sabato 16 marzo 2013

La Cassazione sulla legittimazione attiva dell'imputato all'impugnazione del proscioglimento.

CASSAZIONE PENALE – Sez. V – 7 gennaio 2013 n. 240 – Pres. Teresi – Est. De Marzo –
Falsità in atti – proscioglimento – impugnazione – legittimazione attiva – imputato.
Il capo della sentenza relativo alla declaratoria di falsità è appellabile dall’imputato anche in caso di proscioglimento, posto che l’art. 537, comma 3, cod. proc. pen., istituisce una regola speciale rispetto a quella dettata dall’art. 593, comma 2, cod. proc. pen..

Commento del dott. Filippo Camela

La comprensione della vicenda da cui trae origine la pronuncia della Suprema Corte impone una breve disamina del matrimonio concordatario, disciplinato dal diritto canonico e con effetti anche civili (una volta adempiuto l’onere di trascrizione nel registro degli atti dello stato civile italiano), contratto in pericolo di vita. L’atto su cui si fonda il matrimonio è “il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna potestà umana” (can. 1057, §1). La Chiesa, tuttavia, concede la possibilità di sposarsi in articulo mortis in presenza di un concreto e reale pericolo di decesso di uno dei contraenti. Al riguardo, il can. 1079 dispone che in urgente pericolo di morte “l'Ordinario del luogo può dispensare i propri sudditi, dovunque dimorino, e quanti vivono attualmente nel suo territorio, sia dalla osservanza della forma prescritta per la celebrazione del matrimonio, sia da tutti e singoli gli
impedimenti di diritto ecclesiastico, pubblici e occulti”, precisando che “nei casi in cui non sia possibile ricorrere neppure all'Ordinario del luogo, hanno uguale facoltà di dispensare, sia il parroco sia il ministro sacro legittimamente delegato sia il sacerdote o diacono che assiste al matrimonio”. Inoltre, il combinato disposto dei canoni 1116 e 1121 disciplina l’ipotesi nella quale non sia possibile recarsi dall’assistente, inteso come colui che “chiede la manifestazione del consenso dei contraenti e la riceve in nome della Chiesa” (can. 1108, §2), prevedendo la validità e liceità del matrimonio contratto alla presenza dei soli testimoni.
Nella specie, veniva celebrato un matrimonio in articulo mortis da un parroco in presenza della sposa e dei testimoni e in assenza dello sposo che versava in stato comatoso.
Successivamente, veniva contestato ai protagonisti della vicenda, in concorso tra di loro, di aver attestato falsamente che entrambi i contraenti fossero stati interrogati dal parroco (art. 110 e 479 c.p.). Un diverso capo di imputazione riguardava, invece, l’ufficiale di stato civile del comune il quale, dopo aver ricevuto la richiesta di trascrizione agli effetti civili, aveva falsamente attestato l’insussistenza di impedimenti inderogabili, nonostante che lo sposo si trovasse in uno stato comatoso che lo avrebbe portato da lì a poco alla morte. Si costituiva parte civile la sorella dello sposo.
Il tribunale di Como, all’esito del giudizio, assolveva il parroco, la sposa e i testimoni poiché aveva riconosciuto che il matrimonio era stato celebrato in ossequio ai canoni del rito canonico in materia di matrimonio in articulo mortis e condannava, invece, l’ufficiale di stato civile. Accertata, dunque, la falsità della trascrizione dell’atto di matrimonio, il Tribunale di Como disponeva, ai sensi della dell’art. 537 c.p.p. la cancellazione dello stesso.
In parziale riforma della sentenza, la Corte di Appello di Milano assolveva anche l’ufficiale di stato civile e confermava il capo della sentenza relativo alla pronuncia di falsità impugnato dalla sposa. Quest’ultima, in particolare, in quanto imputato prosciolto nel giudizio di primo grado, era stato ritenuta carente di legittimazione ad impugnare detto provvedimento.
La vedova ricorreva così in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata deducendo, a tacer d’altro e per quanto qui di interesse, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), c.p.p., inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 537 c.p.p.
La quinta sezione penale, investita della questione, ha ritenuto il motivo fondato.
In particolare, la soluzione ermeneutica offerta dagli ermellini, conforme ad un precedente orientamento giurisprudenziale , muove da una attenta analisi della norma di cui all’art. 537 c.p.p.. Quest’ultima, al comma 3, dispone che “la pronuncia sulla falsità è impugnabile, anche autonomamente, con il mezzo previsto dalla legge per il capo che contiene la decisione sull’imputazione”. Dall’interpretazione letterale della testo della norma non è possibile desumere che la stessa limiti l’impugnazione dell’imputato al solo capo della sentenza che contiene la statuizione sul reato a lui contestato. Diversamente, il legislatore ha riconosciuto la possibilità di impugnare, in maniera del tutto autonoma, la declaratoria sulla falsità a tutti coloro che sono portatori di un interesse secondo il principio generale contenuto all’art. 568, comma 4, c.p.p.. Tale interesse sussiste quando l’impugnazione è diretta ad eliminare un provvedimento pregiudizievole per la parte impugnante. Per chiarire il concetto, il requisito in esame è soddisfatto “quando il provvedimento richiesto comporta una situazione pratica più vantaggiosa per la predetta parte e non soltanto un risultato teoricamente più corretto” .
Trasfusi questi elementi di teoria nella fattispecie concreta, risulta palese che la sposa sia legittimata ad impugnare il capo della sentenza che pronuncia sulla cancellazione della trascrizione del matrimonio; la statuizione del giudice di primo grado ha reso, difatti, il vincolo matrimoniale inefficace in ambito civile con conseguenze evidentemente pregiudizievoli per l’odierna ricorrente (nulla quaestio per quanto concerne la validità del matrimonio in ambito canonico che resta indissolubile).
Per tali ragioni, la Suprema Corte ha annullato il provvedimento impugnato con rinvio ad un’altra sezione della Corte di Appello di Milano.

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