giovedì 30 dicembre 2010

La nozione di possesso nel reato di furto.

Cassazione penale, sez. IV, 16 novembre 2010, n. 41592.

La questione giuridica affrontata nella sentenza in commento è quella di stabilire se la nozione di possesso in campo penale vada ricondotta a quella ristretta di cui all’art. 1140 c.c. ovvero se debba intendersi comprensiva anche della mera detenzione, con la conseguente possibilità per il responsabile di un esercizio commerciale di sporgere querela per un furto subito.
Il caso è quello di Tizia che era stata condannata ai sensi dell’art. 624 c.p. per essersi impossessata di cosmetici ed integratori alimentari sottraendoli ad un supermercato che li deteneva.
Avverso la sentenza di merito veniva proposto ricorso in cassazione per aver disatteso una preliminare eccezione di improcedibilità del reato per mancanza di querela. Questa era stata proposta da Caio, nella sua qualità di "responsabile esercizio commerciale"; ma dall'atto non emergeva "una formale enunciazione del potere di rappresentazione del querelante" e l'indicazione della predetta qualifica era "di per sè equivoca e non idonea a far ritenere il querelante titolare ex lege di poteri di rappresentazione".
La Suprema Corte, rigettando il suddetto motivo, procede ad una attenta disamina della nozione di possesso al fine di stabilire se il responsabile dell’esercizio commerciale possa considerarsi soggetto passivo dal reato e perciò titolare del diritto di querela.
Nella sentenza si afferma che con l'incriminazione del reato di furto si tutela il possesso di cose mobili, tali qualificandosi anche le energie aventi valore economico, ai sensi del secondo comma della norma incriminatrice. Il possesso, a tali fini, non va inteso negli stretti termini di cui all'art. 1140 c.c., ma è sufficiente anche una detenzione che non presenti tutti i requisiti indicati da tale norma civilistica. In tal senso, specificamente, una, ancorchè risalente ma mai successivamente contestata, pronuncia di questa Suprema Corte, Sez. 2, 8 febbraio 1965, n. 181:
"nell'ambito del diritto penale, il concetto di possesso non deve essere assunto secondo la nozione civilistica, che esige il concorso dell'elemento materiale (corpus, cioè disponibilità e potere fisico sulla cosa) e dell'elemento spirituale (animus, cioè proposito di comportarsi come titolare del diritto di proprietà o altro diritto reale), ma in un senso più ampio e comprensivo della detenzione a qualsiasi titolo, esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del possessore (in senso civilistico) e di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore".
Per mutuare l'espressione di autorevole dottrina, "con l'incriminazione del furto si protegge la detenzione delle cose mobili come mera relazione di fatto, qualunque sia la sua origine, costituisca o meno possesso nel senso del diritto civile"; e s'è altra volta chiarito che, proprio perchè il concetto di detenzione richiamato dall'art. 624 c.p. non coincide con i concetti civilistici di detenzione o di possesso, dovendosi ritenere compresa nella sua più ampia portata qualunque relazione di mero fatto, quindi anche quella costituitasi senza un titolo legittimo o in modo clandestino, persino "il ladro può divenire soggetto passivo del reato del delitto di furto, quando altri si impossessi della cosa da lui precedentemente sottratta" (Sez. 2, 9 febbraio 1966, n. 2).
Se, dunque, oggetto specifico della tutela penale nel furto è il possesso, nei termini testè indicati, ancora con autorevole dottrina deve ritenersi che "è il possessore colui che immediatamente subisce il reato", e, quindi, che "soggetto passivo del delitto (persona offesa dal reato, secondo la terminologia del codice) deve ritenersi il possessore della cosa mobile. A costui, quindi, spetta il diritto di querela nei casi in cui il furto... non è perseguibile di ufficio". Ha al riguardo chiarito questa Suprema Corte che "la nozione di persona offesa, ossia di soggetto passivo del reato, e di danneggiato non coincidono: l'una è propria del diritto penale in quanto attiene ad un elemento strutturale del reato, l'altra concerne il riflesso privatistico dell'illecito penale. Persona offesa del delitto di furto è chi sia stato spossessato della cosa, ossia il detentore; il proprietario è soggetto passivo del reato in quanto sia anche detentore, diversamente è soltanto un danneggiato dal reato" (Sez. 2, 17 maggio 1967, n. 930).
Nella specie, come ricorda la ricorrente, la querela venne presentata da soggetto indicato come "responsabile esercizio commerciale" in cui venne consumato il fatto, ed il giudice del merito, nella ordinanza impugnata unitamente alla sentenza, ha rilevato che, per questa sua qualità, tale soggetto "deve considerarsi detentore della merce avendo sulla stessa il dovere di custodia" (in tal senso, di recente, Sez. 5, 18 marzo 2009, n. 26220). La ricorrente non sembra specificamente contestare tale circostanza, ma lamenta, come si è sopra ricordato, "l'assenza di una formale enunciazione della fonte del potere di rappresentazione del querelante" e ritiene la suddetta qualifica "di per sè equivoca e non idonea a far ritenere il querelante titolare ex lege di poteri di rappresentazione".
Epperò, in tal guisa, si prospetta come necessario che il detentore debba avere anche poteri di rappresentanza del proprietario della cosa, quasi che il diritto di querela debba in ogni caso spettare solo al proprietario o a soggetto che di questo abbia poteri di rappresentanza. Ma così non è, per quanto sopra si è detto, persona offesa del reato essendo il detentore e non il proprietario non detentore, danneggiato dallo stesso. Una volta che non si contesti specificamente la qualità di "responsabile dell'esercizio commerciale", comportante l'obbligo di custodia delle cose ivi contenute e la conseguente detenzione delle stesse, appare del tutto ultroneo il riferimento a "poteri di rappresentanza" del proprietario delle cose medesime (per ricordare l'ipotesi del furto commesso in danno del ladro, di cui sopra si diceva, ognun vede che sarebbe kafkaniamente assurdo pretendere che il ladro, soggetto passivo del reato, debba avere poteri di rappresentanza del proprietario della res furtiva sottrattagli).

martedì 28 dicembre 2010

Sulla responsabilità penale del proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo.

Cassazione penale, sez. IV, 1 dicembre 2010, n. 42465.

La questione giuridica affrontata nelle sentenza in esame è quella di stabilire se il proprietario di un appartamento che affida lavori di ristrutturazione ad un lavoratore autonomo si trovi, o meno, nella stessa posizione di garanzia che l’ordinamento riconosce al datore di lavoro nei confronti di un lavoratore subordinato. Da una soluzione nell’uno o nell’altro senso dipende per il proprietario, in caso di morte del lavoratore, la sua responsabilità per omicidio colposo, ai sensi dell’art. 589 c.p..
Il caso è quello di Tizio a cui viene contestato di aver cagionato per colpa la morte di Caio perché, in qualità di committente di lavori edili da svolgersi nella sua abitazione, consentiva a Caio, da lui incaricato, di svolgere i detti lavori in assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare i rischi di caduta dall’alto (le indagini avevano individuato lo svolgimento di attività lavorativa ad altezza superiore ai metri due), sicché il Caio, in occasione del lavoro assunto, precipitando da una impalcatura non munita di parapetti con le cautele di cui all’art. 27 DPR 27/4/1955 n. 547 e non essendo provveduto di cintura di sicurezza, veniva a morte.
Tizio veniva ritenuto responsabile in primo e secondo grado del delitto di cui all’art. 589 c.p., avendo svolto i lavori in economia senza avere preventivamente verificato la idoneità del lavoratore non iscritto in alcun albo artigiano o ad alcuna lista della Camera di commercio, senza nominare un direttore dei lavori e dunque assumendosi interamente il maggior rischio di una così fatta organizzazione.
La Cassazione, che conferma integralmente la sentenza impugnata, chiarisce la indivisibilità di tutele apprestate al lavoratore subordinato e al lavoratore autonomo, con conseguente equiparazione della posizione di garanzia del datore di lavoro e del proprietrio-commitente.
La Corte rileva che la unitaria tutela dei diritto alla salute indivisibilmente operata agli artt. 32 Cost., 2087 c.c., 1 co. 1° L. 23/12/1978 n. 833 impone la utilizzazione dei parametri di sicurezza stabiliti espressamente per i lavoratori subordinati nell’impresa, per ogni altro tipo di lavoro.
Tale indivisibilità delle tutele è evidente nella loro progressiva estensione a forme di lavoro equiparate e a situazioni di istruzione (art. 3 co. 2 DPR 547/1955) e nella progressiva amplificazione del campo di applicazione delle norme antinfortunistiche anche oltre la organizzazione di impresa (artt. 1 e 2 D.Lvo 19/9/94 n. 626) fino all’esercizio dell’artigianato (artt. 1 e 4 del DPR 30/6/1965 n. 1124 come inciso da Corte Cost. 26/7/1988 n. 880) agli associati in partecipazione (art. 4 sopra menzionato come inciso da Corte Cost. 15/7/1992 n. 332).
In una lettura diacronica della legislazione alluvionale in tema di tutela della salute (e dunque di perimetrazione delle posizioni di garanzia identificabili nel sistema delle leggi) la Suprema Corte (Cass. Pen. Sez. IV ud. 10/11/2009 Gazzotti e altri imp.) ha già affermato che le misure apprestate dal D.Lvo 19/9/1994 n. 626 a tutela della salute per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati e pubblici, costituiscono il sistema di protezione più ampio che la strumentazione giuridica attraverso i suoi metodi definitori possa realizzare.
Invero il D.Lvo 626/1994 appresta protezione per il diritto alla salute e per la sicurezza dei lavoratori dipendenti di un imprenditore che svolgono attività di lavoro nell’ambito della sua organizzazione di impresa, per i lavoratori impiegati da imprese appaltatrici che lavorino all’interno di una azienda o di una unità produttiva, per i lavoratori autonomi affidatari di lavori all’interno di una azienda o di una sua unità produttiva ex art. 7 D.Lvo 626/1994. La legge penale modula dunque la figura del datore di lavoro e la assunzione di obbligazioni di garanzia coerenti alle tutele di legge, su una pluralità di modelli di lavoro in settori pubblici e privati, di lavoro subordinato direttamente utilizzato e di lavoro subordinato contrattato con terzi, di lavoro subordinato e di lavoro autonomo certamente eccedente la sola figura del lavoro subordinato come è fatto chiaro dalla lettera dell’art. 7 del D.Lvo 626/1994 e come, a livello di assetto di sistema, consegue alla moltiplicazione delle forme di lavoro introdotta con la legislazione dei primi anni 2000 (a partire dai Decreti Legislativi del settembre 2003).
 La formula utilizzata dal D.Lvo. 626/1994 supera la ristrettezza della definizione della rubrica dell’art. 3 del DPR 27/4/1955 n. 547 che, peraltro, nella combinazione (art. 3 co. 1 e co. 2 dello stesso DPR) tra definizione di lavoratore subordinato e lavoratore equiparato al lavoratore subordinato agli effetti della applicazione della normativa antinfortunistica, già dal 1955 evidenzia la erroneità della tesi di diritto secondo la quale l’ordinamento positivo italiano appresta la tutela della salute per i soli lavoratori subordinati.
In ogni caso la costante giurisprudenza della Cassazione ha tenuto ben fermo che per chiunque gestisce imprese, opifici, cantieri, oltre alla obbligazione di garanzia relativa ai lavoratori dipendenti dell’imprenditore o comunque presenti nei luoghi di lavoro per causa di lavoro, si aggiunge una ulteriore obbligazione di garanzia verso chiunque acceda a quegli impianti, obbligazione correlata agli obblighi specifici di sicurezza che cautelano le attività organizzate ma anche agli obblighi generali di non esporre alcuno a rischi generici o ambientali (Cass. 14/7/2006 n. 30587 citata dallo stesso ricorrente) derivati dalla attività del soggetto gravato per legge per contratto o per assunzione di fatto, dalla obbligazione di garanzia
In virtù dunque delle considerazioni svolte in tema di individuazione della posizione di garanzia del proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo di non verificata professionalità e in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta a fronte di lavorazioni in quota superiore ai metri due, i giudici di legittimità definiscono come errata la tesi in diritto secondo la quale in caso di prestazione autonoma (d’opera) il lavoratore autonomo sia comunque l’unico responsabile della sua sicurezza.
 Contro la tesi deve aggiungersi che l’evidenza del rischio a cui il lavoratore fu concretamente esposto (assenza di qualsiasi presidio di sicurezza per lavori in quota superiore a metri 2) delinea al meglio le omissioni addebitate e puntualmente accertate a carico del proprietario committente.

giovedì 23 dicembre 2010

La responsabilità penale per fatti commessi nell’esercizio di attività sportive.

Cassazione penale, sez. IV, 28 aprile 2010, n. 20595.

Nella sentenza indicata in epigrafe la Cassazione affronta il problema di verificare, nell’ambito di sport (per esempio il calcio e il rugby) che pur non avendo come finalità il prevalere fisico o della forza del contendente (il pugilato) espongono al rischio di contatti fisici dai quali può derivare una conseguenza negativa sulla salute dei contendenti, l’esistenza dei presupposti per l’addebito soggettivo di tali eventi.
Il caso è quello di Tizio che, nel corso di un incontro di calcio del campionato dilettanti, interveniva fallosamente sul giocatore avversario Caio che, a sua volta lo colpiva con un calcio al braccio sinistro. Ricoverato presso l’ospedale di Parma Tizio veniva trovato affetto da una frattura all’ulna, guaribile in tre mesi circa.
In particolare la Corte d’appello ricostruiva l’incidente ritenendo che, al momento del calcio Tizio fosse già caduto a terra e che Caio avesse imprudentemente cercato di colpire la palla malgrado  il rischio di colpire l’avversario già caduto a terra.
Pur escludendo la volontarietà dell'atto, la Corte di merito ha ritenuto che l'intervento di Caio fuoriuscisse dall'area del rischio consentito e che dunque fosse ravvisabile il reato di lesioni colpose con la conseguente condanna al risarcimento dei danni in favore del giocatore infortunato.
Decidendo sul ricorso dell’imputato, che lamentava violazione di legge nella sentenza della Corte d’appello perché non aveva considerato la scriminante non codificata riconducibile al c.d. “rischio consentito”, la Corte di Cassazione, confermando la decisione impugnata, ha chiarito in primo luogo proprio la nozione di rischio consentito e la possibilità di trasporla agli incidenti verificatisi nell’esercizio di attività sportive.
Al di là delle attività vietate tout court - perchè ritenute socialmente non utili (o di utilità non così rilevante da consentire l'assunzione del rischio) - le attività pericolose vengono consentite con un bilanciamento di interessi idoneo a conseguire un equilibrio tra rischio assunto e benefici conseguibili e una valorizzazione dell'obbligo di osservanza delle cautele correlato all'importanza dei beni in discussione (un rischio elevatissimo sarà consentito solo per salvaguardare beni fondamentali: si pensi ai vigili del fuoco che, a rischio della loro vita e qualche volta senza osservare le più elementari regole di prudenza, intervengono per salvare vite umane esponendo se stessi al rischio di perdere la vita).
La regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l'eventuale superamento del rischio consentito: superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore.
Rischio consentito non significa, infatti, esonero dall'obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente "consentito" per quella parte del rischio che non può essere eliminato. Insomma l'osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili - ma non prevenibili - solo se l'agente abbia rigorosamente rispettato le regole cautelari anche se non è stato possibile evitare il verificarsi dell'evento.
Non è necessario che l'attività pericolosa sia consentita normativamente; la sua utilità sociale può derivare anche dal riconoscimento tacito dell'uso da parte della comunità. Alcune attività pericolose sono addirittura obbligatorie o necessitate (si pensi alle attività di contrasto dei disastri o della criminalità, ma anche all'attività medico chirurgica d'urgenza).
Esistono anche attività pericolose, e ciò non ostante consentite, che soddisfano esclusivamente esigenze di carattere sociale, ludico o commerciale: alcuni sport (per es. il calcio o il rugby) pur non avendo come finalità il prevalere fisico o della forza del contendente (come avviene invece nel pugilato o nelle varie forme di lotta), espongono al rischio di contatti fisici dai quali può derivare una conseguenza negativa sulla salute dei contendenti.
Queste attività sono ovviamente consentite dall'ordinamento e si pone dunque il problema di individuare le regole cautelari la cui mancata osservanza consente di addebitare per colpa, ai soggetti tenuti al loro rispetto, l'evento verificatosi tenendo però conto della circostanza - che in qualche modo diversifica le attività sportive in esame da quelle pericolose in genere - che in queste attività sportive la contrapposizione, anche fisica, è connaturata al gioco e che dunque chi vi partecipa acconsente preventivamente anche a subire azioni che potrebbero ledere la sua integrità fisica.
La giurisprudenza di legittimità, negli ultimi anni, ha esaminato alcuni casi di lesioni provocate nel corso di contrasti violenti nell'esercizio delle attività sportive enucleando alcuni principi, in gran parte condivisibili anche se non sembra esservi sempre perfetta coincidenza nell'individuazione dei limiti tra penalmente irrilevante, reato colposo e reato doloso. A quanto risulta i precedenti sono costituiti da Cass., sez. 5, 13 febbraio 2009 n. 17923, Spada, rv. 243611; 4 luglio 2008 n. 44306, Maccherani, rv. 241687; sez. 5, 6 giugno 2006 n. 38143, Castenetto, n.m.; Cass., sez. 5, 20 gennaio 2005 n. 19473, Favotto, rv. 231534; 2 giugno 2000 n. 8910, Rotella, rv. 216716; 2 dicembre 1999 n. 1951, Rolla, rv.216436; sez. 4, 12 novembre 1999 n. 2765, Bernava, rv. 217643).
Da questo percorso giurisprudenziale si è tratta, in dottrina, la conclusione che la Corte di Cassazione abbia operato una distinzione del grado della colpa facendo rientrare nella copertura del rischio solo la colpa lieve da inquadrare nella c.d. "colpa incosciente" ma non la colpa grave e quella cosciente. Sembra comunque condivisibile l'opinione secondo cui le regole ricordate sono applicabili anche nelle competizioni non ufficiali "trattandosi di attività che, comunque, si riconosce di apprezzabile, e riconosciuta, rilevanza sociale, tale ritenuta e tutelata dall'ordinamento statuale".
La responsabilità penale per fatti commessi nell'esercizio di attività sportive.
I casi dei quali stiamo parlando integrano tutti fatti tipici penalmente sanzionati (percosse, lesioni o addirittura omicidio).
L'unico aspetto che può valere ad escluderne la rilevanza penale non può dunque che riguardare l'antigiuridicità tenendo conto che si tratta di attività non solo consentite ma favorite dall'ordinamento per la riconosciuta utilità sociale che le contraddistingue.
Che cosa rende dunque (penalmente) lecita una condotta rientrante nella fattispecie tipica di un reato? La risposta più frequente è quella che inquadra il tema nelle cause di giustificazione; in particolare sono state sostenute le tesi che individuano la causa di giustificazione nel consenso dell'avente diritto, nell'esercizio di un diritto, in una causa di giustificazione non codificata.
Va però premesso che il problema si pone esclusivamente se l'agente abbia cagionato un danno all'avversario in conseguenza di un'azione posta in essere in violazione della pertinente disciplina sportiva non nel caso in cui abbia rispettato le regole sportive a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (è stato fatto l'esempio del calciatore che, senza alcuna necessità, sferri un calcio fortissimo al pallone malgrado l'avversario si trovi in posizione di pericolo) e questa soluzione è condivisa anche dalla giurisprudenza civile di legittimità (v. Cass., sez. 3, 8 agosto 2002 n. 12012). Si è affermato in dottrina che, al di fuori di queste ipotesi, nel caso di danno provocato senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo.
La soluzione maggiormente condivisa è quella che individua in generale, nel caso di danni provocati nell'esercizio dell'attività sportiva, un'esimente non codificata, che esclude la punibilità di fatti che costituirebbero ordinariamente reato, fondata sull'analogia da ritenere consentita perchè in bonam partem. E la giustificazione di questa impostazione si fonda proprio sul rischio consentito: chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti - sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari.
Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperta dall'esimente, ciò a cui il giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono analoghi problemi nel caso di colpi "proibiti").
Abbiamo visto che la giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere esente da responsabilità il contendente che cagioni un danno nello svolgimento del gioco anche se, in ipotesi, abbia volontariamente violato la norma regolamentare purchè la finalità dell'azione fosse rivolta al conseguimento del risultato sportivo (per es. nel calcio il difensore spinge volontariamente l'avversario per impedirgli di intercettare il pallone; in questo caso soccorre soltanto il regolamento della disciplina e il calciatore potrà essere soggetto alle conseguenze previste dall'ordinamento sportivo, e non alla responsabilità penale se l'avversario subisce lesioni, perchè la condotta dell'agente era finalizzata allo svolgimento del gioco).
Dunque si può pervenire a questa prima conclusione: il colpo lesivo inferto volontariamente non è coperto dall'esimente in questione se estraneo alle finalità del gioco, il che si verifica, per es., quando l'azione lesiva sia posta in essere al di fuori dell'azione di gioco (si può fare l'esempio del calcio inferto ad un avversario in una zona del campo estranea all'azione); parimenti l'esimente non si applica in tutti i casi in cui la condotta violenta non sia finalizzata all'azione di gioco.
Ad analoga conclusione può però pervenirsi anche nel caso in cui l'azione violenta - pur finalizzata all'azione di gioco - sia non solo contraria alla disciplina sportiva ma addirittura estranea alle finalità del gioco: il calciatore che, sia pure in un'azione di contrasto, sferra volontariamente una gomitata sul viso dell'avversario non compie un'azione di gioco (come nel caso in cui contrasti irregolarmente il possesso della palla) ma pone in essere una condotta estranea al gioco.
In entrambi questi casi (colpo inferto volontariamente al di fuori dell'azione di gioco; colpo inferto volontariamente nell'azione di gioco ma per finalità estranee all'azione) il fatto non può che essere addebitato a titolo di dolo. In queste ipotesi l'attività sportiva è infatti estranea all'evento e costituisce soltanto un'occasione del suo verificarsi. L'agente non persegue una finalità di contrasto dell'avversario nell'azione di gioco ma lede volontariamente l'incolumità dell'avversario.
Non va però confuso il fatto violento coscientemente diretto a colpire l'avversario con la cosciente violazione della regola sportiva di comportamento. Se questa violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo; non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto).
Insomma è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario (si vedano, in questo senso, le condivisibili argomentazioni contenute nella citata sentenza Spada).
Ma se l'evento lesivo non è voluto, e neppure preventivamente accettato dal giocatore, può configurarsi una responsabilità per colpa nei casi in cui si sia in presenza della mera violazione della norma del regolamento di gioco? La risposta in linea di massima deve essere negativa: se l'azione è finalizzata allo sviluppo del gioco la violazione della regola disciplinare, anche se volontaria, non è sufficiente a concretizzare una responsabilità per colpa proprio in base al principio del rischio consentito: ogni giocatore sa, e accetta preventivamente, che egli e i suoi avversari possono violare le regole del gioco creando il rischio di eventi dannosi.
Che cosa può dunque ritenersi non coperto dalla scriminante e configurare una responsabilità per colpa? Deve anzitutto ritenersi estranea alla copertura del rischio consentito la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata (per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto) o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario (per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa).
In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza).

giovedì 2 dicembre 2010

Il direttore di un giornale on line non risponde per omesso controllo ex art. 57 c.p..

Cassazione penale, sez. V, 1 ottobre 2010, n. 35511.

La questione giuridica affrontata dalla Cassazione è quella di stabilire se l’attività del direttore di una testata on line sia, o meno, assimilabile a quella del direttore di un giornale di carta stampata, con conseguente sussumibilità sotto l’art. 57 c.p. della condotta di omesso controllo sul contenuto di articoli diffamatori pubblicati sul suo periodico.
Il caso è quello di Tizio, direttore del periodico telematico ildirittopenale.blogspot.com, sul quale risultava pubblicata una lettera ritenuta diffamatoria nei confronti del ministro della Giustizia Caio e del suo "consulente per l'edilizia penitenziario" Sempronio.
L'art. 57 c.p. punisce, come è noto, il direttore del giornale che colposamente non impedisca che, tramite lo pubblicazione sul predetto mezzo di informazione, siano commessi reati.
Il codice, per altro, tra i mezzi di informazione, distingue la stampa rispetto a tutti gli altri mezzi di pubblicità (art. 595 comma III c.p.) e l'art. 57 si riferisce specificamente alla informazione diffusa tramite lo "carta stampata".
 La lettera della legge è inequivoca e a tale conclusione porta anche l'interpretazione "storica" della norma.
In dottrina e in giurisprudenza si è comunque discusso circa la estensibilità del concetto di stampa, appunto agli altri mezzi di comunicazione. E così una risalente pronunzia (ASN 198900259-RV 180713) ha escluso che fosse assimilabile al concetto di stampato lo videocassetta preregistrata, in quanto essa viene riprodotta con mezzi diversi da quelli meccanici e fisico-chimici richiamati dall'art. 1 della legge 47/48.
D'altra parte, è noto che la giurisprudenza ha concordemente negato (ad eccezione della sentenza n. 12960 della Sez. feriale del 12.12.2000, ric. Cavallino, non massimata) che al direttore della testata televisiva sia applicabile la normativa di cui all'art. 57 c.p., stante la diversità strutturale tra i due differenti mezzi di comunicazione (la stampa, da un lato, la radiotelevisione dall'altro) e la vigenza nel diritto penale del principio di tassatività.
Secondo la quinta sezione penale della Cassazione, “analogo discorso deve esser fatto per quel che riguarda l’assimilabilità di internet (rectius del suo "prodotto") al concetto di stampato.
L'orientamento prevalente in dottrina è stato negativo, atteso che, perché possa parlarsi di stampa in senso giuridico (appunto ai sensi del ricordato art. 1 della legge 47/48), occorrono due condizioni che certamente il nuovo medium non realizza:
a) che vi sia una riproduzione tipografica (prius),
b) che il prodotto di tale attività (quella tipografica) sia destinato alla pubblicazione e quindi debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico (posterius).
Il fatto che il messaggio internet (e dunque anche lo pagina del giornale telematico) si possa stampare non appare circostanza determinante, in ragione della mera eventualità, sia oggettiva, che soggettiva. Sotto il primo aspetto, si osserva che non tutti i messaggi trasmessi via internet sono "stampabili": sì pensi ai video, magari corredati di audio; sotto il secondo, basta riflettere sulla circostanza che, in realtà, è il destinatario colui che, selettivamente ed eventualmente, decide di riprodurre a stampa lo "schermata".
Bisogna pertanto riconoscere lo assoluta eterogeneità della telematica rispetto agli altri media, sinora conosciuti e, per quel che qui interessa, rispetto alla stampa.
D'altronde, non si può non sottolineare che differenti Sono le modalità tecniche di trasmissione del messaggio a seconda del mezzo utilizzato: consegna materiale dello stampato e sua lettura da parte del destinatario, in un caso (stampa), irradiazione nell'etere e percezione da parte di chi si sintonizza, nell'altro (radio e TV), infine, trasmissione telematica tramite un ISP (internet server provider), con utilizzo di rete telefonica nel caso di internet.
Ad abundantiam si può ricordare che l'art. 14 D. L. vo 9.4.2003 n. 70 chiarisce che non sono responsabili dei reati commessi in rete gli access provider, i service provider e -a fortiori- gli hosting provider (cfr. in proposito ASN 200806046-RV 242960), a meno che non fossero al corrente del contenuto criminoso del messaggio diramato (ma, in tal caso, come è ovvio, essi devono rispondere a titolo di concorso nel reato doloso e non certo ex art 57 c.p.).
Qualsiasi tipo di coinvolgimento poi va escluso (tranne, ovviamente, anche in questo caso, per l'ipotesi di concorso) per i coordinatori dei blog e dei forum.
Non diversa è la figura del direttore del giornale diffuso sul web.
Peraltro, anche nel caso oggi in esame, sarebbe, invero, ipotizzabile, in astratto, la responsabilità del direttore del giornale telematico, se fosse stato d'accordo con l'autore della lettera (lo stesso discorso varrebbe per un articolo giornalistico). A maggior ragione, poi, se lo scritto fosse risultato anonimo. Ma -è del tutto evidente- in tal caso il direttore avrebbe dovuto rispondere del delitto di diffamazione (eventualmente in concorso) e non certo di quello di omesso controllo ex art 57 c.p., che come premesso, non è realizzabile da chi non sia direttore di un giornale cartaceo.
Sul piano pratico, poi, non va trascurato che la c.d. interattività (la possibilità di interferire sui testi che si leggono e si utilizzano) renderebbe, probabilmente, vano – o comunque estremamente gravoso – il compito di controllo del direttore di un giornale on line.
Dunque, accanto all'argomento di tipo sistematico (non assimilabilità normativamente determinata del giornale telematica a quello stampato e inapplicabilità nel settore penale del procedimento analogico in malam partem), andrebbe considerata anche la problematica esigibilità della ipotetica condotta di controllo del direttore (con quel che potrebbe significare sul piano della effettiva individuazione di profili di colpa).
Allo stato, dunque, "il sistema" non prevede lo punibilità ai sensi dell'art 57 c.p. (o di un analogo meccanismo incriminatorio) del direttore di un giornale on line”.