giovedì 30 giugno 2011

Il proprietario incolpevole che omette di comunicare l’inquinamento non è sottoposto a sanzione penale


Cassazione penale, sez. III, 11 maggio 2011, n. 18503

Nella sentenza in commento la Suprema Corte prende in esame il reato di cui all’art. 257 commi 1 e 2 D.L.vo 152/06 (Codice dell’Ambiente) valutando, in particolare, la sua applicabilità anche al proprietario del terreno incolpevole della contaminazione che abbia omesso di effettuare la comunicazione agli uffici competenti dell’accertamento dell’inquinamento storico.
Per meglio comprendere la questione è opportuno richiamare le norme di riferimento:
Art. 257
Bonifica dei siti
1. Chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti. In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all'articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da mille euro a ventiseimila euro.
2. Si applica la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da cinquemiladuecento euro a cinquantaduemila euro se l'inquinamento è provocato da sostanze pericolose.”

L’art. 242, richiamato dal 257, stabilisce a sua volta che:
Art. 242
Procedure operative ed amministrative
1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.”

Bisogna chiarire, in primo luogo, che il primo comma dell’art. 257 prevede due diverse fattispecie di reato: l’omessa bonifica del sito inquinato, da un lato, e la mancata comunicazione dell’evento inquinante alle autorità competenti, dall’altro.
In entrambi i casi occorre stabilire, allora, se destinatario del precetto si debba considerare solamente l’autore dell’inquinamento oppure se a questo debba aggiungersi anche il proprietario del terreno che abbia ereditato tale situazione.
Sul punto la Cassazione, sulla base di una semplice interpretazione letterale della norma, afferma che unico destinatario del precetto penale è colui il quale cagiona l’inquinamento.
Ad avvalorare tale conclusione sta il rilievo che il comma 1 dell’art. 257 non menziona altri soggetti e ciò benché l’art. 242 preveda che la procedura di comunicazione debba trovare applicazione anche all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
L’autonomia della posizione di colui il quale cagiona l’inquinamento rispetto a quella di colui il quale accerti la sussistenza di contaminazioni sul suolo è rimarcata dall’art. 245 che ha per oggetto gli obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione.
Tale ultima disposizione prevede infatti che:
“Art. 245
Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione
1. Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili.
2. Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all'articolo 242, il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l'identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità.

Una interpretazione differente potrebbe, inoltre, destare qualche perplessità anche alla luce del principio “chi inquina paga”, equiparando la figura del responsabile dell’inquinamento a colui che, invece, l’inquinamento lo ha subito, accertandolo occasionalmente in tempi successivi.
Ciò non toglie che il proprietario incolpevole che abbia omesso la comunicazione sia comunque passibile di una eventuale azione risarcitoria ex art. 311 comma 2 il quale prevede che: “Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.”


domenica 5 giugno 2011

Legalizzare o non legalizzare: questo è il dilemma.


di Filippo Lombardi

Vorrei proporre a tutti voi lettori questo problema, in questi giorni tirato in ballo “sottovoce” dai media, che concerne la legalizzazione  o meno delle droghe.
Non è mio obiettivo occuparmi di presentare integralmente la disciplina attuale prevista dall’ordinamento, quanto di riflettere su una norma prevista dal testo unico sulla droga, a mio parere curiosa, e dalla quale ci si può muovere per un discorso sulla legalizzazione. Si tratta dell’articolo 73 del T.U. sulla droga che, al di là della miriade di parole che ne compongono il tenore letterale, sanziona i comportamenti della figura dello spacciatore e della figura del acquirente/consumatore. Il comma 1 del suddetto articolo punisce lo spacciatore con reclusione da 6 a 20 anni, e cumulativamente con una multa da 26.000 a 260.000 euro. Ma è il secondo comma il più curioso a mio parere, in quanto prevede la medesima pena per il consumatore che non rispetti il limite della dose per uso personale. Questi due commi puniscono quindi due soggetti in maniera uguale per comportamenti diversi. Perché diversi? Perché sono teleologicamente diversi, cioè orientati a finalità diverse. Lo spacciatore ha come fine il lucro derivante da un’attività illecita che può produrre conseguenze dannose su altri, mentre il consumatore ha il solo scopo di “godere” dell’uso della merce, tendenzialmente senza il fine di pregiudicare il prossimo (salvo i casi di actio libera in causa), né di avere un profitto di alcun tipo. L’analisi della colpevolezza come rimproverabilità del soggetto, già in partenza rivela due situazioni diverse, trattate con lo stesso atteggiamento dal legislatore.
Viene quindi spontaneo interrogarsi sul perché il legislatore abbia previsto questo tipo di pena anche per il consumatore. E’ evidentemente una pena che è già in astratto superiore alla colpevolezza, e quando ciò accade si è in presenza della c.d. pena abnorme, cioè una pena dettata da finalità di prevenzione generale. In poche parole il legislatore tiene un atteggiamento fermo, severo, poco attento alle dovute differenziazioni, perché vuole evitare un fenomeno, che è quello dello spaccio. Vuol dire che per prevenire lo spaccio, si punisce una persona che non lo spaccio non c’entra. Ergo, mancato rispetto dell’articolo 27 Cost, che vede la pena come orientata alla prevenzione speciale (fine rieducativo) e non alla prevenzione generale.
Ma voglio fare di più. Voglio capire perché il legislatore ha deciso di essere così severo nel caso in cui l’acquirente detenga una quantità  superiore alla dose personale. Gli unici motivi che riesco ad intravedere sono i seguenti, tutti paradossali e infondati:
1) il legislatore è attento alla salute di tutti. E’ come un bonus pater familias attento alla salute dei propri figli-cittadini. Vuole evitare l’esagerazione per limitare i rischi di danni alla salute. E perché? La dose personale non fa male alla salute? Con la dose personale la persona non può morire? Molte morti per assunzione di droga avvengono dopo l’uso di dosi “normali”. Il motivo non sta in piedi.
2) la dose, se è in quantità rientrante nei limiti concessi, previene la possibilità di reati – colposi o dolosi – compiuti dal consumatore subito dopo il consumo. Anche questo motivo è evidentemente infondato. La soggettività degli effetti di una dose di droga, seppure per uso personale, rende i comportamenti di ciascuno di noi imprevedibili dalla scienza.
3) chi detiene una quantità superiore ai limiti è presumibilmente uno spacciatore. A questa affermazione, che è forse la più sensata, si può obbiettare in due modi:
- chi detiene una quantità per uso personale, è escluso che sia uno spacciatore? Posso tranquillamente acquistare una dose ad uso personale, e immediatamente recarmi fuori ad una scuola per rivenderla.
- la Suprema Corte di Cassazione ha radicalmente escluso il nesso eziologico tra la quantità di droga eccedenti i limiti prescritti e lo scopo di spaccio, con sentenza 17899/2008. Ciò significa che il nesso eziologico dovrà essere provato dalla pubblica accusa, e non sarà presunto nel processo.
A conti fatti, la disciplina legislativa è insensata e irragionevole, a tratti incostituzionale. A ben vedere, quando la predisposizione di un limite ad un’attività (in questo caso, acquisto e detenzione di stupefacente) è insensato, il ragionamento conseguente è teso a spostare il limite, verso lo ZERO, o verso l’INFINITO. Ne conseguono due domande di senso:
1) Cosa succederebbe se il limite fosse spostato e coincidesse con lo zero, cioè col proibizionismo puro? La risposta è facile: assolutamente nulla. E perché assolutamente nulla? Perché per ammettere che succeda qualcosa, bisogna credere che la sanzione prevista (anche per la dose personale a quel punto) scoraggi l’utilizzatore;  cosa che è alquanto difficile credere, per due motivi: a) se lo spaccio è completamente illegale anche alla luce dell’attuale disciplina, e nonostante ciò esso continua a sussistere in virtù di uno scopo cosciente di lucro, riterreste che un soggetto in crisi di astinenza si priverebbe della dose per paura della sanzione? b) la paura della sanzione non esiste a priori, nemmeno nei soggetti coscienti e padroni delle proprie pulsioni: essa esiste solo nelle persone già culturalmente orientate al rispetto della legalità. In queste ultime persone la paura è paura della sanzione, paura di una reazione di quello stesso ordinamento nei confronti del quale ci si è fino a quel momento comportati in maniera impeccabile e nel quale si ripone fiducia e rispetto. Studi criminologici rivelano che nei criminali la paura è quella di essere scoperto ed essere considerato riprovevole dall’entourage sociale. E’ paura di essere isolato, non certo della sanzione.
2) Cosa succederebbe se il limite fosse spostato e coincidesse con l’infinito, cioè con la legalizzazione? La risposta è la stessa: assolutamente nulla. Riterreste, infatti, che chi ha una repulsione naturale per la droga si faccia prendere dallo “sfizio” di provarla? Ancora, riterreste che cambierebbe qualcosa per l’utilizzatore veterano? Nulla. Lui la droga la otteneva in qualsiasi momento, recandosi nella zona più nascosta del parco cittadino, incontrando il suo spacciatore di fiducia. Infine, ritenete esistente una percentuale di persone che finora non si sono drogate perché aspettavano la legalizzazione? Mi pare arduo pensarlo, e oltretutto se lo pensassi peccherei di superbia perché considererei me stesso intelligente e gli altri (questa schiera di curiosi) degli idioti che si sono privati di una “voglia” in attesa che l’oggetto di questa voglia fosse rinvenibile nelle farmacie a costi più modici.
Ma la legalizzazione, a ben vedere, avrebbe come effetto quello di “istituzionalizzare”, oltre alla possibilità di vendere stupefacenti, la lotta allo spaccio clandestino, che a quel punto sarebbe vero e proprio contrabbando. Sanzioni verrebbero previste, che però necessiterebbero sempre e comunque di una differenziazione tra spacciatore e utilizzatore finale.
Non ci si può nemmeno spaventare dell’ (nemmeno tanto sicuro) abbattimento dei costi degli stupefacenti. Questo fenomeno al massimo potrebbe causare un lieve aumento di utilizzo da parte dell’acquirente già dedito al consumo, che a parità di costo potrà acquistare più materiale.
La disciplina della repressione dei reati compiuti in stato di incapacità di intendere e di volere derivante dall’assunzione di alcol o sostanze stupefacenti, rimarrebbe la solita; lo Stato ne beneficerebbe in introiti sottratti alla malavita; le persone già dedite all’uso di droga continuerebbero ad usarla (perché , mettiamocelo in testa, il fenomeno dell’utilizzo di droga non può essere debellato); le persone che non l’hanno mai usata, continueranno a non usarla; e il tragico scenario di strade cittadine piene di zombies pronti a compiere illeciti è pura fantasia.
Non a caso, la Commissione Globale per la politica sulla droga ( un organismo internazionale del quale fanno parte l'ex segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, oltre agli ex presidenti di paesi particolarmente colpiti dal narcotraffico, come Brasile, Messico e Colombia) ha recentemente ricordato come la lotta globale alla droga e il proibizionismo abbiano fallito, e come siano urgenti riforme di regolamentazione legale e decriminalizzazione.