2011 n. 234.

La questione giuridica affrontata dalla Cassazione nella sentenza in esame è quella di stabilire se le A.T.O. costituite nella forma delle società per azioni per svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti trasferite alla stessa da Enti pubblici territoriali, siano soggette, o meno, alla normativa in materia di responsabilità amministrativa da reato.
Alla base della questione vi è la controversa interpretazione dell’art. 1, comma 3 del D.L.vo n. 231 del 2001 che esclude l’applicabilità del decreto “allo Stato agli enti pubblici territoriali, agli altri Enti pubblici non economici nonché agli Enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.
In merito bisogna precisare che la formulazione utilizzata dal decreto è parzialmente diversa da quella della legge delega che all’art. 11 comma 2 precisava che per persone giuridiche destinatarie del decreto “si intendevano gli enti forniti di personalità giuridica eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri”.
Quindi, per la legge delega, l’esclusione della responsabilità avrebbe dovuto essere prevista soltanto per gli Enti che esercitano pubblici poteri.
Nella Relazione al decreto legislativo il problema della divergenza, sul punto, rispetto alla legge delega viene esplicitamente affrontato. Si pone, infatti, in evidenza che dalla locuzione “enti pubblici che esercitano pubblici poteri” esulano numerosi enti pubblici fra i quali la categoria più significativa concerne gli enti pubblici che erogano un servizio.
Il legislatore delegato ha negato di avere operato una vera divergenza dalla legge delega affermando che il complesso delle indicazioni contenute nella legge lascerebbe intendere che il legislatore delegante abbia avuto di mira la repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività assistite “da fini di profitto”.
Proprio sulla base di questa interpretazione, vista l’attività economica svolta dalle autorità d’ambito, la Cassazione dichiara per esse l’applicabilità della responsabilità amministrativa da reato.
Di seguito si riporta la motivazione sul punto della Suprema corte:
“In base al dato normativo una corretta lettura della disciplina concernente la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica porta a ritenere che possano essere esonerati dall'applicazione del d. lgs. N. 231/2001 soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici (art. 1, u.c. d.lgs. 231/2001).
Appare dunque evidente che la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria ma non sufficiente per l'esonero dalla disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione dell'assenza di svolgimento di attività economica da parte dell'ente medesimo. Nel caso in questione appare pacifico lo svolgimento dell'attività economica da parte della soc. E. s.p.a.,che, anzi, proprio in ragione della sua struttura societaria evidenzia la presenza di una tale caratteristica. Tale conclusione peraltro è condivisa dallo stesso Tribunale del riesame, che sottolinea come la soc. E. s.p.a. deve informare, tra l'altro, la propria attività a criteri di economicità consentendo la totale copertura dei costi della gestione integrata e integrale del ciclo dei rifiuti, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti dell'art. 2201 del c.c. Ciò premesso però il Tribunale del riesame ha escluso l'applicabilità della disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2001 sulla base dell'avvenuto trasferimento di funzioni dall'ente territoriale Comune alla società d'ambito costituita in forma di s.p.a., a seguito del commissariamento emergenziale della regione Sicilia in materia di rifiuti, come imposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della protezione civile. Proprio dal trasferimento delle funzioni dall'ente territoriale alla Società d'ambito deriverebbe l'impossibilità di applicare la disciplina del
d.lgs. n. 231/2001.
Una tale conclusione non può essere condivisa. La ratio dell'esenzione è infatti quella di escludere dall'applicazione delle misure cautelari e delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 231/2001 enti non solo pubblici, ma che svolgano funzioni non economiche, istituzionalmente rilevanti, sotto il profilo dell'assetto costituzionale dello Stato amministrazione. In questo caso, infatti, verrebbero in considerazione ragioni dirimenti che traggono la loro origine dalla necessità di evitare la sospensione di funzioni essenziali nel quadro degli equilibri dell'organizzazione costituzionale del Paese. Nella fattispecie in esame tuttavia proprio la preminente, se non esclusiva, attività di impresa che deve essere riconosciuta alla Società ENNAEUNO s.p.a. non può essere messa in dubbio dallo svolgimento di una attività, che ha sicuramente ricadute indirette su beni costituzionalmente garantiti, quali ad esempio il diritto alla salute (art. 32 cost.), il diritto all'ambiente (art. 9 cost.), ma che innanzitutto si caratterizza per una attività e per un servizio che, per statuto, sono impostati su criteri di economicità, ravvisabili nella tendenziale equiparazione tra costi ed i ricavi, per consentire la totale copertura dei costi della gestione integrata ed integrale del ciclo dei rifiuti. Non si tratta dunque di avallare un criterio "formale" di applicazione della norma, ma di individuare attraverso una lettura strutturale della norma medesima, il suo corretto ambito applicativo, quale emerge anche dal dato letterale. L'attribuzione di funzioni di rilevanza costituzionale, quali sono riconosciute agli enti pubblici territoriali, come i comuni, non possono tralaticiamente essere riconosciute a soggetti che hanno la struttura di una società per azioni, in cui la funzione di realizzare un utile economico,è comunque un dato caratterizzante la loro costituzione. Una conclusione diversa porterebbe all'inaccettabile conclusione, sicuramente al di fuori sia della volontà del legislatore delegante che del legislatore delegato, di escludere dall'ambito di applicazione della disciplina in esame un numero pressoché illimitato di enti operanti non solo nel settore dello smaltimento dei rifiuti, e quindi con attività in cui viene in rilievo, come interesse diffuso, il diritto alla salute e all'ambiente, ma anche là dove viene in rilievo quello all'informazione, alla sicurezza antinfortunistica, all'igiene del lavoro, alla tutela del patrimonio storico e artistico, all'istruzione e alla ricerca scientifica, in sostanza in tutti i casi in cui vengono ad essere coinvolti, seppur indirettamente, dall'attività degli enti interessati, i valori costituzionali di cui alla parte prima della Costituzione (v. anche Cass., sez. II, 9 luglio 2010, n. 28699, C.E.D. cass.,n. 247669)”.




lunedì 14 febbraio 2011

La Cassazione sulla costituzione di parte civile nel processo agli Enti.

Cassazione penale, sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251.

Uno tra i tanti problemi applicativi sorti all’indomani dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 231 del 2001 che, come noto, ha spazzato via dal nostro ordinamento l’inveterato principio societas delinquere non potest, è stato certamente quello della ammissibilità, o meno, della costituzione di parte civile nell’ambito del processo a carico dell’Ente.
La questione, nata per l’assenza nel decreto 231/2001 di una disposizione espressa che regoli l’istituto della costituzione di parte civile, ha profondamente diviso dottrina e giurisprudenza tra le posizioni di chi ne ritiene la ammissibilità in virtù del rinvio generale alle norme del codice di procedura penale operato dall’art. 34 del decreto stesso, e chi, invece, la esclude interpretando l’assenza di una disciplina espressa come frutto di una precisa volontà del legislatore in tal senso. (per un quadro generale del problema v. FORLEO G., Il D.L.vo 8 giugno 2001 n. 231: la controversa ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico dell’Ente, in Tempio di Giove, 2009, 4, 40 ss.
Con la sentenza in commento la Suprema Corte è intervenuta proprio per dirimere il suddetto contrasto sorto in seno alla giurisprudenza di merito, affermando in maniera perentoria la non ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo penale a carico dell’Ente.
Di seguito si riporta la motivazione della Corte sul punto.
"Il problema dell'ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti ha dato luogo a interpretazioni contrastanti sia nella dottrina, che nella giurisprudenza di merito. In alcuni casi l'esclusione della parte civile è stata giustificata con riferimento alla natura formalmente amministrativa della responsabilità prevista nel d.lgs. n. 231/2001, mentre quanti propendono per la natura sostanzialmente penale di questo tipo di responsabilità da reato sono favorevoli a riconoscere tale possibilità in capo alla parte civile. In altri termini, il dibattito sulla questione in oggetto ha finito per investire il tema della natura della responsabilità degli enti, tema quanto mai incerto, su cui la giurisprudenza, almeno quella di legittimità, non si è ancora pronunciata in termini definitivi, mentre la dottrina si è divisa, proponendo una molteplicità di interpretazioni, che vanno dal riconoscimento della natura di vera e propria responsabilità penale, alla negazione di essa, per affermare che si tratti di una responsabilità amministrativa, fino a ritenere che ci si trovi dinanzi ad una sorta di tertium genus di responsabilità, diversa dalle tradizionali categorie della responsabilità penale e amministrativa, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale, in cui vengono coniugati elementi del sistema penale e amministrativo, nel tentativo di "contemperare le ragioni dell' efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia".
Sebbene questa Corte si sia pronunciata, per incidens, sulla natura della responsabilità ritenendo che si tratti di un tertium genus (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Brill Rover s.r.l. ed altro), tuttavia deve ritenersi, condividendo quanto sostenuto da autorevole dottrina, che lo specifico problema relativo alla ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti non dipenda, in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura della responsabilità prevista nel d.lgs. 231/2001. La soluzione, infatti, può essere svincolata dal tema relativo alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che rischia di diventare una questione meramente nominalistica, per essere affrontata attraverso l'esame positivo dei contenuti della speciale normativa che disciplina il processo nei confronti degli enti, vagliandone la compatibilità con l'istituto codicistico della costituzione di parte civile.
In questo approccio ermeneutico il punto di partenza non può che essere la constatazione che nel d.lgs. 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione, nel d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla persona offesa) porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione Il del capo m del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell'ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all'udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.
Peraltro, accanto alla materiale "assenza" di riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs. 231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di escludere questo soggetto dal processo. Da un lato, vi è l'art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell' ente la limita all'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria. senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili; dall'altro lato, appare particolarmente significativa la regolamentazione del sequestro conservativo, di cui all'art. 54. L'omologo istituto codicistico di cui all'art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della "pena pecuniaria delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario", sia delle "obbligazioni civili derivanti dal reato", in quest'ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro; invece, il citato art. 54 d.lgs. 231/2001 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all'erario), sequestro che può essere richiesto unicamente dal pubblico ministero. Anche qui il legislatore ha compiuto la scelta consapevole, escludendo la funzione di garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della parte civile.
Già queste osservazioni, che fanno leva sull'interpretazione letterale delle norme che disciplinano il processo a carico degli enti, evidenziano la scelta, compiuta dal legislatore del 2001, favorevole ad escludere la parte civile e dimostrano come il tentativo di propone un'interpretazione che porti ad applicare, in via estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione della parte civile si presenti di difficile attuazione, soprattutto perché manca una vera e propria "lacuna normativa" da colmare. L'ampliamento della competenza del giudice penale ad occuparsi anche dell'azione civile avrebbe dovuto avvenire attraverso la esplicita previsione di legge e a questo proposito si è rilevato, da parte di attenta dottrina, che l'art. 111 Cost., così come modificato, pretende il rispetto del principio di stretta legalità quale "criterio direttivo di tutta la disciplina del processo penale", sicché non sarebbe ammissibile ricorrere ad una interpretazione analogica degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.
Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina ritiene che sia possibile applicare direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di cui all'art. 34 d.lgs. 231/2001, sul presupposto della piena compatibilità dell'istituto della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti.
Invero, il tentativo di applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due disposizioni menzionate non tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l'ente viene chiamato a rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio. Il reato che viene realizzato dai vertici dell'ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l'illecito da cui deriva la responsabilità dell'ente che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell'interesse o del vantaggio che l'ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato. In altri termini, all'accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del vantaggio derivato all'ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, in presenza cioè di criteri di collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio dell'altro che risponde autonomamente dell'illecito "amministrativo". Ne deriva che tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone.
Di conseguenza, se l'illecito amministrativo ascrivibile all'ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un'applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al "reato" in senso tecnico. L'ostacolo maggiore all'applicazione diretta dell'art. 185 c.p. nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/200 1 - non importa se attraverso una interpretazione estensiva o analogica - è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi della nonna citata, che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest'ultima che non può coprire anche l'illecito dell'ente, cosi come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo, anche l'art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell'art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti dall'art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato.
In sostanza, l'impossibilità di procedere all'applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell'illecito amministrativo.
Queste stesse obiezioni valgono anche nei confronti della tesi sostenuta nella articolata e approfondita memoria presentata nell'interesse di E. ed E. P. s.p.a. che, riprendendo argomentazioni proposte da un'autorevole dottrina, ritiene ammissibile la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti, assumendo che la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs. 231/2001 è, comunque, fonte di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c., sicuramente azionabile in sede civile e poiché costituisce principio generale che anche in sede penale vi sia la possibilità di azionare tali pretese in base agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., una volta che la competenza del giudice penale è stata estesa all'illecito dell'ente non vi sarebbero ragioni per introdurre una diversa disciplina in materia, soprattutto considerando che l'ente risponde per fatto proprio e in misura del tutto autonoma rispetto alla condotta della persona fisica. Il ricorso all'art. 185 c.p. viene giustificato sia per la sostanziale natura civilistica della norma, che ne consente l'applicazione anche analogica, sia per l'inscindibile collegamento della responsabilità dell'ente con l'illecito penale, situazione questa che legittima l'ingresso nel processo a carico dell'ente delle disposizioni in materia di costituzione della parte civile.
Invero, tanto l'inquadramento dell'illecito dell'ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043 c.c., quanto il riconoscimento che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto proprio, non paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo debba trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte civile, in mancanza di dati normativi positivi che autorizzino una tale conclusione.
Sotto un primo profilo, si osserva come la gestione dell'azione civile nel processo penale, lungi dall'essere un principio generale dell'ordinamento, si presenti in realtà sotto specie di una deroga al principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale, affermato nel codice del 1988 (in particolare dall'art. 75 c.p.p., espressione del c.d. lavor separationis), tanto che le disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale dell'azione civile sono da considerare di natura quasi eccezionale. Sicché deve convenirsi con chi, in assenza di ogni esplicito riferimento ad azioni diverse da quella penale e in mancanza di una qualunque base normativa al riguardo, esclude che nel processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un'azione civile nei confronti dell'ente: per ritenere che il giudice competente a conoscere l'illecito dell'ente sia anche competente a conoscere i danni derivanti da esso sarebbe stata necessaria una previsione espressa.
Inoltre, la scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante dall'illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato. Non convince la tesi, sostenuta nella memoria depositata dal difensore dell'A. s.p.a. e dell'A. P. s.p.a., secondo cui "il danno prodotto dall'illecito amministrativo è pur sempre cagionato dal medesimo fatto che è reato per la persona fisica e illecito per l'ente", sicché si tratterebbe di un "fatto di entrambi" i soggetti con la conseguenza che anche l'ente "risponde dei danni causati dal suo contributo concorsuale al reato".
In questo modo si finisce per sostenere che l'esercizio dell'azione civile nel processo disciplinato dal d.lgs. 231/2001 riguardi il danno derivante dal reato. attribuendolo indifferentemente alla persona fisica e all'ente e negando, contraddittoriamente. che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto proprio, che trova la sua ragione nella commissione di un illecito complesso, in cui il reato è solo uno degli elementi.
Invece, va ribadita l'autonomia dell'illecito addebitato all'ente, dovendo distinguersi la sua responsabilità da quella della persona fisica e riconoscendo che l'eventuale danno cagionato dal reato non coincide con quello derivante dall'illecito amministrativo di cui risponde l'ente.
In realtà, deve convenirsi con quella dottrina che, molto acutamente, ha evidenziato come "i danni riferibili al reato sembrano esaurire l'orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa risarcitoria", escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente dall'illecito dell'ente. E' stato posto in risalto come non possano essere considerati danni prodotti dall'illecito amministrativo quelle ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei creditori e dei dipendenti dell'ente per effetto dell' applicazione delle sanzioni a seguito dell' accertata responsabilità dell' ente, in quanto l'eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua causa diretta nell'illecito amministrativo; peraltro, anche i danni subiti dai soci e dai terzi incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva contenuta nell'art. 11 lett. v) della legge delega n. 300/2000, a cui non è stata data attuazione, non erano quelli derivanti direttamente dall'illecito amministrativo, ma costituivano anch'essi ricadute negative derivanti dall'applicazione delle sanzioni, pecuniarie o interdittive.
Se non è ipotizzabile l'esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell'illecito amministrativo allora "l'ostinato silenzio" del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l'esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell' ente.
In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che un danno possa derivare direttamente dall'illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già illustrate, ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex d.lgs. 231/2001.
Un altro argomento utilizzato nella memoria difensiva dell'A. s.p.a. e dell'A. P. s.p.a. a sostegno dell'ammissibilità della costituzione della parte civile nel processo degli enti fa leva sulle disposizioni del d.lgs. 231/2001, che pongono le premesse per il soddisfacimento delle pretese risarcitorie e restitutorie della persona offesa, sottolineando come la ratio del decreto sia quella di tutelare l'interesse dei danneggiati dal fatto illecito, al pari dell'interesse alla punizione dell'ente. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17, che consentono all' ente di ottenere l'esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonché all'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di profitto che può essere restituita al danneggiato.
A questo proposto si osserva, preliminarmente, che dalla formulazione inequivocabile delle disposizioni menzionate si ricava che il danno cui si riferiscono è quello derivante dal reato e non quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente, sicché le argomentazioni possono essere rovesciate e sostenere che il legislatore, ancora una volta, ha escluso la configurabilità di conseguenze dannose derivante dall'illecito amministrativo, limitandosi a prevedere "sconti" di sanzioni collegate esclusivamente a forme di "reintegrazione" di danni da reato.
In ogni caso, è stato notato come il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. "ravvedimento operoso" è circostanza del tutto neutra rispetto al problema dell'ammissibilità della costituzione di parte civile, come è dimostrato dalla disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni, in cui è prevista la possibilità di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e nello stesso tempo è esclusa l'ammissibilità dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale (art. 10).
In conclusione deve ritenersi che nel processo a carico dell'ente, così come disciplinato nel d.lgs. 231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile. Questa deroga rispetto a quanto previsto nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.. La "disparità" di trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da adeguata giustificazione in considerazione dell'illecito oggetto dell'accertamento nel processo a carico dell'ente che, prescindendo dalla definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui, come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali dell'illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la costituzione della parte civile.
Anche il dedotto contrasto con l'art. 24 Cost. appare manifestamente infondato. Innanzitutto deve escludersi che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus processus; inoltre, nel processo ex d.lgs. 231/2001 la posizione del danneggiato è comunque garantita, in quanto oltre a poter tutelare immediatamente i propri interessi davanti al giudice civile, può citare l'ente come responsabile civile ai sensi dell'art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale dell'autore del reato, commesso nell'interesse nella persona giuridica, e lo può fare - normalmente - nello stesso processo in cui si accerti la responsabilità dell' ente".

martedì 1 febbraio 2011

La Cassazione sulla prescrizione del reato di riciclaggio.

Cassazione penale, sez. II, 7 gennaio 2011, n. 546.

Nella sentenza indicata in epigrafe la Suprema corte affronta il problema di stabilire nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 648 bis c.p. se, per il calcolo del termine di prescrizione di atti di riciclaggio consistenti in operazioni in uscita da un conto corrente, bisogna avere riguardo al giorno del versamento della relativa provvista ovvero se occorre riferirsi ad ogni singolo atto di prelievo o trasferimento, documentalmente individuabile.
il caso è quello di Tizio, a carico del quale veniva elevata dalla Procura della Repubblica  l'imputazione di riciclaggio continuato, per aver disperso ed occultato denaro provento di appropriazione indebita ai danni di Fininvest S.p.A. pervenuto sul c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS), del quale l'imputato era beneficiario economico, oltre che delegato alla firma (così come era delegato alla firma P.D., poi deceduto, ex funzionario Fininvest).
Secondo l'impostazione accusatoria, tale denaro era pervenuto su detto c/c grazie ai versamenti a suo favore disposti da società di diritto estero all'esito di operazioni giustificate da fittizie causali di pagamento di diritti di sfruttamento economico dell'immagine di sportivi, nonchè di opere televisive e cinematografiche.
Le società estere che in tal modo avevano alimentato il c/c Jasran SBS n. (OMISSIS) erano: Redmond Trading Ltd., Woodard Investiment Corporation Ltd., Scarlet International Overseas, Wolstein Overseas Corp., Image Management Group Ltd. (d'ora innanzi anche semplicemente IMI) e Sport Management Group Ltd. (d'ora innanzi anche semplicemente SMG).
A sua volta l'imputato, sempre secondo l'accusa, aveva disperso ed occultato i fondi così pervenuti sul predetto c/c mediante prelievi in contanti ed ulteriori trasferimenti dei fondi de quibus ad altri c/c all'estero (per lo più in Svizzera), intestati ad entità sconosciute e/o contraddistinti da sigle misteriose dietro le quali si celavano ignoti beneficiari.
La Corte d'Appello, con sentenza 14.10.2010, in parziale riforma della pronuncia di prime cure dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai fatti commessi relativamente alle operazioni di prelievo in contanti e di trasferimento di somme di denaro provenienti da Image Management International Ltd. e da Sport Management Group Ltd, perchè estinti per prescrizione.
Il P.G. ricorreva per Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza di secondo grado perchè erroneamente i giudici del gravame avevano dichiarato estinto per prescrizione il reato addebitato al Tizioavuto riguardo, come tempus commissi delicti, all'epoca degli accrediti effettuati da IMI e SMG sul c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS), nell'arco di tempo compreso tra il 18.1.95 e l'8.7.95, ritenendo iniqua una lettura del capo di imputazione che non correlasse le date di operazioni in uscita di fondi dal c/c a quelle di loro entrata: obiettava, invece, il PG territoriale che, poichè il delitto di riciclaggio non costituiva più un reato a consumazione anticipata, essendo tradotto in una norma penale a più fattispecie, il prelievo in contanti o il trasferimento del denaro (dal predetto c/c Jasran SBS) su altri c/c non costituiva un mero post factum, bensì un'ulteriore modalità di commissione del delitto p. e p. ex art. 648 bis c.p..
La Suprema corte osserva che il motivo di ricorso del PG è fondato e che non è precluso o coperto da giudicato parziale relativo alle statuizioni sulla prescrizione contenute nella sentenza di primo grado.
Infatti, poichè questa aveva dichiarato prescritto il reato in rapporto ai prelievi e ai trasferimenti di somme di denaro provenienti da IMI effettuati sino alla data del 28.10.94, il giudicato progressivo di cui parla la difesa di Tizio concerneva soltanto gli atti di riciclaggio consumati mediante le operazioni in uscita verificatesi - appunto - fino al 28.10.94, non anche quelli attuati attraverso i successivi prelievi e trasferimenti (che sono stati dichiarati prescritti in appello, a seguito dell'impugnazione del PM).
Nè può parlarsi di giudicato progressivo o preclusione in rapporto ad un mero criterio di calcolo della prescrizione adoperato dai primi giudici solo con riferimento ad altre precedenti condotte fra quelle oggetto del capo d'accusa, non investite dall'appello del PM. Ciò detto, l'errore in cui incorrono l'impugnata sentenza e le considerazioni i difensive di Tizio risiede nel trascurare tutte le implicazioni proprie della fungibilità del denaro.
Essa fa sì che, una volta confluiti nel c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS), tutti i versamenti effettuativi si siano confusi (a prescindere dalla provenienza), senza poter mantenere una propria identità all'interno della provvista così creata.
Di conseguenza, ogni prelievo o trasferimento fondi contestato in uscita (l'ultimo dei quali è del 21.11.95, per complessivi 484.000 CHF, come si legge anche a pag. 17 della memoria difensiva dell'imputato recante la data del 20.12.2010) ha attinto a una provvista complessiva formata da tutti i versamenti in precedenza effettuati sul c/c medesimo, giacchè proprio tale fungibilità del denaro fa sì che esso venga automaticamente sostituito, essendo l'istituto di credito obbligato a restituire al depositante il mero tantundem (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 495 del 15.10.08, dep. 9.1.09; Cass. Sez. 2^ n. 13155 del 15.4.86, dep. 24.11.86).
A sua volta, posto che il delitto di riciclaggio è a forma libera e, potenzialmente, a consumazione prolungata attuabile anche con modalità frammentarie e progressive (cfr. Cass. Sez. 2^, n. 34511 del 29.4.09, dep. 7.9.09), qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti integra di per sè un altro autonomo atto di riciclaggio, così come lo integra anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un c/c ad un altro diversamente intestato ed acceso presso differente istituto di credito (v. Cass. Sez. 2^, n. 47375 del 6.11.09, dep. 14.12.09, cit.), a prescindere dal rilievo che tali movimentazioni siano eseguite avvalendosi della firma di altri contitolari del relativo potere su un dato c/c, come addebitato a Tizio.
Quindi, per calcolare il termine di prescrizione di atti di riciclaggio consistenti in operazioni in uscita dal c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS), non bisogna avere riguardo (come erroneamente hanno fatto i giudici del merito) al giorno del versamento della relativa provvista, proprio perchè essa, grazie alla fungibilità del denaro, non è più distinguibile una volta avutosene il versamento su un c/c alimentato da una pluralità di versamenti.
In breve, è arbitrario collegare tali operazioni in uscita dal c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS) alle precedenti operazioni che sul c/c medesimo hanno costituito la complessiva provvista e/o domandarsi quali versamenti siano stati espunti o meno dal presente giudizio, trattandosi di collegamento impedito a monte - giova rimarcare - dalla fungibilità del denaro ed avendo ogni singolo atto di prelievo o trasferimento autonomia delittuosa rispetto ai precedenti segmenti operativi che detta provvista hanno costituito.
Tale collegamento avrebbe forse potuto avere un senso soltanto solo se in un qualche momento il saldo del c/c Jasran SBS di Lugano n. (OMISSIS) fosse stato azzerato e, dopo, i nuovi versamenti pervenutivi fossero stati tutti di provenienza non delittuosa, il che - invece - non risulta neppure a livello di mera allegazione.
Nè ha pregio l'obiezione difensiva secondo cui il dies a quo nel calcolo della prescrizione deve essere quello più favorevole all'imputato, perchè ciò vale solo in caso di incerta od approssimativa collocazione cronologica del tempus commissi delicti, che invece nel caso di specie - trattandosi di reato continuato - va fissato in coincidenza con ogni singolo atto di prelievo o trasferimento, documentalmente individuabile.