giovedì 31 maggio 2012

Abbandono del tetto coniugale: calunnia e falsa denuncia del coniuge.


di Giovanni Miccianza

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Costituisce oramai una prassi quella secondo la quale, a seguito dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza coniugale, un coniuge abbandona il domicilio domestico e riceve dall’altro una denuncia-querela per la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), senza che risulti configurata la fattispecie delittuosa.
Si può parlare di calunnia?
Il reato di calunnia ex art. 368 c.p. si verifica ogni qual volta chiunque incolpa di un reato taluno che egli sa essere innocente ( c.d. calunnia formale o diretta), ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato (calunnia materiale o indiretta).
La norma è soprattutto volta ad evitare il pericolo che l’amministrazione della giustizia sia tratta in inganno.
Ed invero, il delitto ha natura plurioffensiva poiché titolari dell’interesse giuridico tutelato dalla norma incriminatrice sono non solo il privato incolpato falsamente (soggetto passivo in via secondaria) ma anche e soprattutto lo Stato (soggetto passivo primario).
Si tratta di un reato di natura istantanea, comune e di pericolo.

lunedì 28 maggio 2012

Avvocati: come campare speculando sulle inefficienze della P.A.!

Rubrica Contrordine
 http://www.rodolfomurra.it/2012/03/come-campare-speculando-sulle-inefficienze-ed-incapacita-della-p-a/

di Rodolfo Murra

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La storia che sto raccontando è nota a molti addetti ai lavori, ma non alla gran massa dei cittadini romani che, pagando le tasse, contribuisce a garantire l’esistenza di risorse economiche a disposizione della città.
E’ una storia in cui i protagonisti sono da un lato taluni ben identificati mozzorecchi (diconsi mozzorecchi, o mozzini, i legulei romani: cfr. Coglitore, “Lo schiaramazzo”, Cedam, 2004), dall’altra ignoti ed ignavi funzionari comunali.
La vicenda scaturisce da un nutritissimo contenzioso giudiziario, tanto insignificante sul piano giuridico quanto corposo su quello economico, che vede contrapposti i cittadini all’Amministrazione civica in tema di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni al Codice stradale. Molti di questi cittadini, che vanno a chiedere informazioni in Via Ostiense dopo aver ricevuto la notificazione di un verbale di contestazione od una cartella esattoriale (in Via Ostiense si trovano sia gli uffici comunali sia quelli prefettizi, entrambi competenti, a titolo diverso, sulla questione delle “multe”), trovano ad attenderli all’uscio taluni – appunto – mozzini, che in cambio della consegna del provvedimento e di una “firmetta” su un foglio (costituente null’altro che la procura alle liti) assicurano al cittadino di gestire in sua vece l’opposizione alla multa sollevandolo da tutta una serie di noiose e snervanti trafile giudiziarie. Costoro patrocinano il ricorso davanti al Giudice di Pace senza alcun acconto, sperando di vincere la causa onde potersi soddisfare sull’importo delle spese processuali che (in virtù del principio della c.d. “antistatarietà”, cioè del fatto che sono i legali ad anticipare gli oneri, senza pretendere acconti) gli verranno riconosciute in sentenza.
Capiamoci: non tutti gli avvocati sono di questa foggia, ovviamente: quelli di cui parlo (sempre gli stessi) si contano sulle dita di due mani. Ma hanno costituito così tanto efficienti “officine” da apparire una moltitudine di giuristi.
Quando il cittadino, malauguratamente, perde la causa, e si vede dopo anni destinatario di un atto di fermo amministrativo, oppure di un precetto per il pagamento delle spese processuali (ove al rigetto del ricorso segua la condanna alla rifusione dei costi della causa), questi galantuomini in toga non si fanno più trovare ed al massimo si beccano le maledizioni del “cliente”, che invero confidava sull’esito positivo delle promesse fattegli sul marciapiede di Via Ostiense, e che invece ora è costretto a far fronte ad una somma ben diversa da quella recata dal verbale originario.
Se, però, la causa è vinta, la multa è annullata e le spese legali vanno direttamente in favore dell’antistatario (l’avvocato patrocinatore).
E qui comincia la nostra, vera, storia (sino ad ora si trattava di spiegarne le “premesse”).
Il mozzino, invero, non ha alcun interesse a che l’Amministrazione che ha perso la lite gli paghi prontamente le spese processuali, perché per lui la sentenza che gliele ha riconosciute è una specie di “tesoretto”. Debitamente il mozzorecchi notifica la sentenza alla controparte (di solito il Comune), attende i 120 giorni previsti dalla legge per compiere il secondo atto della sua (per carità, legittima, in assenza di risposta dell’Amministrazione) strategia: cioè la notificazione dell’atto di precetto. La redazione di questo atto comporta, automaticamente, una forte lievitazione dei suoi compensi, perché dentro al relativo conteggio il mozzino ci mette di tutto e di più.
Dopo di che egli continua ad augurarsi che la P.A. non esaudisca la sua richiesta perché in questo modo egli è autorizzato a compiere un terzo passo: la notificazione di un atto di pignoramento presso la banca che gestisce il servizio di tesoreria. Tale atto a sua volta vede quasi raddoppiate le somme recate nell’atto di precetto. Alla fine della fiera, il giudice dell’esecuzione forzata (perché il pignoramento costituisce l’atto di inizio di un nuovo processo, quello appunto esecutivo) emette un provvedimento di assegnazione delle somme pignorate, a sua volta aumentate di ulteriori onorari e diritti di rappresentanza. Con questo atto il mozzino si presenta in banca e riscuote.
Questo gioco potrebbe essere impedito, azzerato dall’origine, se l’Amministrazione pagasse il suo debito con celerità, non appena avuta notizia della sentenza che annulla la multa impugnata e che condanna al pagamento delle spese processuali. In questo modo si bagnerebbero le polveri a chi, di questo gioco (permesso, bene inteso, dal Codice di procedura civile, ma che sul piano etico fa accapponare la pelle!), ne fa una vera e propria “strategia” per sbarcare il lunario (non avendo altro tipo di lavoro, ovviamente).
Le migliaia di sentenze che ogni anno arrivano sui tavoli degli uffici comunali, di annullamento delle multe, rappresentano un numero irrisorio rispetto a quanti verbali di infrazione stradale vengono elevati e regolarmente pagati (nel 2011, due milioni e mezzo di verbali per un incasso di circa 90 milioni di Euro). Ma si tratta di un numero irrisorio rispetto solo a quelli, non certo alle uscite economiche che il fenomeno comporta ed ai danni che provoca sul bilancio comunale.
Faccio un esempio pratico per far capire di cosa stiamo parlando.
Sentenza del Giudice di Pace del 2009 che annulla una multa di 70 Euro e condanna il Comune di Roma a pagare 500 Euro di spese processuali ai due avvocati (!) costituitisi: 250 Euro ciascuno, cioè.
I due signori aspettano che la sentenza passi in giudicato e la notificano in forma esecutiva al Comune. Gli avvocati capitolini la trasmettono all’Ufficio competente al pagamento, invitandolo a farlo senza indugio. Nessuno lo fa (le cause di questa inerzia mi sono ignote, ma spesso ci viene detto che non ci sono fondi: eppure si incassano milioni dalle multe pagate!).
I due mozzini redigono e notificano due distinti atti di precetto, ognuno per l’importo di 650,00 Euro (l’aumento è dovuto in gran parte agli importi dell’Iva e della cassa di previdenza, ma ci sono anche voci tariffarie per le attività eseguite dopo l’emissione della sentenza): da 250 a 650, con un aumento secco di 400 Euro (quasi il doppio dell’importo iniziale).
Il precetto fa la fine della sentenza: gli avvocati comunali lo inviano per un (sollecito) pagamento all’Ufficio competente che, però, non paga (per le stesse, immagino, ragioni di cui sopra).
Il mozzino è tutto contento, perché entro 90 giorni (se è egli corretto, altrimenti reitera un nuovo precetto speculando ancor di più) notifica un atto di pignoramento per la somma precettata (650 Euro) aumentata della metà (e quindi per un totale di 975) come consentito dalla legge.
Inizia così il processo esecutivo, con udienza in cui il terzo (la banca tesoriera) rende la dichiarazione, il giudice esamina la regolarità dei documenti, eccetera eccetera: alla fine il giudice, tenendo anche conto della durata del processo esecutivo, assegna al mozzorecchi la somma di Euro 1.450,00! Esattamente un importo superiore di 1200 Euro a quello originario portato dal titolo esecutivo (sei volte di più).
Anche l’altro mozzino ha fatto lo stesso percorso ottenendo identica cifra ed il medesimo risultato: 1450 Euro a fronte dei 250 che avrebbe percepito se qualcuno glieli avessi consegnati appena uscita la sentenza.
Un giochetto che si ripete per migliaia e migliaia di volte, dissanguando le poste del bilancio comunale senza che nessuno faccia nulla.
Una volta l’Economo dell’Avvocatura comunale aveva assegnato, a titolo di anticipazione di cassa (da rendicontare trimestralmente), un gruzzolo di denaro destinato appositamente per pagare le spese processuali di importi modesti. Ricevuta la sentenza chiamava l’Avvocato, mettendogli a disposizione la somma: se questi nicchiava, gli spediva l’assegno a studio. E la cosa finiva lì.
Oggi, secondo taluni soloni ragionieri comunali (immagino questi soggetti muniti di visiera nera, con le mezzemaniche, le scrivanie ingolfate di polverose carte, a far di conto con il pennino intriso di inchiostro, intenti a dire sempre: “questo non si può fare, questo è vietato, quello è contrario alla computisteria”, ecc.), l’anticipazione di cassa non è consentita e, quindi, secondo loro, è meglio pagare tardi e sei volte di più che, invece, subito e lo stretto necessario.
Ho pensato che noi, al Comune di Roma, abbiamo circa 500 soccombenze l’anno in questa materia (i numeri, credo, dicono qualcosa di più), con altrettante decisioni che ci caricano del costo delle spese processuali: prendendo a parametro l’esempio di cui sopra, se pagassimo subito sborseremmo 125.000 Euro. Pagando attraverso il meccanismo che ho descritto la somma diventa 725.000 Euro: con un danno secco (senza contare comunque ciò che costa lavorare tutte queste ulteriori posizioni), di 600.000 Euro. E’ facile immaginare cosa possa farci, in un momento così duro per l’economia, il Comune, con 600.000 Euro in più ogni anno.
Ho fatto i conti della serva, come si dice, prendendo a parametro i due fascicoli dei mozzini creditori di 250 Euro ciascuno, ma esistono Giudici di Pace che liquidano anche molto di più. Così come esiste il fenomeno (ancor più avvilente sotto il profilo professionale, ma che fa render conto di quale sia il grado di crisi economica che attaglia la categoria forense) di quei mozzorecchi che, avendo ricevuto una somma ritenuta non soddisfacente in primo grado a titolo di riconoscimento di spese processuali, propongono appello allo scopo di farsi attribuire dal Tribunale un incremento di quelle, con l’aggiunta degli ulteriori oneri per il grado di impugnazione: ed allora lì si sbanca!
Torno a ripetere: la responsabilità non è di quegli 8-10 mozzini, che tengono famiglia (non, però, clienti) e che vivono sulle spalle di chi consente il loro gioco.
Le colpe sono altrove: ma non sta a me indicare dove.

domenica 27 maggio 2012

La responsabilità penale del medico

 di Filippo Lombardi

1. Fondamento dell'attività medica: esercizio di un diritto, adempimento di un dovere o mero consenso dell'avente diritto?

 L'attività medica è disciplinata dall'ordinamento ed è finalizzata all'assistenza sanitaria al fine di garantire ai cittadini il diritto alla salute condensato nell'articolo 32 Cost. Dispute dottrinarie si sono avute relativamente alla ricerca del fondamento dell'attività medica, nella misura in cui si consideri che tale attività si concreta in atti ed operazioni assimilabili astrattamente a varie figure criminose. La dottrina quindi, sulla base del principio di non contraddizione (sarebbe assurdo non scriminare tali atti, formalmente inseribili in ipotesi illecite), hanno da sempre ricercato il principio giustificativo dell'attività medica latu sensu. 
Alcuni Autori lo hanno individuato nell'articolo 50 del codice penale, relativo al consenso dell'avente diritto, e cioè il consenso del paziente ad essere sottoposto a trattamenti aventi ad oggetto il proprio corpo al fine di ottenere il miglioramento delle proprie condizioni di salute, o evitarne il peggioramento (ad esempio in caso di cure che, pur non eliminando la malattia, la rendono meno lesiva, meno dolorosa, o più graduale). Altra parte della dottrina ritiene che, sussistendo varie discipline legislative in merito all'ambito medico-chirurgico-sperimentale, si tratterebbe non del consenso dell'avente diritto, quanto di un esercizio di un diritto/adempimento di un dovere, disciplinato dall'articolo seguente, cioè dall'art. 51 del codice. Autori più arguti sottolineano come il tentativo di evincere una norma generale sia spiazzante rispetto alla valutazione dei casi concreti, la quale in realtà dovrebbe primeggiare in tale indagine. Ciò vuol dire che bisognerà distinguere tre casi principali: l'attività chirurgica e terapeutico/sperimentale, le attività di mero controllo (c.d. di routine), e il trattamento sanitario obbligatorio, possibile solo quando vi è in gioco la salute pubblica. Per il primo tipo di attività, si ritiene che vi sia una sintesi degli articoli 50 e 51 del codice penale, nel senso che essi coesistono in questo modo: l'articolo 51 fungerebbe da scriminante vera e propria, mentre il consenso non verrebbe visto come scriminante che debba cumularsi alla precedente (anche perché è un ragionamento ipertrofico quello che intravede più scriminanti operanti assieme, quando basta individuarne una per rendere lecita un'azione tipica), ma come il presupposto di fatto per cui il medico può svolgere la sua attività. Per i controlli di routine (a cui in realtà si aggiungerebbero secondo alcuni gli interventi estetici, c.d. "di vanità"), invece, si reputa sufficiente l'utilizzo scriminante del consenso, e per i trattamenti sanitari obbligatori, quest'ultimo aggettivo porrebbe l'attenzione sull'articolo 51 c.p. in quanto trattasi di un adempimento di un obbligo.
 
 
2. I caratteri imprescindibili del consenso. 
 
I caratteri che il consenso deve avere devono essere mutuati dall'analisi dottrinale e giurisprudenziale in merito al consenso come scriminante, per cui per essere valido deve possedere taluni requisiti. 

lunedì 21 maggio 2012

Twitter utile agli avvocati? Il COA di Roma dice di NO!!

Rubrica Contrordine
http://www.rodolfomurra.it/2012/03/chiacchierate-serafiche-al-tramonto/

di Rodolfo Murra

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Quella attuale, non c’è dubbio, è l’era delle piattaforme informatiche e della “connettività”: l’uso dilagante degli smartphones (solo apparentemente telefonini cellulari, in realtà strumenti “diabolici” con i quali si possono fare una miriade di cose) consente di rimanere in contatto “in rete” con molti utenti. A questi fini sono congeniali i cc.dd. social network, sostanzialmente meccanismi telematici in grado di permettere a gruppi di persone di essere in contatto simultaneamente.
A differenza di facebook, l’antesignana e storica di queste “reti sociali”, “Twitter” è utilizzato frequentemente anche da professionisti allo scopo di scambiarsi in tempo reale informazioni utili e concrete e non soltanto fesserie dette tanto per ingannare il tempo.
Un esempio in tal senso è quello messo in campo, oramai da qualche mese, dall’Associazione “Movimento Forense” che mediante Avvocatwit ha realizzato una rete tra legali i quali, oltre a scambiarsi informazioni che riguardano, in generale, la “politica forense”, utilizzano Twitter per comunicare lo stato dei servizi degli Uffici giudiziari in tempo reale. Si tratta, in altri termini, di un servizio svolto in completa autonomia, in base al quale ogni avvocato connesso informa il “foro” sull’esistenza di code in attesa presso una cancelleria piuttosto che presso uno sportello addetto alla ricezione di atti, ovvero rende noto agli altri a che punto è lo svolgimento di un’udienza davanti ad un determinato magistrato, ovvero comunica eventi che possono permettere di risparmiar tempo se appresi in anticipo (com’è il caso dell’infausto fenomeno dei rinvii d’ufficio, senza previo avviso, delle udienze).
Lo scambio di informazioni in tempo reale rende, ovviamente, una certa utilità a chi deve fruire dei servizi erogati dagli Uffici giudiziari e quindi la trovata dell’uso di Twitter è non solo geniale ma si pone anche come tentativo di surroga delle inefficienze degli Uffici medesimi, che in realtà dovrebbero essere loro a fornire informazioni costanti agli utenti.
Non solo: perché si è scoperto che l’uso di Twitter può essere foriero di notevoli pressioni sui “centri di potere”, che si rivelano estremamente sensibili ai condizionamenti che una grande massa di utenti è in grado di esercitare in modo simultaneo su talune decisioni che, altrimenti, verrebbero assunte “inaudita altera parte”. Un caso piuttosto emblematico di ciò è rappresentato dalla recente, civilissima, “sommossa” che gli avvocati hanno creato non appena su Twitter si è diffusa (e lo strumento consente ovviamente una rapidissima divulgazione di fatti) la notizia che presso il Ministero della giustizia si era insediata una Commissione deputata a studiare modifiche anche al processo esecutivo civile (denominata sciaguratamente “doing business”), all’interno della quale non era stato chiamato alcun rappresentante della categoria forense, mentre erano presenti quelli di banche, assicurazioni, imprese, ecc.
Il Ministero, visto il notevole tam tam di protesta degli avvocati “twittaroli” (di tutta Italia, ovviamente), è stato costretto a fare dietro-front e ad allargare immediatamente il “tavolo”.
Le rappresentanze politiche ed istituzionali degli avvocati, ovviamente, sono arrivate “sul pezzo” solo dopo tanto tempo che il revirement della Severino era stato, grazie al movimento degli avvocati presenti su Twitter, attuato.
Ovviamente moltissime realtà istituzionali (persino i Ministeri, gli Enti locali, ecc.) sono presenti con loro account su Twitter. Tuttavia, in controtendenza, abbiamo letto la delibera del nuovo COA di Roma del 26 aprile 2012 che, sollecitato da un gruppo di iscritti ad attivare un profilo Twitter (allo scopo ovviamente non di fare propaganda politica ma solo di fornire notizie utili alla comunità degli iscritti), ha detto di no, rigettando la richiesta.
Sarà per una prossima occasione.

 

domenica 20 maggio 2012

Brindisi: immagine del Killer!!!


Pubblicata sul sito della Stampa l'immagine del killer mentre aziona la bomba che ha colpito le povere ragazze dell'istituto professionale!!
Speriamo di avere quanto prima immagini più chiare per aiutare gli inquirenti a rintracciare il bastardo!


lunedì 14 maggio 2012

Il caso dell'avv. Canzona e le "decisioni" dell'Ordine di Roma.


di Rodolfo Murra

Ora che il clamore su Giacinto Canzona si è calmato, soprattutto da parte di “Striscia la Notizia” (programma che si è giustamente stupito del fatto che la categoria forense annoveri un tipo del genere, ma che poi ha esagerato nel mestare nel torbido, frantumando le parti intime degli italiani maschi proponendo per dieci giorni di seguito ed in tutte le salse interviste al “giovanotto inventore di bufale”) si può raccontare una storia passata.
Canzona (assurto alle cronache giornalistiche già ai tempi del conseguimento della propria laurea) fu destinatario di un esposto disciplinare, diretto all’Ordine di Roma, firmato da un giornalista, il quale aveva potuto appurare, di persona, che uno degli episodi per i quali l’avvocato romano era diventato “celebre” (quello della suora che spingeva la propria autovettura ad un’andatura indecente su un’autostrada valdostana per andare ad incontrare il Papa), non poteva oggettivamente essere mai accaduto.
Apertasi l’istruttoria, affidata a me, ho effettuato una serie di verifiche all’esito delle quali ho proposto al Consiglio l’apertura di un procedimento disciplinare redigendo ben quattro capi di incolpazione. Il Consiglio approvava senza batter ciglio e deliberava l’apertura ed il giudizio veniva fissato per il giorno 22 luglio 2010.
A dir la verità l’apertura veniva disposta non solo contro il Canzona, ma anche contro la collega che fu inquadrata in più d’una occasione nelle interviste andate in onda su “Striscia la Notizia” (una prima volta definita la “compagna” del giovanotto, un’altra volta no, quella seguente si e poi ancora no). Ebbene il Canzona all’apertura del dibattimento (difendendosi da solo) ha avuto il garbo di scagionare egli stesso la collega, attribuendosi di fatto la responsabilità esclusiva delle vicende contestategli: il COA ha così preso atto che le colpe delle bufale non potevano essere della giovane (e spaesata, in quella sede) avvocatessa mora, e ne ha stralciato la posizione.
Il giudizio si è regolarmente celebrato quel 22 luglio 2010 con la sua contestuale definizione: all’esito della camera di consiglio il Presidente ha letto all’incolpato il “verdetto”.
Com’è noto, non è sufficiente che sia data lettura del dispositivo della decisione, perché questa sia pubblica, in quanto occorre anche il deposito della motivazione.
Nel giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati la stesura della sentenza compete al Consigliere “relatore”, ma la sottoscrizione l’appongono solo il Presidente ed il Segretario dell’Ordine.
Bene. Il relatore, che ovviamente è soggetto diverso dall’istruttore, non potevo essere io (essendo stato, appunto, l’istruttore). Costui, avendo moltissimo arretrato da evadere, si guardava bene dal dare la precedenza a questa stesura, e perdeva tempo. Fece male, perché il caso Canzona non era come tanti altri e sullo stesso si sarebbero potuti accendere i riflettori. Nel frattempo Canzona chiese di potersi trasferire all’Ordine di Tivoli: il trasferimento gli fu negato, perché è impedito cancellarsi o trasferirsi durante la pendenza di un procedimento disciplinare. Ovviamente non fu Canzona a sollecitarne la definizione. Dopo qualche mese, tuttavia, il solerte relatore si decise a sottoporre alle due cariche competenti la sua bozza di sentenza. Quella sì che si sarebbe dovuta portare a “Striscia la Notizia” (ma non avrebbe avuto, ovviamente, l’eco riservato alle interviste a Canzona). Io ed il Presidente, nel leggercela, abbiamo iniziato a ridere, essendo infarcita di refusi, errori lessicali, imprecisioni, ed essendo caratterizzata poi (nella comunque scarna parte motiva) da un copia-incolla di massimette di casi precedenti (certamente non analoghi a quello deciso, in quanto più unico che raro), accozzate insieme senza alcun nesso logico, tanto per riempire qualche riga. Una cosa indecente.
Il Presidente restituiva così all’Ufficio disciplina la bozza, vergando con un pennarello verde la prima pagina, barrata con una grossa X che univa gli angoli opposti del foglio, con la scritta: “NON VA BENE”.
Il redattore, solo dopo qualche settimana (non essendo proprio solito verificare “immediatamente” l’esito riservato ai propri “lavori”), mi ha candidamente chiesto cosa ci fosse che non andasse in quello che aveva scritto. “Hai riletto? – gli ho risposto – Abbiamo evidenziato gli errori, i refusi, le inesattezze, anche di ordine lessicale e grammaticale! Non hai che l’imbarazzo della scelta”.
Il Consigliere promise che avrebbe accertato e, anzi, mi chiese disponibilità di tempo (che io detti, ovviamente) per poter passare in rassegna insieme le cose che non andavano e per emendare adeguatamente il documento. Tuttavia trascorse, inutilmente, molto tempo, senza alcun riscontro.
Poco prima di metà dicembre (2011), mentre mi trovavo sul lago di Como, lessi un quotidiano (locale!!) che parlava dell’ennesima trovata di Canzona: una vecchina aveva lasciato una grande eredità (10 milioni di Euro) al suo gatto (l’erede “Tommasino”), e la notizia l’aveva fornita ovviamente l’ineffabile giovanotto (debitamente menzionato nell’articolo).
Misi mano al cellulare ed inviai un messaggio di testo al Consigliere, che era caduto nel soporifero letargo, allo scopo di risvegliarne l’esigenza di depositare prima possibile la sentenza che riguardava l’incolpato Canzona. Manco per idea. Passarono i giorni e nulla accadeva.
A questo punto il Presidente, verificato l’enorme ritardo che il collega aveva accumulato per scrivere la decisione, gli intimò per iscritto la redazione, assegnandogli un termine perentorio per espletare l’incombente, avvisandolo che in difetto si sarebbe avocato il fascicolo e che avrebbe poi scritto lui personalmente la sentenza. Io, al suo posto, mi sarei mortificato. Ma il termine perentorio passò senza colpo ferire.
Il Presidente, allora, si assegnò il fascicolo, lo estrasse dall’armadio dell’Ufficio disciplina, ed in un battibaleno scrisse la sentenza (nove pagine). La prima, probabilmente, nella storia del Consiglio, in cui, nell’epigrafe, l’estensore risulta essere persona “diversa” dal relatore.
Canzona la sentenza non l’ha impugnata. Il relatore non ha avvertito il minimo disagio per questa inedita vicenda. Nessuno ha sospettato che la volontà di non redigere la decisione dipendesse dal desiderio di “proteggere” il professionista giudicato in sede disciplinare, ma che – invece – il ritardo (diciassette mesi) fosse dovuto a semplice sciatteria, ignavia, indolenza.
Canzona, ottenuto poi il trasferimento (formale) presso il foro tiburtino, ha continuato a farne una dietro l’altra e di lui – a causa della balla della ragazza incinta imbarcata sulla Costa “Concordia” – ha iniziato ad interessarsi (stavolta non come in passato, ma in senso critico e severo) la stampa (e la magistratura). Fortunatamente l’Ordine di Roma, a quel punto, si è trovato “a posto”. Ma non certo grazie a chi avrebbe dovuto svolgere, per tempo, il proprio dovere.
Agli avvocati questa storia interessa poco, lo so (essendo molto più occupati, ad esempio, a combattere la mediazione): ma forse è questo il motivo per il quale tra la categoria ed il Paese “reale” si è creato tutto questo abisso.

giovedì 10 maggio 2012

Pratiche sessuali pericolose e risvolti penali: Il Bondage.


di Filippo Lombardi

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1. Cos’è il Bondage.
Il bondage è una pratica sessuale e/o voyeuristica, derivante dalla tradizione giapponese (dove è identificata col nome “Shibari”) e basata sulla costrizione fisica derivante dall’ uso di corde, corsetti, bavagli, e in generale oggetti che limitano o impediscono il movimento o inibiscono l’uso ordinario del corpo o dei sensi. Tale pratica si fonda sul consenso dei partecipanti a sottostare ad atti di dominazione e sottomissione. Tale rapporto, che all’apparenza può erroneamente dimostrare un dislivello tra le posizioni delle parti, è in realtà basato sul comune fine di creare un legame psico-fisico tra i partners, onde sperimentare sensazioni reciproche di piacere sessuale misto al dolore derivante dall’attività svolta dalla coppia con l’uso degli strumenti ad hoc  posseduti. La suddetta situazione di sostanziale parità tra i partecipanti è anche confermata dal patto che regge il “gioco”, cioè un vero e proprio contratto che ha luogo tra i soggetti coinvolti. Esso tende a fissare le regole alle quali gli stessi dovranno attenersi, regole tra le quali spiccano quella della cosiddetta safe word e dell’HNH (Hurt, not Harm). La prima è una parola d’ordine che ciascuno potrà/dovrà utilizzare per mettere fine alla sofferenza quando essa sembrerà raggiungere l’apice, con pericolo di provocare un danno, mentre la seconda regola (che tra l’altro giustifica la prima) è traducibile come “Provoca sensazioni dolorose, non danni”. Essa è una regola fondamentale, poiché traduce in termini teorici ciò che dovrebbe succedere dal punto di vista pratico, e cioè che i due partners si debbano infliggere dolore per amplificare il piacere sessuale, ma mai arrivare al danno organico (lesioni gravi, rotture articolari, soffocamento, morte). Il bondage può essere praticato secondo tre varianti, che sono quelle del light bondage, della suspension, e della mummification, fermo restando che la persona è legata con le mani dietro la schiena in tutti i casi citati. La prima variante è la più tenue e si incentra sull’utilizzo di corde che leghino e blocchino gli arti tra di loro, lasciando impregiudicata la parte restante del corpo. La seconda variante utilizza le corde in più parti del corpo, anche attorno alla gola, e il soggetto passivo viene appunto sospeso in aria attraverso un meccanismo di corde e ganci. L’entità del pericolo cresce, soprattutto con riguardo agli arti e all’apparato respiratorio. La mummification, invece, consiste, come dice il termine, nella mummificazione vera e propria, lasciando normalmente scoperto solo il viso.

2. Rischi connessi a tale pratica e fatti di cronaca recenti.
Come si evince da quanto già detto al paragrafo precedente, la pratica citata è una pratica sessuale estrema che si incentra proprio sul diritto/dovere di provocare sensazioni dolorose. E’ evidente che le conseguenze derivanti dall’uso scorretto delle regole esecutive sono molteplici, e non di rara verificazione. Gli esiti infausti plausibili sono certamente gli eventi connessi col blocco della circolazione sanguinea, la possibile rottura, slogatura, lussatura di ossa, il blocco della respirazione con connesso soffocamento, le lesioni o abrasioni della cute, che potranno poi essere più o meno gravi a seconda dei casi. E i danni possono diversificarsi in entità o natura, a seconda degli ulteriori ed eventuali strumenti sessuali utilizzati nel caso concreto. Si rende quindi necessario capire quale sia il fondamento di tale pratica e quali siano i limiti che essa incontra nell’ordinamento giuridico, posto che, come sarà stato certamente notato, più persone, in vari casi, sono state processate o condannate per reati connessi all’uso improprio dell’attività oggetto della nostra discussione.
Tra i fatti di cronaca che testimoniano la pericolosità di questa pratica sessuale, che si è tramutata in tragedia, è da annoverare il caso “Mulè”. Soter Mulè è un ingegnere romano di 43 anni che lo scorso 11 settembre ha provocato la morte di una studentessa, Paola Caputo, e il ferimento di un’altra ragazza, durante il gioco erotico dello Shibari. La ragazza deceduta aveva perso i sensi subito dopo essere stata legata tramite un sistema di corde che univa le due ragazze. Lo svenimento si era verificato per un semplice malore ma il peso del suo corpo aveva finito per tendere le corde attorno al collo di entrambe le vittime, e per una delle due, come già detto, sopraggiungeva la morte per asfissia. L’imprenditore, nel momento in cui si scrive, è ancora sotto indagine ma ha già visto mutare più volte il proprio capo d’accusa (rectius: addebito provvisorio): da omicidio doloso con dolo eventuale a omicidio preterintenzionale (per la configurabilità di tale accusa, vedi paragrafo 8), per poi vederlo derubricare a omicidio colposo. Il gip del Tribunale di Roma, nell’ordinanza di convalida della custodia cautelare, ha confermato proprio l’ipotesi colposa, sulla base di due elementi rilevanti: l’avere dato corso l’ingegnere romano ad una pratica che lui stesso poco conosceva, e l’aver violato una banale norma precauzionale tipica dello shibari, cioè il tenere accanto a sé un coltello per casi estremi come quello verificatosi.

martedì 8 maggio 2012

Il motivo di "Contrordine".



di Rodolfo Murra
 
Chi ha una certa età ricorderà che su “Candido”, rivista  dell’immediato dopoguerra che usciva il sabato, il grande Giovannino Guareschi (1908/1968) pubblicava immancabilmente le sue vignette dal titolo “Obbedienza cieca, pronta e assoluta“, dove sbeffeggiava i militanti comunisti che lui definiva trinariciuti (la terza narice aveva un duplice scopo: serviva a far defluire la materia cerebrale ed a far entrare direttamente le direttive del partito), i quali prendevano alla lettera le ”istruzioni” che arrivavano dall’alto, nonostante gli evidentissimi errori di stampa che le caratterizzavano.
Ogni vignetta era contraddistinta dal celeberrimo motto “Contrordine, compagni!” legato, appunto, ai refusi di stampa di cui dicevo: esclamazione profferita da un “trinariciuto” che di norma arrivava trafelato ad impartire la nuova (stavolta corretta) disposizione ai propri colleghi di partito.
Il 15 aprile del ’54 Guareschi fu condannato in primo grado, a seguito di una denuncia di De Gasperi che lo aveva accusato di diffamazione, a dodici mesi di carcere. Non presentò ricorso in appello poiché ritenne di avere subito un’ingiustizia: “No, niente appello – disse – qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente“.
Questa rubrica, dal nome appunto di “Contrordine“, non intende affatto perseguire lo scopo di fare “le pulci” al rinnovato Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, dove ho avuto l’onore di restare per quattro anni, ma solo di fornire quell’informazione che, probabilmente, nessuno vorrà dare a quei pochi (immagino) interessati ai lavori consiliari. 
E, poi, anch’io – modestamente – mi sono beccato una bella denuncia per diffamazione a causa di un mio articoletto satirico (peraltro frutto di due anni di provocazioni becere ed ignoranti) pubblicato proprio su questo sito. Con la differenza, però, che il denunciante non conosce De Gasperi.

Collaborazione con la rubrica "Contrordine" dell'avv. Rodolfo Murra.


Da oggi il blog “il diritto penale” avrà l’onore di ospitare periodicamente nei suoi post la rubrica “Contrordine” tenuta dall’avvocato Rodolfo Murra (Consigliere Segretario dell’Ordine degli Avvocati di Roma nel biennio 2010/2011) sul suo sito web all’indirizzo: 


Tale rubrica si propone di rispondere alla domanda “ma cosa fa questo rinnovato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma?”.

Potrete notare come lo stile quasi sarcastico non sminuisce il resoconto dell’autore sulla realtà e sulle problematiche che il Consiglio dell’Ordine capitolino e, più in generale, l’avvocatura italiana si troveranno ad affrontare.

Come primo contributo verrà pubblicata (nel post successivo a questo) la presentazione fatta dallo stesso avvocato Murra della rubrica Contrordine.
Ringrazio nuovamente l’avvocato Murra per la sua disponibilità.

Giulio Forleo

lunedì 7 maggio 2012

La responsabilità penale del direttore del telegiornale e del periodico telematico


Avv. Daniele Pomata
Alcune recenti pronunce del Giudice di Ultima Istanza (e non solo), hanno ravvivato il dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, in merito ad un tema che, in ragione della rilevanza (anche economica e politica) delle problematiche che involge, sollecita sempre più al Legislatore una compiuta disciplina della materia e di alcuni ambiti di essa che paiono, quantomeno prima facie, sottratti alle specifiche disposizioni penali in materia di reati a mezzo stampa.  
Senza alcuna pretesa di inserirsi in un dibattito dottrinale ben più autorevolmente animato, la presente trattazione si propone, piuttosto, di costituire un umile momento di riflessione in merito alle variegate applicazioni che, in subjecta materia, possono conoscere i principi generali contenuti nel Codice Penale, le leggi vigenti e, soprattutto, in merito alla possibilità di utilizzare i primi quale strumento esegetico che possa guidare l’interprete nell’applicazione delle seconde.
     Il titolo di imputazione in funzione del quale figure apicali dei mass media, nell’ipotesi di commissione di reati veicolati da tali mezzi, possano essere chiamati a risponderne in sede penale, ha, costantemente e a più riprese, impegnato il Legislatore.
      La centralità rivestita dalla questione, già in epoca in cui il solo mezzo di comunicazione di massa, idoneo a raggiungere una platea indeterminata di destinatari, era la stampa, periodica o meno, viene ad emersione sol che si richiami il disposto dell’art. 21 Cost.; la predetta disposizione, infatti, sulla scorta dei divieti in materia che avevano segnato il periodo storico in allora appena concluso, esplicita, con quel dettaglio che la Carta Costituzionale dedica al porre le più ampie garanzie a tutela di libertà al tempo appena ritrovate, come la libertà di stampa sia corollario della libertà di parola riconosciuta all’individuo (“…la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…“) e contestualmente rimanda alla “…legge sulla stampa…” per l’individuazione dei responsabili di eventuali violazioni di norme perpetrate con tale mezzo.
      Il tema ha rivestito assoluta centralità, inoltre, tanto nell’ordito del codice penale, ove alla materia sono dedicati, fin dal Titolo III° del Libro I°, gli artt. 57  ss. Il legislatore ha inoltre dedicato alla materia della stampa la (tuttora) fondamentale, anche per le ragioni che si diranno a breve, L. 47/48.

sabato 5 maggio 2012

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio: tratti distintivi e profili applicativi.


di Daniele Pomata (Avvocato Penalista del Foro di Genova)

Mentre in ambito civile si assiste al germinare di pubblicazioni, monografie e pronunce della Suprema Corte che a vario titolo si fanno carico di delineare, ora ampliandone ora restringendone i confini, la responsabilità civile dell’amministratore di condominio, la medesima popolarità non è riservata al tema della responsabilità penale del mandatario dei condòmini.
Nondimeno, l’amministratore di condominio risulta, codice penale alla mano, gravato, sotto questo secondo profilo, da responsabilità forse ancor più oggettive, puntuali e stringenti di quanto avvenga sotto il profilo civilistico. Spesso, invero, i due ambiti si intersecano fatalmente: ad esempio, dall’omissione di far luogo ad interventi urgenti contro la rovina dell’edificio, potrà discendere, in primis, una responsabilità penale ex art. 677 c.p., e, in seconda battuta, una responsabilità civile per gli eventuali danni cagionati a terzi.
Al contrario, possono ben esservi illeciti (rectius: omissioni) dell’amministratore  che, seppur rilevanti sotto il profilo civilistico, non risultano tuttavia idonei ad integrare una responsabilità penale ex art. 677 c.p., difettando in tal caso uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie. La casistica è potenzialmente sconfinata; basti pensare ad un qualunque intervento su parti condominiali deliberato dal condominio ma non attuato dall’amministratore per sua colpa: ebbene, dove l’intervento non risulti ricompreso in un contesto di tale degrado dell’edificio da essere volto a scongiurarne, come evoca il retorico tenore dell’art. 677 c.p. “…la rovina…”, la mancata attuazione dello stesso potrà, al più, essere fonte di responsabilità civile ma non di responsabilità penale.
Occorre pertanto domandarsi quando precisamente sussista la responsabilità penale dell’amministratore di condominio, con quale rigore essa venga interpretata dalla giurisprudenza, nonché come attivarla o, al contrario, come evitare di incorrervi.
Procedendo con ordine, è il caso di rilevare che il nostro codice penale non prevede, a differenza di quanto avviene per altre figure professionali (l’avvocato, il consulente tecnico, ecc…) una figura di reato proprio (intendendosi come tali i reati che esigono, ai fini della loro configurabilità, una determinata qualità, anche professionale, in capo al soggetto agente – ad esempio: per commettere il reato di patrocinio infedele ex art. 380 ss. C.p. occorrere essere patrocinatori o consulenti tecnici-) in cui sia espressamente richiesta la qualifica di amministratore di condominio in capo al soggetto attivo.

giovedì 3 maggio 2012

Tirocinio subito a 18 mesi per tutti: firma la petizione al ministro!!!!

 Il blog "il diritto penale" condivide e sostiene la petizione lanciata dal sito www.petizionionline.it per
 l'applicazione immediata a tutti i praticanti dell'art. 9 l. 27/2012 sulle liberalizzazioni: tirocinio a 18 mesi per tutti.
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Si riporta di seguito il link per firmare la petizione e il testo della stessa
http://www.petizionionline.it/petizione/per-l-applicazione-immediata-a-tutti-i-praticanti-dell-art-9-l-27-2012-sulle-liberalizzazioni-tirocinio-a-18-mesi-per-tutti/6930#signnow

On.le Prof. Avv. Severino, On.le CNF,
Vi scriviamo per sottoporre alla Vostra attenzione un grave problema di interpretazione ed applicazione dell’art. 9 della legge 27/2012, legge di conversione del DL 1/2012.
Questa raccolta firme ha lo scopo di sensibilizzare il Ministero, il CNF e la società italiana riguardo alla situazione di tutti i praticanti avvocati italiani che esercitano nei vari fori: per due anni lavoriamo full time, gratis e completamente privi della benché minima garanzia.
Scriviamo perché il Governo Monti ha emanato il DL “liberalizzazioni” 1/2012, convertito in legge lo scorso 24 marzo, nel quale è prevista la norma (art. 9) che riduce il tirocinio obbligatorio a 18 mesi anziché a 24 mesi.
Tuttavia, ancora oggi, nonostante la legge sia entrata in vigore, molti CDO si rifiutano di rilasciare i dovuti certificati di compiuta pratica richiesti da coloro che i 18 mesi di pratica li hanno già conseguiti.
La legge è chiara e parla al presente, noi richiediamo che sia applicata anche a chi si è iscritto al Registro dei praticanti prima del 24 marzo.
Chiediamo che il Ministero ed il CNF si pronuncino con una interpretazione conforme alla legge ed alla Costituzione, stabilendo che la durata della pratica a 18 mesi vale per tutti, nuovi e vecchi iscritti.
Vogliamo evidenziare un semplice fatto: applicare la riduzione della pratica ai soli nuovi iscritti significa creare una disparità di trattamento tra chi si è iscritto a dicembre 2011 (che, facendo due anni, deve sostenere l’esame a dicembre 2014) e chi si è iscritto ad aprile 2012 (che, facendo 18 mesi, deve sostenere l’esame a dicembre 2013). Senza contare la ratio del DL in questione, ovvero quella di favorire lo sviluppo di una sana concorrenza fra i professionisti: introducendo questa discriminazione si impedisce anche lo svolgimento di una corretta concorrenza fra futuri avvocati, favorendo, paradossalmente, coloro che si sono iscritti per ultimi al Registro.
Questa evidente disparità di trattamento dovrebbe spingerVi ad applicare la norma, che peraltro è chiarissima, a tutti i praticanti senza distinzioni.
La conseguenza di una errata applicazione della norma de qua costituirebbe una palese violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Vi chiediamo solo di applicare la L. 27/2012 e di farlo conformemente alle norme costituzionali e di buon senso.
Grazie, i praticanti avvocati italiani.

mercoledì 2 maggio 2012

Il concorso apparente di norme.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

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Spesso può accadere che un fatto sia sussumibile sotto più fattispecie astratte, cioè sotto più norme incriminatrici, poiché possiede elementi che integrano il tenore letterale di più disposizioni. Il fenomeno è diverso dal concorso di reati (per la tematica del concorso di reati e per un focus sul reato continuato, si veda il relativo contributo pubblicato in questo Blog, “Il reato continuato”). Quest’ultimo, infatti, vede il soggetto effettivamente compiere più reati con un’azione o con più azioni, che possono essere all’occorrenza ritenute esecutive del medesimo disegno criminoso, mentre il fenomeno posto ora alla nostra attenzione ha a che fare con il principio del ne bis in idem, ovvero non si potranno applicare le molteplici norme rilevanti nel caso concreto, poiché esse sono solo apparentemente applicabili: il caso di specie è in realtà disciplinato da un’unica norma.
Come fare, quindi, a capire quale sia la norma che effettivamente deve essere applicata? L’ordinamento offre un solo criterio tipizzato, al fine di risolvere tale coinvolgimento di più norme incriminatrici, e cioè il principio di specialità, disciplinato dall’articolo 15 del codice penale. Tale articolo ci dice che, nel caso in cui due disposizioni normative regolano la stessa materia, si ha riguardo alla disposizione speciale, la quale deroga alla norma generale. Innanzitutto, una norma è speciale rispetto ad un’altra nel caso in cui apporti una o più aggiunte rispetto ad un nucleo comune di elementi (entrambe le norme disciplinano “X”, ma la norma n. 2 disciplina “X+1” >> si applicherà la norma n. 2). Vi è da dire, poi, che due norme regolano la stessa materia quando proteggono lo stesso bene giuridico. Dottrina ritiene che oltre al caso della specialità ordinaria, rispetto alla quale va applicata normalmente la norma speciale, esistano altri due tipi di specialità, ben definite al livello nominale, ma meno al livello contenutistico: la specialità in concreto e la specialità reciproca. La prima vi sarebbe nel caso in cui, pur non esistendo un regolare rapporto di specialità dell’una rispetto all’altra, le due norme si trovano in un rapporto reciproco di interferenza normativa, dove per interferenza bisognerebbe intuire che si tratti di una applicabilità in concreto delle due norme. La specialità reciproca si dovrebbe ritenere operante nei casi in cui le norme siano speciali l’una rispetto all’altra, cioè non si assiste ad un rapporto di X a X+1, ma un rapporto di X+Y a X+Z. I casi di specialità qui proposti sono in realtà contestati da ampia dottrina, anche considerando il fatto che della specialità non condividerebbero la norma operativa. Vale a dire che non si dovrebbe (poiché non si potrebbe!) applicare la regola “norma speciale deroga alla norma generale” bensì dovrebbe adottarsi il criterio del trattamento in concreto più severo. Tale trattamento opera scegliendo la norma da applicare considerando nell’ordine i seguenti fattori: 1) quale norma abbia il minimo edittale più elevato; 2) a parità di minimo, si ha riguardo al massimo edittale più elevato; 3) in caso di assoluta parità, si ha riguardo alla gerarchia di beni giuridici protetti dalle due norme. Si applicherà, cioè la norma che protegge il bene giuridico di importanza maggiore.
Il principio di specialità non è rimasto privo di compagnia quando si tratta di principi direttivi in tema di risoluzione del conflitto tra norme. La dottrina ha elaborato due principi ulteriori, molto usati in giurisprudenza. Essi sono il criterio di sussidiarietà e il criterio di assorbimento (anche detto del ne bis in idem sostanziale). Il criterio di sussidiarietà opera nel caso in cui le norme apparentemente applicabili stanno in realtà proteggendo lo stesso bene giuridico da condotte progressivamente offensive, o meglio condotte che causano stadi diversi e via via più approfonditi al bene. Normalmente la soluzione di quale norma si debba applicare, nonostante il principio di sussidiarietà non sia tipizzato, la si ricava al livello normativo tenendo in considerazione l’incipit che è possibile riscontrare in tante norme di parte speciale, quali “Salvo che il fatto costituisca più grave reato…” o “Al di fuori delle ipotesi di…”. Questi espedienti letterali aiutano l’interprete a capire quale sia il grado di offesa al bene giuridico, e a scegliere la norma applicabile seguendo le indicazioni del legislatore.