martedì 23 novembre 2010

Nuovo Concorso in Magistratura 360 posti

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 93 del 23-11-2010 è stato pubblicato il Bando per il nuovo concorso in magistratura da 360 posti.

Ministero della giustizia:
Concorso, per esami, a 360 posti di magistrato ordinario,
indetto con decreto ministeriale 12 ottobre
2010, modifi cato con successivo decreto 19 ottobre
2010. (10E010201) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 1

La Cassazione ritorna sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Cassazione penale, sez. IV, 24 marzo 2010, n. 11222.

L’argomento affrontato dalla quarta sezione della Corte di Cassazione riguarda l’inquadramento giuridico della condotta di colui il quale a seguito di incidente stradale provoca la morte di altri soggetti e, quindi, il tema del criterio distintivo tra colpa cosciente e dolo eventuale.
Il caso è quello di Tizio che, procedendo con la sua autovettura a velocità particolarmente elevata (circa 90 Km/h), durante l'attraversamento dell'incrocio, nonostante il semaforo segnalasse luce rossa e si trovasse in un centro abitato, investiva Caio e Sempronio a bordo di un motorino procurando loro lesioni gravissime, dalle quali derivava la morte. Nonostante l’impatto, Tizio proseguiva senza fermarsi e solo successivamente veniva identificato e sottoposto a fermo.
In primo grado Tizio veniva condannato per omicidio volontario, richiamando il giudice di prime cure, quanto alla qualificazione giuridica del fatto, i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità sulla differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente e riteneva la sussistenza del primo di tali profili psicologici, rilevando che "l'imputato, alla guida di un'autovettura di grossa cilindrata, attraversando un incrocio in zona centrale della capitale, in orario in cui era elevata la circolazione pedonale e veicolare ..., procedendo a velocità estremamente elevata, non inferiore ai 90 km orari, attraversando consecutivamente due incroci nonostante il semaforo nella sua direzione di marcia indicasse luce rossa, si è evidentemente rappresentato il rischio di incidenti, anche con possibili gravi conseguenze. Ciò nonostante non ha desistito dalla sua folle condotta di guida, accettando almeno in parte il rischio di un evento drammatico”.
Sul gravame dell'imputato, la Corte di Assise di Appello, riteneva il fatto sussumibile nella diversa ipotesi di reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2, e art. 61 c.p., n. 3, richiamando anch'essi i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia, rilevando, fra l'altro, che l'inciso contenuto nell'art. 43 c.p. “quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente" mostra che "è necessario un qualche cosa in più perchè, a partire dalla previsione dell'evento, sia attinta la soglia del dolo, sia pure nella forma del dolo eventuale ...".; e che "occorre distinguere la volontà dell'evento dannoso dalla volontà di non osservare le leggi, regolamenti, ordini o discipline che quell'evento sono intesi ad evitare ". Osservavano che "il giudice dell'udienza preliminare ha fatto leva sulla gravità delle violazioni come parametro, pressochè esclusivo, alla stregua del quale ha, poi, desunto che l'imputato ha inteso agire "a rischio" di cagionare l'evento, e, perciò, in tal senso, "volendo" la morte di una persona".
Su ricorso del Procuratore generale, la Cassazione conferma la pronuncia della Corte d’Appello inquadrando l’elemento soggettivo come colpa cosciente.
La Corte, dopo aver esaminato le varie correnti giurisprudenziali e dottrinali in merito alla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, sottolinea che, poichè la previsione è anche elemento della colpa, è sul piano della volizione che va ricercata la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente: "dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un'opzione, di una deliberazione con la quale l'agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro", quando, oltre all'accettazione del rischio o del pericolo, "vi è l'accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato".
Si è anche chiarito, con altra autorevole voce della dottrina, che "l'evento può dirsi accettato quando l'agente: a) si rappresenta almeno la possibilità positiva del verificarsi di esso; b) permane altresì nella convinzione o anche nel dubbio che esso possa concretamente verificarsi; c) tiene, ciononostante, la condotta quali ne siano gli esiti, anche a costo di cagionare l'evento e perciò accettandone il rischio; con una presa di posizione, con una scelta di volontà orientata nel senso della lesione e non del rispetto del bene tutelato".
Quanto al criterio dell’accettazione del rischio, la Corte precisa che è necessario sgomberare il campo da un possibile equivoco che potrebbe annidarsi nel mero richiamo a tale espressione: l'accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l'evento non direttamente voluto, pur coscientemente prospettasi. Posto che il dolo eventuale è pur sempre una forma di dolo e che l'art. 43 cpv. c.p., comma 1, richiede non soltanto la previsione, ma anche la volontà di cagionare l'evento, "la forma più tenue della volontà dolosa, oltre la quale si colloca la colpa (cosciente), è costituita dalla consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione nonchè dell'accettazione volontaristica di tale rischio" (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 1993, n. 748/1994, cit.).
In altre parole, perché sussista il dolo eventuale, ciò che l'agente deve accettare è proprio l'evento - proprio la morte -; è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall'agente, pur di non rinunciare all'azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo".
Massima: Occorre, quindi, accertare, per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, che l'agente abbia accettato come possibile la verificazione dell'evento (nella fattispecie che occupa, la morte o la lesione di altri soggetti), non soltanto che abbia accettato una situazione di pericolo genericamente sussistente: ed è, altresì, necessario un quid pluris rispetto alla sola previsione dell'evento (che pure caratterizza la colpa cosciente), cioè l'accettazione, hic et nunc, della concreta probabilità che questo, ancorchè non direttamente voluto, abbia a realizzarsi, non desistendo l'agente dalla sua condotta, che continua ad essere dispiegata anche a costo di determinare l'evento medesimo. In sostanza, "accettazione del rischio" non significa accettare solo quella situazione di pericolo nella quale si inserisce la condotta del soggetto e prospettarsi solo che l'evento possa verificarsi, che tanto costituisce anche il presupposto della colpa cosciente; significa accettare anche la concreta probabilità che si realizzi quell'evento, direttamente non voluto.

martedì 16 novembre 2010

La Cassazione sul reato di atti persecutori (c.d. stalking).

Cassazione penale, sez. V, 7 maggio 2010, n. 17698.
Cassazione penale, sez. V, 17 febbraio 2010, n. 6417.

Con le due sentenze indicate in epigrafe la Cassazione precisa alcuni degli aspetti della nuova fattispecie di reato di “Atti persecutori” di cui all’art. 612 bis c.p., volta a reprimere il fenomeno sociale meglio noto con il nome di stalking.
La sentenza n. 17698 del 7.05.2010 riguarda il caso di Tizio il quale è gravato da seri indizi in ordine ad un comportamento minaccioso e vessatorio tenuto tra il dicembre 2008 e il giugno 2009, qualificato appunto ai sensi dell'art. 612 bis, come atti persecutori, nei confronti di Caia, persona con la quale aveva intrattenuto in passato una lunga relazione sentimentale ed aveva avuto una figlia, separandosene poi per incompatibilità di carattere e per presunti tradimenti.
In particolare, in questa pronuncia la Corte affronta la questione giuridica della qualificazione del reato di cui all’art. 612 bis c.p. come reato di pericolo o di evento.
La Cassazione muove dalla premessa che il paradigma normativo di riferimento ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, prevede che dal comportamento reiteratamente minaccioso o comunque molesto dell'agente derivi, quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura della persona offesa, oppure un fondato timore della stessa per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure ancora il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita: tre fattispecie che valgono a connotare la posizione della persona offesa come quella di un soggetto violato nella propria libertà morale - come si desume dalla collocazione sistematica della norma nella sez. 3, del titolo 12 del secondo libro del c.p. - e costretto ad una posizione seriamente difensiva a causa del debordante invasività degli atti vessatori posti in essere dall'agente.
Bisogna distinguere, dunque, un comportamento effettivamente persecutorio da altro comportamento invece ricadente nell'ambito di una litigiosità, ad armi pari, nell'ambito di un rapporto che risulti aggressivo, sia pure con modalità extra-ordinem, ma in maniera biunivoca. Con ciò non si intende peraltro sostenere che la "reciprocità" dei comportamenti molesti comporti necessariamente la esclusione, in linea di principio, della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p. ma si vuole richiamare l'attenzione su un dato che, ove ricorrente, comporterebbe un più accurato onere di motivazione in capo al giudice in ordine al modo in cui si verrebbe a configurare in concreto, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita.
Deve valutarsi se si configuri, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, la posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria.
E' utile sottolineare al riguardo che il reato in discussione, per l'evento di danno di cui è stato connotato, differisce - come arguibile anche dall'andamento dei lavori preparatori della legge- dalla struttura del reato di minacce che pure ne può rappresentare un elemento costitutivo: la norma che incrimina la minaccia delinea infatti, a differenza di quella che qui interessa (salva ovviamente la configurabilità del tentativo di quest'ultima), un reato di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione di timore nella vittima (Rv. 216321; Rv. 228064; Rv. 242484; Rv. 242604). Solo per il reato di minacce vale dunque l'osservazione che è sufficiente che il male prospettato sia anche soltanto idoneo a incutere timore in un soggetto passivo generalizzato, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale.
Nel reato di atti persecutori rileva invece la risposta in concreto prodotta sul soggetto passivo effettivo.
Nella sentenza n. 6417 del 17.02.2010, invece, la quinta sezione chiarisce l’elemento della reiterazione, che fa del reato di atti persecutori un c.d. reato abituale.
Nel caso trattato, il difensore di Sempronio ricorreva in Cassazione, assumendo che gli episodi precedenti l'entrata in vigore della norma incriminatrice in questione non potevano essere oggetto di considerazione alcuna; che due sole condotte di minaccia o molestia, quali quelle contestate nella specie, non erano suscettibili di integrare l'illecito di cui al 612 bis c.p., qualificato da condotta plurima.
La Corte dichiara prive di fondamento le censure del difensore, affermando che “le condotte di minaccia o molestia devono essere "reiterate", sì da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone vicine o, infine, costringere la p. l. a modificare le sue abitudini di vita.
Il termine "reiterare" denota la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza.
Se ne deve evincere, dunque che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto”.

sabato 13 novembre 2010

Sul criterio distintivo tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale.

Cassazione penale, sez. I, 27 luglio 2010, n. 29376.

Nella sentenza in commento, la prima sezione penale della Suprema Corte chiarisce, attraverso un excursus sulle difformità strutturali delle due fattispecie, quale sia il criterio distintivo tra il reato di omicidio volontario e quello di omicidio preterintenzionale.
Il caso è quello di Tizio che, nel corso di un alterco con Caio, scoppiato all’interno di un autobus, ne cagionava la morte attingendolo all’emitorace sinistro con un coltello delle lunghezza di 19 cm di cui 10 di lama.
Sulla base del dato probatorio consistito dalle dichiarazioni dei testimoni escussi, dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dagli accertamenti tecnici disposti, tanto in primo che in secondo grado, Tizio veniva condannato per il reato di omicidio volontario e porto senza giustificato motivo di un coltello.
Avverso la decisione d’appello egli proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che la Corte territoriale aveva errato nel non qualificare il fatto di omicidio volontario come omicidio preterintenzionale così come sussumibile dalla testimonianza di Sempronio da cui risultava che Tizio era stato fatto oggetto non solo di insulti e derisione, ma anche di una violenta aggressione fisica da parte della vittima sicché doveva ritenersi che il colpo inferto dal ricorrente, ancorché esiziale, fosse stato vibrato per mera difesa e non per volontà di uccidere. Se Tizio avesse voluto effettivamente uccidere Caio non lo avrebbe fatto uscire dall’autobus, ma avrebbe continuato a infierire su di lui. 
La Corte di Cassazione, respingendo il ricorso e confermando quanto detto dai giudici del merito, coglie l’occasione per precisare che “il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale deve essere individuato nella diversità dell’elemento psicologico che, nel secondo reato, consiste nella volontarietà delle percosse e delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e dell’accettazione del rischio della morte del soggetto passivo (Cass., Sez. 1, 20 novembre 1995, Flore; Cass., Sez. 1, 25 novembre 1994, P.M. in proc. Piscopo; Cass., Sez. 1, 3 marzo 1994, Mannarino; Cass., Sez. 1, 14 dicembre 1992, Di Grande ed altri).
In altri termini, il tratto saliente e peculiare del delitto ex art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nell’art. 43, comma primo c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente.
Anche se riemerge talora in alcune pronunce l’antica teoria che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. 5, 11 dicembre 1992, P.M. in proc. Bonalda), la recente giurisprudenza di questa Corte è largamente prevalente nel senso che la struttura dell’omicidio preterintenzionale è connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale (Cass., Sez. 1, 16 giugno 1998, Gavagnin) mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta (Sez. 1, 21 giugno 2001, sent. n. 25239, Milic, rv. 219433)”.
Con riferimento al caso di specie, la Corte precisa che nella sentenza impugnata è stata correttamente ricondotta l’azione di Tizio nella figura nell’omicidio volontario stante la consapevole volontà di procurare ad altri, con la propria condotta, non un’alterazione anatomica o funzionale classificabile come malattia nel corpo o nella mente (lesione personale), bensì quella di sopprimere l’altrui vita.

lunedì 8 novembre 2010

È concussione la condotta del primario che pretende denaro per effettuare una operazione personalmente e in tempi brevi.

Cassazione penale, sez. VI, 18 gennaio 2010, n. 1998.

La questione giuridica affrontata dalla Cassazione nella sentenza indicata in epigrafe è quella di stabilire se la condotta del primario ospedaliero che si fa consegnare denaro o altri beni per effettuare un intervento chirurgico in tempi brevi e personalmente nella clinica dove opera piuttosto che nella struttura pubblica convenzionata risponde di concussione, corruzione o truffa aggravata.
Il caso è quello di Tizio che, nella sua qualità di primario dell’Ospedale convenzionato “San Sempronio”, prospettava l’assoluta necessità di un intervento chirurgico sulla colonna di Caia e l’eventualità di una lunga attesa e degenza nell’ospedale pubblico a fronte dei tempi molto più brevi della Clinica “Santa Mevia” presso la quale egli operava privatamente e ove tuttavia sarebbe occorsa la somma di euro 35.000,00. Egli inoltre riferiva a Caia che molto probabilmente, in caso di ricovero presso l’ospedale pubblico, l’intervento sarebbe stato eseguito da un altro medico non altrettanto specializzato, costringendola, o comunque inducendola, in questo modo ad optare per la soluzione “a pagamento”.
Sia in primo che in secondo grado Tizio veniva dichiarato colpevole del reato di concussione, di cui all’art. 317 c.p..
Avvero la sentenza d’appello l’imputato proponeva ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi, che i fatti cosi come ritenuti in sede di merito sarebbero riconducibili non al delitto di concussione, bensì a quello di corruzione, vertendosi in una ipotesi di trattativa condotta paritariamente al fine di garantire a Caia che l'intervento fosse eseguito personalmente da Tizio.
Secondo la Corte, invece, la qualificazione del fatto come concussione, operata dalla Corte d’appello era corretta.
Utilizzando come criterio discretivo tra la concussione e la corruzione quello del “metus publicae potestatis” ed evidenziando il particolare stato di soggezione  in cui Caia, sofferente e preoccupata, si trovava rispetto al primario Tizio, la Cassazione afferma che “poichè le persone malate ed i loro familiari si trovano particolarmente indifesi di fronte al medico preposto al pubblico servizio sanitario, dalle cui prestazioni dipende la conservazione di beni fondamentali, quali la salute e, in determinati casi, la stessa vita della persona, anche la sola richiesta di compensi indebiti da parte di detto medico acquista, in tale situazione quell'efficacia quantomeno induttiva sufficiente ai sensi dell’art. 317 c.p. per la sussistenza del reato di concussione (Cass. 29 marzo 1995, Azzano)”.
Chiarito ciò, la Sesta sezione affronta altresì il problema della configurabilità, nel caso di specie, degli estremi della truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p..
La distinzione tra concussione e truffa aggravata si presenta piuttosto difficoltosa perché l’aggravante si configura quando l’agente abusa di poteri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio.
La sentenza in commento, che esclude la riconducibilità del fatto al delitto di truffa aggravata, aderisce all’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo cui le due figure si distinguano tra loro essenzialmente per le modalità dell’azione realizzata. Mentre nella truffa, infatti, l’indurre si sostanzia in una serie di atti ingannatori, in modo che il soggetto cada in errore, nella concussione strumento della persuasione non è l’inganno, ma la pressione prevaricatrice esercitata dal pubblico funzionario.
Si richiama, in proposito, un’altra decisione della Cassazione per cui “risponde del reato di concussione, e non di truffa aggravata, il direttore di un'unità operativa cardiochirurgica di un ente ospedaliere, che prospettando ai pazienti, ricoverati per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici, il rischio di essere operati dal medico di turno, privo della necessaria pratica, si faccia consegnare, a titolo di ringraziamento, somme non dovute, per condurre egli stesso l'operazione chirurgica” (Cass. 30.09.2005, n. 39955).

lunedì 1 novembre 2010

Il rapporto tra i reati di circonvenzione di incapace, furto aggravato dal mezzo fraudolento e truffa commessi in danno di soggetto incapace.

Cassazione Penale, Sez. V, 4 maggio 2010, n. 29729.

Nella sentenza indicata in epigrafe la sezione quinta della Cassazione chiarisce, in tema di sottrazione di beni a soggetto incapace, il rapporto intercorrente tra le fattispecie criminose di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), furto aggravato dal mezzo fraudolento (624 e 625 c.p.) e truffa (640 c.p.).
Il caso è quello di Tizio che, già magazziniere della farmacia di proprietà di Sempronio, e divenuto badante e convivente di quest'ultimo dopo la morte del padre, genitore superstite, approfittando dello stato di deficienza psichica di Sempronio, oltre che delle relazioni domestiche, si fece nominare procuratore generale e poi erede, si fece intestare alcuni terreni, un appartamento e la nuda proprietà di un immobile; Tizio, inoltre, si impossessò di moduli di assegni di conti correnti intestati a Sempronio e delle somme erogate a seguito della negoziazione degli stessi con firma apocrifa.
Con riferimento al fatto illustrato, la Suprema Corte si trova ad affrontare le due diverse questioni giuridiche, consistenti nello stabilire se:
1)      gli atti di liberalità posti in essere da persona incapace, in conseguenza di abusi perpetrati ai suoi danni da parte dell’agente, integrano il reato di circonvenzione d’incapace o di furto aggravato;
2)      l'utilizzo di moduli di assegno di soggetto incapace mediante falsificazione della firma del medesimo da parte dell’agente, diretto al trasferimento di fondi sul proprio conto corrente, configurano fattispecie di furto aggravato dall’uso del mezzo fraudolento, di truffa o di circonvenzione d’incapace.
Quanto al primo problema, la Cassazione ha chiarito che gli atti di disposizione compiuti da persona incapace, in conseguenza di raggiri perpetrati da parte dell’agente, configurano il reato di circonvenzione di incapace e non di furto aggravato dal mezzo fraudolento.
La differenza di maggiore rilievo, infatti, tra il delitto di furto e quello di circonvenzione di incapace è costituito dal fatto che nel primo caso vi è un impossessamento della cosa da parte del soggetto agente, mentre nella seconda ipotesi vi è un atto di disposizione da parte della vittima, anche se tale atto sia viziato dalla condizione psicofisica della vittima e dall'abuso del soggetto agente.
Con riferimento alla seconda questione, invece, la Corte afferma che  il trasferimento di denaro dal conto corrente di un soggetto incapace a quello dell’agente, ottenuto traendo in inganno il banchiere mediante la falsificazione della firma della vittima, integra gli estremi del delitto di furto aggravato dal mezzo fraudolento e non di truffa né di circonvenzione di incapace, difettando in queste ultime due ipotesi il requisito del compimento di un atto dispositivo.
Se è vero, dunque, che nelle ipotesi di cessione di beni o di istituzione di erede o di legato è certamente ravvisabile un atto di disposizione della vittima, sia pure viziato nel senso dinanzi precisato, e, quindi, perseguibile ai sensi dell'art. 643 c.p., nei casi di impossessamento di danaro appartenente a Sempronio mediante utilizzo di assegni con firma falsa del titolare del conto corrente non è individuabile alcun atto dispositivo dello stesso.
Ciò perchè l'apposizione della firma falsa sugli assegni e l'utilizzo del cassiere della banca nella situazione di fatto descritta costituiscono semplicemente gli strumenti utilizzati dai soggetti agenti per impossessarsi del danaro appartenente a Sempronio  depositato presso la banca.
Il modo, ora descritto, utilizzato per raggiungere il risultato costituisce uso di mezzo fraudolento per la consumazione del furto, che risulta, pertanto, aggravato dalla circostanza di cui all'art. 625 c.p., n. 2, e assolutamente non truffa, ai sensi dell’art. 640 c.p..
Il criterio distintivo, difatti, tra il reato di furto aggravato, come nel caso di specie, dall'uso del mezzo fraudolento, e il reato di truffa, va ravvisato nell'impossessamento mediante sottrazione invito domino che caratterizza il primo e manca nel secondo.
Nel caso di specie, era stato accertato dai giudici di merito, che non vi era stato alcun atto dispositivo da parte di Sempronio, nè nessuna autorizzazione della parte lesa al prelievo delle somme dai suoi conti correnti.