venerdì 30 dicembre 2011

Reati tributari: l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto.


di Giovanni Miccianza
 
L'art. 10 ter (Omesso versamento di IVA) del D.L.vo 74/2000, introdotto dal decreto legge n. 223 del 2006, a decorrere dal 4 luglio 2006 estende l'applicazione dell'art. 10 bis (Omesso versamento di ritenute fiscali) del medesimo decreto legislativo all'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.
In relazione al contenuto della norma, il rinvio a quanto previsto dall’art. 10 bis, determina la previsione di una sanzione penale da 6 mesi a 2 anni di reclusione e prevede la punizione unicamente per quelle condotte omissive aventi ad oggetto un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.
L’avvenuta presentazione della dichiarazione IVA costituisce presupposto indispensabile per la sussistenza del delitto qui in esame.
Ulteriore elemento è che l’omissione abbia ad oggetto le somme dovute sulla base di questa, per come auto-liquidate dal contribuente.
Il legislatore ha limitato la condotta qui penalmente rilevante solo ai casi nei quali una tale dichiarazione è stata presentata e con riferimento alle somme per essa dovute, in quanto la mancata presentazione della dichiarazione IVA con contestuale versamento di imposta è punita dall’art. 5 del d.lgs. 74/2000. Un problema di concorso di reati non può aversi tra il delitto di cui all’art. 10 ter e quello di cui all’art. 5 in materia di omessa presentazione della dichiarazione, trattandosi di ipotesi del tutto alternative.
 Infatti, se la dichiarazione non è stata presentata sarà configurabile unicamente il delitto di cui all’art. 5, mentre laddove la dichiarazione è stata presentata e non si è provveduto a pagare l’IVA in essa indicata nessuna omessa dichiarazione sarà presente ricorrendo al più la fattispecie di cui all’art. 10 ter.
Il delitto in esame è strutturato come un reato omissivo proprio, istantaneo.
Per quanto riguarda il bene giuridico, l’oggetto della tutela deve essere individuato nell’interesse dell’Erario alla tempestiva ed efficace riscossione delle imposte nella dichiarazione annuale.
Si tratta di un reato proprio potendo essere commesso esclusivamente da un soggetto IVA il quale abbia presentato una dichiarazione annuale con un saldo debitorio superiore ai 50.000,00 euro.
La condotta, di natura omissiva, è data dal mancato versamento dell’IVA risultante dalla dichiarazione annuale presentata.
 Secondo l’opinione prevalente presupposto indispensabile affinché l’omissione possa avere rilevanza è, innanzitutto, che il soggetto attivo abbia presentato la dichiarazione annuale IVA sulla cui base questi risulti debitore delle somme, poi, non versate.
La necessità di questa avvenuta presentazione della dichiarazione emerge dal dato letterale della norma ove si fa riferimento al mancato versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale.
Diversamente, secondo altra dottrina, per la consumazione di questo reato non è necessario che sia intervenuta la presentazione materiale della dichiarazione; ciò in quanto: a) la dichiarazione qui serve solo come mero riferimento per la determinazione quantitativa del debito di imposta; b) non avrebbe senso riservare un trattamento sanzionatorio più aspro nei confronti del contribuente che abbia adempiuto all’obbligo strumentale di presentare la dichiarazione lasciando, invece, penalmente indenne che quell’obbligo non abbia osservato.
Per la sussistenza del delitto è necessario che l’IVA indicata nella dichiarazione annuale e non versata sia per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.
In relazione alla entità della soglia di punibilità, perplessità sorgono in ordine alla differenza tra questa e quella prevista dall’art. 5 in materia di omessa presentazione della dichiarazione. Infatti, nel caso dell’art. 5 l’omessa dichiarazione è penalmente rilevante solo se comporta una evasione per ciascuno tipo di imposta pari a 77.468,53. Da ciò deriva la paradossale conseguenza che laddove un contribuente presenti regolarmente la dichiarazione IVA e non versi l’imposta dovuta sulla base di essa per un importo superiore a 50.000,00 euro ma inferiore a 77.468,53 commetterà il delitto di cui all’art. 10 ter, mentre se quello stesso contribuente non avesse presentato alcuna dichiarazione non avrebbe commesso alcun reato, essendo l’imposta evasa inferiore alla soglia di punibilità prevista dall’art. 5. Il tutto, in modo obiettivamente irrazionale e oggetto di una possibile violazione dell’art. 3 della Cost., apparendo illogico sanzionare con una soglia di punibilità più bassa chi, presentando la dichiarazione, ha , comunque, auto-liquidato l’imposta dovuta, rispetto a chi, invece, non presentando alcuna dichiarazione, si è occultato all’Erario, rendendo sicuramente più difficile accertare sia la presenza di quel soggetto IVA sia l’imposta del medesimo dovuta e non versata. Analoga situazione e simili perplessità sorgono anche con riferimento all’art. 3, in materia di dichiarazione fraudolenta,  in ordine alla più alta soglia di punibilità prevista (evasione di imposta superiore a 77.468,53) per questa fattispecie rispetto a quella, più bassa, stabilita per l’art. 10 ter.
Il delitto in esame richiede la necessaria presenza nel soggetto attivo del dolo. Dolo che non è specifico ma generico. Da ciò deriva che per la sussistenza del reato è necessario, ma anche sufficiente, che il soggetto attivo abbia la coscienza e volontà di aver presentato una dichiarazione IVA e di aver, poi, omesso il versamento delle somme in essa indicate in favore dell’Erario, entro il termine anzidetto.
 Infine, occorre sottolineare che il delitto in commento ha natura di reato istantaneo e si consuma nel momento in cui scade il termine per il versamento dell’acconto per il periodo successivo (fissato al 27 dicembre dell’anno successivo al periodo di imposta di riferimento).
Trattandosi di un reato istantaneo, avendo voluto il legislatore punire unicamente il mancato versamento nel termine stabilito, questo delitto si consuma nel momento in cui scade il termine previsto per il versamento, restando privo di rilevanza, ai fini della configurazione del reato, l’eventuale successivo pagamento. In questi casi, infatti, il ritardato versamento, pur non escludendo la sussistenza di un delitto oramai perfetto consente, se comprensivo anche del pagamento degli interessi e delle sanzioni amministrative conseguenti, l’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 74/00.

Normativa di riferimento:
DECRETO LEGISLATIVO 10 marzo 2000, n. 74 - Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205
(Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale - Serie generale n. 76 del 31 marzo 2000)
Art. 10-bis
Omesso versamento di ritenute certificate
1. E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta.
Art. 10-ter
Omesso versamento di IVA
1. La disposizione di cui all'articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque versa l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo.
Art. 5.
Omessa dichiarazione
1. E' punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte a lire centocinquanta milioni.
2. Ai fini della disposizione prevista dal comma 1 non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.

giovedì 29 dicembre 2011

Sul bene giuridico nei reati di ingiuria e diffamazione.

di Filippo Lombardi

I reati di ingiuria e di diffamazione sono previsti e puniti dagli articoli 594 e 595 del codice penale vigente, e proteggono il bene giuridico dell’onore. Sono due reati molto particolari, poiché l’applicazione della norma dipende in misura rilevante dalla lesività dell’azione del soggetto agente. La questione che si vuole evidenziare è quindi: cos’è effettivamente l’onore? L’onore suole definirsi secondo due vesti.

1) Onore in senso soggettivo, inteso come sentimento che la persona prova nei propri confronti, teso a preservare la propria dignità morale. A ben vedere, la definizione, data da gran parte della dottrina, è ridondante poiché il concetto di dignità morale è tautologico. La dignità, infatti, altro non è che il valore morale di una persona, ovvero l’insieme di tutti quei caratteri connaturati al proprio io, che hanno a che fare con concezioni etiche-morali che la persona ha sviluppato dentro di sé negli anni di vita e che ci tiene a vedere riconosciute e rispettate come caratteri inscindibili della propria personalità. Ecco perché abolirei dalla definizione l’aggettivo morale.

2) Onore in senso oggettivo, inteso come “ciò che gli altri pensano di me”, e va a ricomprendere tutti quei sentimenti collettivi come la stima e il riconoscimento dell’altro, sentimenti che vanno a confluire nel concetto di reputazione, cioè il modo in cui gli altri considerano il soggetto passivo del reato, a livello morale, personale, lavorativo, ecc.

Le due facce del concetto di onore sono state analizzate ancor più nello specifico poiché, dopo l’opera definitoria, sorgeva un problema di riscontro. Si parla di onore, di dignità, di reputazione. Ma si sa che il principio di frammentarietà del diritto penale comporta che solo alcuni beni giuridici vengano tutelati, e nel corso degli anni la concezione costituzionalmente orientata di bene giuridico aveva offerto il lasciapassare ai fini della tutela solo a beni giuridici che fossero emersi dalla Costituzione. Dove troviamo il bene giuridico dell’onore, o almeno le sue scissioni in diritto al rispetto della dignità e diritto al rispetto della reputazione?
La dottrina si sforzava perciò di riscontrare la presenza di detti concetti nella nostra fonte suprema del diritto attraverso un’opera di interpretazione implicita (mi sentirei di dire teleologica), e ne venivano fuori alcune interessanti teorie che lo scrivente vuole non solo presentare ma di cui intende (quantomeno cercare di) svelare i punti deboli:

- Concezione normativa dell’onore. Essa fa leva sull’articolo 3 Cost. e si fonda sul riconoscimento della parità sociale, che comporterebbe una pari dignità tra i consociati, e perciò un divieto di ergersi a giudici degli altri. Questa teoria è “esteticamente piacevole” e funzionale a risolvere vuoti di tutela come nel caso di chi non ha ancora una reputazione ben definita. Applicando la teoria citata, si fornirà tutela al soggetto passivo anche in questi casi particolari. Ma qual è il punto debole di questa teoria? Non fa i conti col bene giuridico. La teoria in questione infatti non preserva nulla. Essa ci dice “tu, consociato, non giudicare!” ma non “mette sul piatto” il bene giuridico. Dov’è il bene giuridico tutelato? E’ nascosto dietro al principio di uguaglianza? Mi pare alquanto forzato dirlo. Il principio di uguaglianza è una cosa, l’onore è un’altra cosa. La teoria, perciò, rimane solo un buon ausilio per i casi problematici a cui ho fatto riferimento, ma non può considerarsi onnicomprensiva, altrimenti si finirebbe per presumere in maniera generale l’esistenza dell’onore col ricorso alla parità sociale.

- Concezione solidaristica e tripartizione del concetto di onore. Tendo qui a sottolineare che alla teoria in questione non è mai stato dato un nome specifico, e che il nome qui presente è solo un tentativo di concettualizzazione dato dallo scrivente. Questa teoria rintraccia l’onore nella capacità della persona di essere funzionale alla società e di essere in grado di convivere civilmente coi consociati secondo le normali aspettative sociali normativizzate dall’ordinamento giuridico. Non c’è bisogno di svelarne il punto debole, perché andando avanti con la teorizzazione che parte della dottrina ha offerto, ci si rende conto che il concetto di onore deve per forza essere tripartito. L’onore rileverebbe come onore soggettivo (interiore), onore oggettivo (esteriore), onore presunto dalla collettività (questa presunzione deriverebbe dal riconnettere la capacità di cui sopra ad ogni soggetto aprioristicamente). Questa concezione è più sincera della teoria precedente, perché ammette espressamente che la tutela di beni giuridici che si riconnettono ai sentimenti (sentimento della persona nei confronti di se stessa e sentimento dei consociati nei confronti della persona) può essere approntata solo attraverso un’opera di astrazione e presunzione concettuale.
E, a conti fatti, qual è il problema di fondo a cui porge il fianco l’opera di presunzione del concetto di onore (e quindi di dignità, di reputazione, di stima, di considerazione ecc)? Che si trasforma un reato che si suole definire di danno, in un reato di pericolo presunto, o comunque in un reato con bene giuridico presunto. Perché  presunto? Perché abbracciando le teorie finora offerte (che, voglio sottolineare, sono quelle operative e riconosciute dalla giurisprudenza dominante, ma che forse nessuno si è mai sognato di mettere in discussione) si prescinderà dal controllo dell’esistenza del bene giuridico. Si finirà per dire, eventualmente, dinanzi ad un’affermazione ingiuriosa o diffamatoria (mi si perdonerà per il linguaggio non proprio elevato) “Beh, non sappiamo se c’è un onore effettivamente esistente, ma diamo comunque una tutela, presumendo che il bene esista, non si sa mai”. Si passa così da reato di danno a reato di pericolo, o quantomeno si mette in luce una sorta di intermittenza della natura di questi due reati a seconda dei casi, una impossibilità di analisi concettuale dei due reati a trecentosessanta gradi. I reati riveleranno la loro costruzione interna, a seconda dei casi.
Col tempo poi si è sviluppata una ulteriore caratteristica dell’onore, o meglio una conseguenza implicita della presunzione dell’onore, che facilita la creazione di nuovi diritti quesiti. La definizione di onore comporta, infatti il diritto alla reale rappresentazione della propria personalità. Su questo, nulla da dire, è evidentemente una estrinsecazione letterale di quanto ammesso precedentemente attraverso le attività definitorie del concetto di onore. Se ognuno è qualcosa, e ci tiene a considerarsi ed essere considerato tale, la conseguenza è che la sua personalità debba essere trattata con le pinze, non violata, e ben raffigurata all’esterno, nei rapporti sociali.
Alle teorie  sinora esposte, preme allo scrivente tentare di fornirne una ulteriore.

- Combinato disposto tra gli artt. 2 e 32 Cost. Se proprio non si vuole considerare l’onore come un qualcosa di calato dall’alto (come succede abbracciando la prima teoria esposta) ma come qualcosa che sfocia dall’interno della persona, si può tentare di prendere in considerazione l’art. 32 Cost., norma che è longa manus dell’art. 2 Cost. che fa riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo. Il nesso tra i due articoli è profondo. Nell’articolo 32 si legge che nessuno può essere sottoposto contro la propria volontà a trattamenti terapeutici o sanitari, se ciò non è reso obbligatorio dalla legge. Ma al contempo si pone alla legge il limite del rispetto della persona umana. Questo rispetto della persona umana non può appartenere solo all’articolo 32, ma deve essere considerato come assolutamente pervasivo dell’intero impianto costituzionale. E dato che non si può ritenere che la legge debba avere come limite ogni bene giuridico della persona, si può con un po’ di buon senso ritenere che il limite effettivo lo si ritrovi proprio nella dignità della persona, come valore aulico e imprescindibile, un valore totalizzante. Se l’etica dominante reputa lecita l’eutanasia passiva (cioè l’omissione avente ad oggetto l’alimentazione forzata, c.d. accanimento terapeutico) vuol dire che dal punto di vista etico si vuole far prevalere la volontà decisionale della persona, la libertà di autodeterminazione. E da cosa sarebbe retta una eventuale decisione di lasciarsi morire? Dal fatto che al giorno d’oggi non è più rilevante il mero diritto alla vita, ma ciò che ogni uomo ricerca è il diritto alla vita dignitosa. E cosa significa vivere dignitosamente? Cosa pensiamo quando riflettiamo sul contenuto del concetto di vita dignitosa? Semplice: sia una vita in cui possiamo esprimere ciò che siamo e come ci sentiamo dentro e cosa vogliamo, sia una vita in cui possiamo essere funzionali alla società e alla realtà circostante, in cui possiamo apportare all’esterno qualcosa di noi stessi. Il cerchio quindi si chiude. Dove vanno ad incastrarsi l’espressione di cosa siamo e la funzionalizzazione del nostro essere? Nell’onore soggettivo (interno) e nell’onore oggettivo (esterno).
Un ultimo ragionamento, spostandoci sul piano tecnico e di punibilità del reo. Abbiamo dinanzi a noi finora due casi possibili: 1) caso in cui il soggetto passivo ha un onore (o una reputazione) mediamente riscontrabile e dimostrabile, il quale viene leso; 2) caso in cui il soggetto passivo non ha un onore (o una reputazione) ben formata. Nel primo caso la punibilità è evidente. Nel secondo caso la si presuppone evidente tramite il ricorso alla concezione normativa di onore. Ma a ben vedere vorrei porre una terza situazione. Il caso in cui un soggetto ha una reputazione, forte, (tendenzialmente) indubbia, dimostrata, evidente, estesa, ampiamente riconosciuta, e contro lo stesso vengano rivolte frasi ingiuriose o diffamatorie. La giurisprudenza, applicando la concezione normativa sopra esposta, ritiene che la punibilità non sia esclusa. Lo scrivente invece auspicherebbe che venga fatta un’analisi caso per caso, e che il discrimine debba porsi tra espressioni argomentate ed espressioni non argomentate. Se ad un soggetto con reputazione forte vengono rivolte delle espressioni  che si concretizzino in singoli aggettivi, epiteti, apposizioni, assolutamente inconcepibili e di contenuto talmente opposto al contenuto della sua reputazione, tale da configurarsi come risibili, suggerirei l’applicazione dell’art. 49 co. 2 del codice penale, per l’inidoneità dell’azione a ledere il bene giuridico tutelato dalle norme. L’inidoneità lascerebbe il posto alla idoneità nel caso specifico in cui l’espressione teoricamente ingiuriosa sia argomentata attraverso la spiegazione del motivo dell’uso dell’espressione stessa. In quel caso l’azione risulterebbe in grado di fornire prove concrete all’applicazione dell’epiteto o della qualifica degradante al soggetto passivo, e quindi in grado di scalfire il suo scudo protettivo ( cioè la dignità e la reputazione di cui una persona gode).

[ FONTE. La digressione su questa tematica è una riflessione personale derivata dalla piacevole lettura rivisitata delle pagine da 91 a 105, del libro Fiandaca – Musco “Diritto penale, Parte speciale – I delitti contro la persona”, terza edizione, Zanichelli Editore. ]

mercoledì 28 dicembre 2011

I comportamenti iperprotettivi nei confronti del minore costituiscono maltrattamenti in famiglia

Cassazione penale, sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 36503

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Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha affermato la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia in relazione a comportamenti iperprotettivi tenuti dal genitore nei confronti del figlio minore e tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, sottolineando come ai fini della sussistenza del reato non rileva il grado di percezione del maltrattamento da parte della vittima minorenne e, tantomeno, il suo consenso.
Nel caso di specie la madre Tizia, in concorso con il nonno Caio del minore Mevio, aveva nel tempo e fino all’età preadolescenziale di quest’ultimo posto in essere atteggiamenti qualificati dal giudice del merito come eccesso di accudienza e consistiti nell’impedimento di rapporti con coetanei, nell’esclusione del minore dalle attività inerenti la motricità, anche quando organizzate dall’istituzione scolastica, nonché nell’induzione della rimozione della figura paterna, costantemente dipinta in termini negativi, fino ad impedire allo stesso minore di utilizzare il cognome del padre).
Di seguito si riporta la sentenza della Suprema Corte:
Tizia e Caio rispettivamente madre e nonno materno del minore Mevio (nato il (OMISSIS)) ricorrono, a mezzo del loro comune difensore, avverso la sentenza 19 ottobre della corte d'appello di Bologna (che li ha condannati per il delitto di cui all'art. 572 (1) c.p., confermando la decisione di condanna 17 maggio 2007 del G.U.P. del Tribunale di Ferrara), deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.
1) l'accusa e le conformi decisioni dei giudici di merito.
I G. (nonno materno e madre del minore Caio) sono imputati: 1) del delitto p. e p. dall'art. 572 c.p., per aver, in concorso tra loro, quali conviventi con il minore Caio, nato il (OMISSIS), mediante atteggiamenti iperprotettivi nei confronti del minore medesimo, consistiti fra gli altri nel non far frequentare con regolarità la scuola allo stesso, nell'impedire la sua socializzazione (il minore ha conosciuto suoi coetanei solo in prima elementare), nell'impartire regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico del minore con conseguenti disturbi deambulatori, prospettandogli, inoltre, la figura paterna come negativa e violenta tanto da imporgli di farsi chiamare con il cognome materno, sottoponendolo a tutte dette vessazioni, maltrattato il minore Caio.
Con sentenza 17 maggio 2007 del G.U.P. di Ferrara, all'esito di giudizio abbreviato, gli odierni ricorrenti sono stati dichiarati responsabili del reato ascritto e condannati alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ciascuno (pena base anni 3, in ragione della speciale gravità delle condotte e della loro prosecuzione per anni, ridotta ad anni 2 per le generiche ed ulteriormente come a dispositivo per la scelta del rito). Il G.U.P. ha negato la chiesta sospensione condizionale della pena, che è stata peraltro interamente condonata.
Con sentenza 19 ottobre 2010 la Corte di appello di Bologna su gravame degli imputati ha confermato le statuizioni del G.U.P. di Ferrara in data 17 maggio 2007.
Per i giudici di merito gli atti di maltrattamento, nei confronti del minore, convivente con la madre ed il nonno nella casa di questi, si sono materializzati:
a) in atteggiamenti iperprotettivi qualificati come "eccesso di accudienza", mantenuto e proseguito in età preadolescenziale, con imposizione di atti riservati all'età infantile, nonchè nell'esclusione del minore da attività anche didattiche istituzionali, inerenti la motricità;
b) in deprivazioni sociali (impedimento di rapporti con coetanei) e psicologiche (rimozione della figura paterna); condotte tutte contestate come commesse fino all'(OMISSIS).
Tali condotte, una volta accertate, sono state nel loro complesso valutate come concretamente idonee a ritardare gravemente nel minore sia lo sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l'acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione).
2.) i motivi di impugnazione.
Il ricorso è articolato in quattro diffusi motivi di doglianza, i primi dei quali attengono all'azione esecutiva e ai profili soggettivi del delitto di maltrattamenti, mentre l'ultimo riguarda l'entità della sanzione irrogata.

Con un primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto, sotto il profilo dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p.. Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p..
Con un terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p., per difetto del dolo.
Con un quarto motivo si evidenzia l'illogicità della motivazione posta a fondamento del trattamento sanzionatolo, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione, e a cui si è accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato. 3.) le ragioni della decisione di rigetto della Corte di legittimità.
Prima di esaminare analiticamente il tenore del gravame va precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza del primo giudice, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.
La difesa degli imputati sostiene che la Corte d'Appello di Bologna ha confermato la sentenza di prime cure, maturando un giudizio di diritto che non può essere condiviso, in quanto, per confermare la decisione del Giudice di primo grado, essa ha finito per rimodellare la struttura del reato di maltrattamenti, stravolgendone la natura e gli elementi costitutivi, al fine di rendere applicabile la predetta norma sostanziale a condotte che non possono rientrare, invece, nell'ambito dell'elemento oggettivo richiesto dalla norma in esame.
2.1) l'elemento oggettivo del reato e la conforme azione esecutiva nella condotta dei ricorrenti.
Il ricorrente, premesso l'assunto (pacifico) che i maltrattamenti di cui si sarebbero resi responsabili i G. consisterebbero sostanzialmente in atteggiamenti di iperprotezione e di ipercura, prospetta con il primo motivo che tali condotte andrebbero considerate espressione di fenomeni patologici che non possono rientrare nel concetto di maltrattamenti, così come inteso dalla norma in esame, in quanto prive di una chiara connotazione negativa.
Quali esempi tipici della materialità dei maltrattamenti, il ricorso indica: il consentire al minore di vivere in stato di abbandono in strada per chiedere l'elemosina; la ripetuta esposizione del minore a contesti erotici; l'utilizzo di mezzi e metodi trascendenti qualsiasi aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico formativo, sostanziati in percosse e punizioni umilianti e gratuite.
Si tratta ad avviso del difensore di condotte tutte che si qualificano per una chiara "connotazione negativa", talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, come peraltro indica, inequivocabilmente, la stessa rubrica dell'art. 572 c.p..
La conclusione dell'argomentare difensivo è quindi nel senso che - al contrario- gli atteggiamenti di iperprotezione o di ipercura, lungi dal costituire i maltrattamenti sanzionati dalla norma, integrano la ripetizione di condotte che nascono come positive e certo ispirate da intenzioni lodevoli, salvo poi riverberare effetti negativi su chi tali condotte subisce a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione. Da ciò deriverebbe che l'ipercura e l'iperprotezione, addebitate ai G., non possano costituire l'elemento oggettivo del reato di maltrattamenti, atteso che tra le due condotte, quella di chi maltratta e quella di chi ipercura o iperprotegge, esiste, con tutta evidenza, un'incompatibilità strutturale insanabile.
Ritiene il Collegio che lo sforzo del difensore, pur apprezzabile per il suo sviluppo dialettico, parta da una "posizione riduttiva" nella lettura del dettato normativo, dimenticando che nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p., l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati secondo il lessico del ricorrente da una "chiara connotazione negativa", ma anche dalla tutela dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma (Cass. pen. sez. 6, 37019/2003 Rv. 226794), interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente.
In tale quadro, poco conta la "soglia di sensibilità del minore vittima", la quale, non solo per il grado di sviluppo psico-fisico della persona offesa, ma, soprattutto, perchè essa, oggettivamente disafferenziata dai contesti di riferimento ("gruppo dei pari di età"), di necessità, non può disporre di standard di peso della negativa e deteriore realtà in cui è costretta a vivere.
In tale quadro si appalesa quindi irrilevante il riferito "stato di benessere del bambino"r tenuto conto che, non a caso, in tutti i sistemi di civiltà evoluta, lo Stato può verificare in modo intrusivo le "realtà di disagio anomalo" nella famiglia e le loro cause umane, imponendo prescrizioni ai familiari, sino alla decadenza dalla potestà, all'allontanamento, e allo stato di adottabilità del minore stesso. Nè miglior sorte va riservata al secondo profilo critico del ricorso, prospettato per negare la materialità dei maltrattamenti, sulla base del rilevo che il reato esige - come risultato - che gli atti di maltrattamento (lesivi dell'integrità fisica o morale, della libertà o del decoro della vittima) siano tali da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e la persona offesa, con conseguente necessità, ad avviso del ricorrente, di un rapporto diretto tra colui che pone in essere le condotte di maltrattamento ed il soggetto che, in ragione di tali condotte, trova sofferenza e disagio ed, ancora, che vi sia un rapporto causale diretto tra maltrattamento da un lato ed il dolore ed il disagio dall'altro, realtà che nella vicenda sarebbero escluse dal manifestato benessere del minore di vivere iperaccudito nella realtà familiare. La conclusione della difesa soffre dello stesso vizio di lettura della precedente doglianza in quanto pone, come crinale e "discrimen" del maltrattamento, lesivo dei processi di crescita psicologica e fisica del minore, il grado di percezione del maltrattamento stesso ad opera della vittima minorenne. Non è chi non veda l'insostenibilità dell'assunto che fa dipendere Soggettiva sussistenza della condotta illecita dalla "variabile soglia di sensibilità della vittima", che, in quanto minore esige efficace tutela, anche contro la sua stessa infantile limitata percezione soggettiva. La critica va quindi rigettata, senza dimenticare la regola che in ogni caso, a prescindere dalla minore età della vittima, il reato de quo mai può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali o, come nella specie, scelte e stili pedagogici obsoleti, od in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli articoli 29-31 Cost. (cfr. Cass. pen. sezione.6, 46300/08, Fhami; Cass. Penale sez. 6^, 3398/1999, Rv. 215158, Bajarami). Quanto al tema della "deprivazione psicologica" e quindi della "rimozione della figura paterna", sostiene il difensore che non sarebbe emersa alcuna prova certa in ordine all'asserito condizionamento psicologico, tanto più che l'avversione del minore nei confronti del padre, ad esito del giudizio di primo grado, era già stata temporalmente e causalmente collocata con riguardo al fortissimo trauma subito in occasione dei tentativi di allontanamento ed, in generale, all'iter doloroso cui il minore si sentiva sottoposto a causa dei pur nobili intenti del padre.
Il motivo, per come profilato, non supera la soglia dell'ammissibilità.
Nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell'analisi e nella vantazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, sul punto della "rimozione della figura paterna" considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.
In conclusione l'esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.
Il motivo va quindi respinto in tutte le sue articolazioni.
2.2) la sussistenza dei profili soggettivi del contestato delitto.
Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p..
Con il terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p., per difetto del dolo.
I due motivi tra loro correlati vanno congiuntamente esaminati e valutati.
Il difensore, nel prendere atto che se può essere fonte di censura, o di rammarico, il modo in cui i G. recepiscono gli accadimenti, nonchè "la rigidità e la chiusura mentale che mostrano", sostiene che "non si può esigere che tale dato, ineliminabile e per così dire strutturale, cambi nel momento in cui tutta la famiglia si sente sotto attacco", circostanza peraltro che a suo avviso non varrebbe ad integrare il dolo richiesto dalla norma.
In buona sostanza ed in altre parole: l'assunto difensivo è che difetterebbe la seppur minima consapevolezza di creare disagio in Riccardo, in persone adulte e mature per le quali, osserva peraltro il Collegio, non è stata prospettata avanti ai giudici di merito alcuna questione di non-integrità dei processi di intelligenza e volontà.
L'argomento non regge.
Invero, se è ragionevole ritenere che, inizialmente, la diade "madre- nonno" possa aver agito in buona fede, sia pur secondo una falsa coscienza, nella scelta delle metodiche educative e nell'accurata attenzione nell'impedire contatti di ogni tipo al bambino, isolandolo nelle sicure "mura domestiche", tale profilo soggettivo non aveva più motivo di sussistere dopo i ripetuti sinergici interventi correttivi di una pluralità di esperti e tecnici dell'età evolutiva e del disagio psichico ed i conformi interventi dell'autorità giudiziaria.
La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, talora imposte e talora pure concordate, segnala, al di là di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza, la pacifica ricorrenza in capo agli accusati della intenzionalità che connota il delitto ritenuto nei termini correttamente ribaditi dai giudici di merito.
Il motivo va quindi rigettato.
2.3) il trattamento sanzionatorio.
Con un quarto motivo i ricorrenti evidenziano l'illogicità della motivazione, posta a fondamento del trattamento sanzionatorio, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione per la donna, ed alla quale si è comunque accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati, desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato. Anche questo motivo non ha fondamento. Il trattamento sanzionatorio paritario risulta efficacemente argomentato, già in primo grado, con riferimento al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, attribuite al nonno per la sua incensuratezza ed alla G.E. (con precedenti) per il ruolo in sottordine rispetto al padre.
Quanto al richiamo alla prosecuzione della condotta illecita, utilizzato dalla corte distrettuale per ribadire "ad abundantiam" le formulate argomentazioni, in punto di conferma della sanzione, valorizzando in proposito anche il dispositivo di una sentenza di condanna per lo stesso illecito (decisione non definitiva ed acquisita agli atti in appello dalla parte civile), va rammentato che il principio di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., comma 2, vieta di assumere appunto la "colpevolezza" a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell'accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali. (Cass. pen. sez. 1, 4878/1997 Rv. 208342).
Bene pertanto di tale circostanza è stato fatto uso per valutare la personalità dei rei nell'esercizio del potere discrezionale nella determinazione della pena.
Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonchè apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata nelle conformi decisioni dei giudici di merito.

giovedì 15 dicembre 2011

Tracce atto civile penale amministrativo esame avvocato 2011/2012 (15 dicembre 2011)

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ATTO GIUDIZIARIO DI DIRITTO PRIVATO
Tizia e sempronio citano in giudizio l'impresa Gamma esponendo di aver acquistato, con preliminare e successivo contratto definitivo, un appartamento destinato a civile abitazione e di aver versato alla parte venditrice la somma di euro 140.000 mentre il prezzo indicato nei suddetti atti era di 95.000. Chiedono, pertanto la restituzione della somma pagata in eccedenza oltre agli accessori di legge.
L'impresa edile Gamma sostiene, per contro, l'esistenza di un precedente preliminare di compravendita che recava il prezzo effettivo di euro 140.000 e che i contratti successivi erano stati simulati indicandosi il minor prezzo di euro 95.000 e ritiene inoltre di poter fornire prova testimoniale di tale simulazione.
Il candidato, assunte le vesti di avvocato dell'impresa edile Gamma rediga l'atto giudiziario più opportuno illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie

ATTO GIUDIZIARIO DI DIRITTO PENALE
Caio, dipendente del comune di Beta, viene sorpreso dal sindaco mentre, per mezzo del computer dell'ufficio naviga in internet visitando siti non istituzionali dai quali scarica, su archivi personali,immagini e filmati non attinenti alla pubblica funzione. viene denunciato e sottoposto a procedimento penale. il computer viene sottoposto a sequestro. nel corso delle indagini si accerta, grazie alla consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sul computer sequestrato, che la citata attività si è protatta per cira un anno, e che il numero dei file scaricati è di circa 10 mila. rinviato a giudizio caio viene condannato alla pena di 3 anni di reclusione per il reato di peculato. il candidato, assuneta la veste di difensore di Caio, analizzato il caso della fattispecie giuridica, evidenziando, tra l'altro, che le indagini difensive definitivamente svolte hanno dimostrato che l'ente gestore del servizio telefonico aveva stipulato con il comune di Beta un contratto con tariffa forfettaria denominato "tutto incluso".

ATTO GIUDIZIARIO DI DIRITTO AMMINISTRATIVO

L'università degli studi di alfa acquistava la totalità delle quote della società privata zeta, proprietaria dell'immobile zeta, per destinarlo a sede universitaria.
Modificato l'oggetto sociale di zeta, includendovi anche attività di progettazione (architettonica ed urbanistica) e costruzione, l'università deliberava di procedere alla scissione della società zeta in due distinti enti: la società gamma, destinata alla gestione del patrimonio immobiliare posseduto, e la società delta cui si attribuivano compiti di progettazione e costruzione, previa cessione del ramo di azienda. I locali ordini degli architetti e degli ingegneri impugnavano gli atti con i quali era stata deliberata ed approvata la scissione della società zeta, nonché quello con cui si attribuivano alla neo-costituita società delta i compiti di progettazione e costruzione, richiedendo, tra l'altro, la decisione del ricorso ai sensi dell'art 119 c.p.a. lamentando lo svolgimento di attività concorrenziale nei confronti dei professionisti da loro tutelati.
Il candidato, assunte le vesti di legale dell'università, rediga l'atto ritenuto più idoneo alla tutela degli interessi della propria assistita illustrando le problematiche e gli istituti sottesi alla fattispecie in esame, con particolare riguardo alle questioni relative alla giurisdizione e all'interesse ad agire.

Le problematiche sono risolte dall'adunanza plenaria 10/2011

mercoledì 14 dicembre 2011

Soluzione prima traccia parere penale esame avvocato 2011/2012

di Filippo Lombardi

La fattispecie indicata nella traccia deve innanzitutto essere analizzata dal punto di vista oggettivo, scindendo due momenti rilevanti, che rendono visibili due potenziali ipotesi di reato:
A) Il Sempronio utilizza una connessione internet dell’ufficio di appartenenza per mandare una e-mail per fini privati dal proprio ufficio.
B) Il Sempronio, peraltro attraverso il raggiro relativo al conferimento di un numero di procedimento non valido al fine di supportare il falso intento di perseguire reati, manda una e-mail istituzionale per ottenere un vantaggio economico per la propria consorte, titolare della scuola guida.

Considerando l’ipotesi sub A, ci si deve porre il problema dell’applicazione del reato di Peculato ex art. 314 c.p.. Se il maresciallo si trova sul luogo di lavoro e utilizza in maniera non conforme ai propri doveri la connessione internet, si può configurare il reato in questione poiché il soggetto ha per ragione del suo ufficio la disponibilità di cosa mobile (connessione internet – che è energia e quindi cosa mobile). A ben vedere l’ipotesi di cui alla lettera A potrebbe essere più complessa di quanto appare, poiché il concetto di appropriazione contenuto nell’art. 314 c.p. rileverebbe in questo caso più come distrazione, la quale è intesa come condotta diretta a utilizzare per uno specifico fine una cosa destinata ad un fine difforme. Attività, quella della distrazione, che è considerata in maniera contraddittoria dalla giurisprudenza. Alcuni riterrebbero infatti che la distrazione sia generalmente contenuta nel concetto di appropriazione ( e quindi darebbe vita al peculato), mentre altri ritengono che il principio sia valido solo in caso di distrazione al fine di profitto proprio (e.g. sent. Tribunale Vallo della Lucania 23 marzo 1995), e che in caso di distrazione al fine di profitto di terzi sia invocabile l’art. 323 c.p. sull’abuso d’ufficio. Pare evidente constatare che nel caso concreto il rapporto di coniugio causerebbe un profitto indirettamente allo stesso Sempronio, e direttamente alla moglie titolare della scuola guida con la conseguente possibilità di riportare il concetto di distrazione sotto l’alveo del peculato, poiché ci sarebbe comunque un fine di profitto proprio. Sul punto comunque le opinioni sono discordanti e parte della giurisprudenza esclude a priori la distrazione dal peculato e la inserisce nel suddetto art. 323 c.p..  Il problema è per alcuni risolto quando la distrazione si accompagna alla momentaneità dell’uso, poiché in questo caso ben potrebbe essere applicato il secondo comma dell’art. 314 (c.d. peculato d’uso).
Dal tenore letterale della fattispecie così riportata nella traccia, sorge dubbio sul compimento dell’attività sul luogo di lavoro. Nulla vieta di ritenere che il soggetto si sia potuto sì connettere con l’account e-mail dotato di dominio della p.a. di appartenenza, ma dalla propria abitazione o da altro luogo privato. Normalmente, infatti, gli account email istituzionali richiedono semplicemente un log-in attraverso un portale predefinito, che fa capo all’amministrazione di appartenenza, e non l’accesso obbligato da computer della p.a. (salvo utilizzo di rete interna ‘intranet’).  Se questa obiezione fosse vera, dovremmo scartare senza ombra di dubbio la persistenza della fattispecie di peculato, poiché mancherebbe l’oggetto materiale del reato, e concentrarci solo sulla ipotesi sub B.
Ma pur volendo considerare che il soggetto abbia compiuto il fatto sul luogo di lavoro, e dovendo perciò fare i conti con l’art. 314, dovremmo ritenere suscettibile di applicazione, come già chiarito, il comma secondo dell’articolo, che fa riferimento all’uso momentaneo della cosa. Certamente, infatti, il maresciallo ha fatto momentaneamente uso della cosa poiché la stessa è stata usata solo per la richiesta di invio degli elenchi e successivamente è stata ( come è lecito ritenere) utilizzata nuovamente per scopi facenti capo all’amministrazione e non più al maresciallo inteso come privato cittadino.

Passando all’analisi dell’ipotesi sub B, si deve chiarire che essa comporterebbe prima facie la considerazione dell’articolo 323 c.p., sull’abuso d’ufficio, in quanto ne sussistono gli elementi: il pubblico ufficiale, attraverso l’uso di un account e-mail utilizzabile solo nell’espletamento di compiti istituzionali ( e quindi nello svolgimento delle proprie funzioni) non si astiene dinanzi ad un interesse di un prossimo congiunto e tenta di procurare al proprio coniuge un vantaggio economico, vantaggio che, ove si fosse verificato, avrebbe al contempo causato un contestuale danno economico in capo alle altre autoscuole.
Viene quindi in considerazione l’articolo 323 c.p. non certo come reato consumato, bensì al mero livello di tentativo, poiché l’intervento del superiore e il comportamento del Sempronio, concretizzatosi nella confessione, hanno certamente bloccato l’evolversi della situazione ed evitato il verificarsi dell’evento consistente nel vantaggio per sé (o altri) o nel danno per altri. Il tentativo, d’altronde, è secondo lo scrivente pienamente realizzato, poiché in assenza di qualunque scopo istituzionale l’attività del Sempronio era diretta in maniera idonea e non equivoca al fine personale. L’idoneità è palese, poiché ottenendo i nominativi dei maggiorenni sarebbe stato possibile la comunicazione degli stessi alla propria moglie al fine di inviare pubblicità. La non equivocità è presente poiché si può secondo l’id quod plerumque accidit ritenere che a null’altro sarebbe stata indirizzata l’attività del de cuius se non all’agevolazione dell’autoscuola del proprio coniuge.

Dalle considerazioni appena espresse sorge però come questione rilevante il rapporto tra il peculato e l’abuso d’ufficio. Nella fattispecie de qua, i reati sembrano entrambi sussistere, poiché il vantaggio non è conseguito dal maresciallo attraverso l’appropriazione in sé ( se così fosse non ci sarebbero dubbi sulla sola applicabilità dell’ipotesi di peculato), bensì sarebbe stato conseguito attraverso un’operazione di pubblicità resa possibile dal comportamento (in buona fede) collaborativo del Comune.
A ben vedere però, la giurisprudenza ha assunto negli ultimi anni un comportamento molto garantista nei confronti dei dipendenti pubblici che usano la connessione internet della pubblica amministrazione, nei casi in cui il danno sia di lieve entità. La Cassazione infatti ha considerato l’uso della connessione flat dell’ufficio un uso che produce un danno impercettibile alla p.a. , che fa venir meno la stessa rilevanza punitiva del reato di peculato (si veda sentenza Corte Cass. 41709 del 25 novembre 2010).
L’atteggiamento della giurisprudenza risolve un grave dubbio riguardo all’applicazione di un eventuale concorso di reati ( che molto probabilmente si sarebbe evoluto verso un concorso apparente di norme o quanto meno di una continuazione ben potendo immaginare i due reati come l’uno necessariamente compiuto ai fini di compiere l’altro, dando vita eventualmente ad un assorbimento del meno grave nel più grave, proteggendo le due norme lo stesso bene giuridico, e qualificandosi l’abuso d’ufficio come una sorta di post-factum non punibile). Ma stante l’orientamento giurisprudenziale della S.C., di conseguenza risulterà applicabile solo l’articolo 323 c.p. in combinato disposto con l’art. 56 c.p. (tentato abuso d’ufficio).

Nel computo della pena sarà possibile considerare l’attenuante della particolare tenuità del fatto, ex art. 323 bis, avendo il comportamento del Sempronio solo scalfito il bene giuridico protetto dalla norma sull’abuso d’ufficio. E durante l’applicazione dell’art. 133 c.p. il giudice considererà certamente la collaborazione del maresciallo, il quale manifesta un ravvedimento, utile anche al fine dell’applicazione di eventuali pene sostitutive o della sospensione condizionale della pena.