martedì 31 gennaio 2012

Accesso abusivo a sistema informatico.

 di Giovanni Miccianza

La norma (art. 615 ter c.p.) punisce la condotta di chi abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico, purché sia protetto, ovvero la condotta di chi ha diritto di escluderlo.
Il legislatore ha assicurato la protezione del domicilio informatico quale spazio ideale di pertinenza della persona, ad esso estendendo la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene costituzionalmente protetto.
Tuttavia, l’art. 615 ter non si limita a tutelare solo i contenuti personali dei dati raccolti nei sistemi informatici protetti, ma offre una tutela più ampia che si concreta nello ius excludendi alios, quale che sia il contenuto dei dati racchiusi in esso.

lunedì 30 gennaio 2012

Violenza sessuale semplice e di gruppo. La problematica del concorso di persone nel reato.

di Filippo Lombardi

La fattispecie di violenza sessuale è disciplinata dall'articolo 609bis del codice penale e punisce la costrizione di un soggetto a subire o compiere atti sessuali ( sulla nozione di atto sessuale, si veda l'articolo "Sui reati contro la libertà sessuale dei minori. Il limite tra lecito e illecito"). La violenza sessuale di gruppo è invece prevista e punita dall'articolo 609octies in maniera lievemente più grave rispetto alla violenza sessuale semplice.

La norma sulla violenza sessuale di gruppo rappresenta un caso di concorso necessario di persone nel reato, in quanto per la punibilità è previsto che più persone riunite devono partecipare alla violenza sessuale di cui all'art. 609bis.

Salta subito all'occhio una problematica. 

mercoledì 25 gennaio 2012

Lettera al mio professore.

(lettera immaginaria sullo stato della Giustizia in Italia)*

di Alessandro Continiello

Caro Professore,
sono a scriverLe per darLe, come da Sua cortese richiesta, le ultime novità sulla mia carriera universitaria.
Ho finalmente, e ripeto finalmente dopo quindici anni da ricercatore, vinto il  concorso per professore associato di diritto processuale penale.
Tecnicamente potrei definirmi un Suo collega, e so che Lei vorrebbe questo, ma La prego anticipatamente di non crearmi ulteriore imbarazzo: non ritengo di essere e mai sarò alla Sua altezza e, peraltro, desidero rimanere un Suo semplice discepolo.
Spero Le siano giunti i miei ultimi pensieri sullo stato della Giustizia nel nostro amato Paese: anelo un Suo giudizio prima di inviarli alla redazione del giornale per la stampa finale.
Come sa bene sono molto critico sulle ultime riforme, giacché non hanno assolutamente inciso sulla macchina giudiziaria che, allo stato, appare più un vecchio carrozzone.

lunedì 16 gennaio 2012

Sui reati contro la libertà sessuale dei minori. Il limite tra lecito ed illecito.

 di Filippo Lombardi

INTRODUZIONE
I reati di tipo sessuale o concernenti la libertà sessuale e commessi nei confronti di minorenni sono disciplinati dagli articoli 600-bis e successivi. La lettura e la schematizzazione degli stessi risulta alquanto complessa. Le fattispecie normative sono ingarbugliate, presentano continui richiami a norme precedenti o successive, e risulta ardua una loro schematizzazione in base all’età del soggetto passivo. E’ quindi obiettivo dello scrivente quello di “riordinare” le norme, a seconda dell’età e del consenso del soggetto passivo all’atto, nonché a seconda della condotta e dell’età del soggetto attivo. 

sabato 14 gennaio 2012

L’abbandono temporaneo di un minore integra gli estremi della fattispecie delittuosa di cui all’art. 591 c.p.?

di Giovanni Miccianza

La norma di cui all’art. 591 c.p. rubricata “Abbandono di persone minori o incapaci” punisce chiunque abbandoni un minore di quattordici anni ovvero una persona incapace, per qualsivoglia causa, di provvedere a se stessa e della quale abbia la custodia o debba avere cura, ovvero, ancora, chiunque abbandoni all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato per ragioni di lavoro.
Il reato in questione si differenzia da quello disciplinato dall’art. 570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare), poiché il bene tutelato non è il rispetto dell’obbligo legale di assistenza in quanto tale, bensì il pericolo per l’incolumità fisica, derivante dal suo inadempimento.

giovedì 12 gennaio 2012

Riflessioni su un caso al vaglio del Tribunale di Santa Maria C.V..

di Filippo Lombardi

IL CASO: Il soggetto agente, dopo svariati atti estorsivi nei confronti della vittima nelle giornate precedenti, lo fa salire in macchina contro la sua volontà e, dopo un viaggio di pochi minuti, lo conduce dinanzi alla sua abitazione (della vittima), intimandogli con l’uso di un’arma bianca di recarsi all’interno e rubare in casa propria, per consegnare poi la refurtiva all’agente. Mentre il soggetto passivo è all’interno e sta cercando i beni da dare all’agente, quest’ultimo si allontana dal posto, per poi incontrare successivamente il primo al fine di richiedergli il pagamento.
LE NORME “LETTERALMENTE” APPLICABILI: Estorsione (art. 629 c.p.); costringimento a compiere un reato, cioè il furto in abitazione, tramite minaccia (combinato disposto tra gli artt. 54 e 624 bis c.p.), rapina (art. 628 c.p.). Meno problematica la figura del sequestro di persona, la quale potrà trovarsi a concorrere con taluna delle suddette norme, a seconda di se venga riconosciuto il tempo giuridicamente apprezzabile di privazione della libertà personale. 

mercoledì 11 gennaio 2012

L’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina

di Giovanni Miccianza


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La fattispecie delittuosa da prendere in considerazione è quella prevista e disciplinata nell’art. 571 c.p..
Tale disposizione è volta a reprimere la condotta di tutti coloro che, in forza della loro autorità, abusano dei mezzi di correzione e di disciplina nei confronti della persona loro sottoposta o a loro affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte, se dal fatto deriva un pericolo al corpo o alla mente.
Il bene giuridico tutelato è l’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia e di tutte le altre istituzioni interessate nei rapporti di disciplina.

mercoledì 4 gennaio 2012

Associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti

di Giovanni Miccianza

L’art. 73 d.p.r. 309/90 è la norma cardine su cui si impernia tutta la disciplina sanzionatoria in materia di sostanze stupefacenti. Nella formulazione attuale, la norma ha unificato il trattamento sanzionatorio delle condotte aventi ad oggetto le droghe pesanti e leggere, ma ha differenziato le condotte a seconda se siano o meno suscettibili di essere scriminate dalla destinazione all’uso esclusivamente personale. In particolare nel comma 1 sono previste condotte di produzione, preparazione e traffico, che sono comunque illecite a prescindere dalla finalità che le ha animate; al comma 1bis sono invece delineate condotte prodromiche all’uso personale, che sono comunque punibili penalmente soltanto laddove le sostanze che ne sono oggetto appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale ovvero, qualora si tratti di medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope quando questi eccedano il quantitativo prescritto dalla legge. Per le condotte di cui al comma 1 e 1bis sono comminate la pena detentiva da 6 a 20 anni di reclusione e la pena pecuniaria da 26.000 a 260.000 euro di multa.
Nei commi 2, 2bis e 3 sono previsti alcuni reati propri, che possono essere commessi dai soggetti muniti di autorizzazione, i quali cedano illecitamente, mettano o procurino che altri mettano in commercio le sostanze e i medicinali (comma 2); producano o commercializzino le sostanze chimiche di base ed i precursori, utilizzabili per la produzione illecita di sostanze stupefacenti (comma 2bis); coltivino, producano o fabbrichino sostanze stupefacenti e psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione (comma 3). Tutte le fattispecie contemplate sono punite con la pena detentiva da 6 a 22 anni di reclusione e la pena pecuniaria da 26.000 a 300.000 euro di multa.
Nel comma 4 dell’art. 73 vengono sanzionate penalmente le attività di produzione e traffico già previste dal comma 1 aventi ad oggetto i medicinali: le pene sono però ridotte rispetto a quelle del 1 comma da un terzo alla metà.

martedì 3 gennaio 2012

Sulla moralità familiare. Il pubblico scandalo nel reato di incesto.

di Filippo Lombardi

L’articolo 564 del codice penale punisce il reato di incesto, cioè in primo luogo gli atti sessuali compiuti con i soggetti indicati dal comma primo. Alcuni fanno rientrare tra i comportamenti punibili anche i meri atti di libidine.
La questione più rilevante è però l’inciso in modo che ne derivi pubblico scandalo, poiché esso ha causato forti problemi interpretativi, soprattutto dal punto di vista del significato strutturale dello stesso.
Per trattare la questione, bisogna argomentare partendo dalla definizione del bene giuridico tutelato dalla norma. Originariamente il reato proteggeva non la morale familiare, bensì la purezza della linea di sangue, considerato che l’esperienza narra di molti casi di bambini nati da relazioni incestuose, malati o con disfunzioni di vario tipo, derivanti dalla consanguineità dei genitori.
Successivamente il bene giuridico, anche al fine di scongiurare la formazione di idee di fondo idonee a riportare alla luce fantasmi del passato, fu reputato essere quello della morale familiare, inteso come normale svolgimento delle relazioni familiari secondo comportamenti comunemente accettati, poiché eticamente corretti.
A ben vedere, la prima domanda che dobbiamo porci è: a chi appartiene il bene giuridico tutelato? Al nucleo familiare o all’insieme di tutti i consociati “organizzati” in famiglie? Mi verrebbe da dire che per punire comportamenti che avvengano nell’ambito di ciascuna famiglia singolarmente intesa, sia necessario considerare la moralità familiare come un bene giuridico che afferisce ad ogni famiglia, e che discende da regole etiche generalmente sentite. Ergo, non si tratta di un bene prettamente collettivo, ma di un bene che dalla collettività discende all’interno di ogni famiglia, inteso come gruppo unico, specifico, e distaccato dalla collettività, sebbene in essa contenuto.
Se non si tratta di un bene prettamente collettivo, perché la punibilità è subordinata al verificarsi un fatto (pubblico scandalo) che invece è solo un fatto collettivo? Siamo sicuri che il Legislatore stia tutelando nei modi corretti la moralità familiare come bene facente capo alla famiglia concretamente individuata? Sembra di no. Perché, considerata la presenza dell’inciso del pubblico scandalo (di cui successivamente, de iure condendo, cercherò di analizzare il significato tecnico) sembra che una cosa come l’incesto, a mio avviso da considerare immorale nella famiglia a priori, sia considerato reato (e quindi immorale, se il bene giuridico è appunto quello della moralità familiare) solo se ad esso consegue uno scalpore misto a disgusto generalizzato, che crea turbamento nell’entourage sociale.  
Allora o si dice che il bene giuridico non è la moralità familiare bensì (mi si faccia passare il termine) la “lunaticità” dell’entourage sociale in tema di fatti immorali accaduti nel nucleo familiare, o si elimina l’inciso. Sintetizzando, per giustificare la prospettiva di eliminazione del concetto di pubblico scandalo, l’argomento offerto è il seguente:
Il mantenimento del pubblico scandalo all’interno della fattispecie normativa, fa sì che la tutela penale non avvenga nell’ambito del bene giuridico della moralità familiare, ma nell’ambito di una idea di moralità che fa capo alla società circostante, col pericolo di affidare il bene giuridico al caso, alle circostanze, o all’umore della comunità, e non ad una realtà oggettivamente e immediatamente individuata dal Legislatore. O comunque, fa sì che la tutela penale non avvenga nell’ambito del bene giuridico di moralità familiare nel suo significato completo, cioè di moralità che afferisce nel contempo alla società costruita su un’etica storicizzata e alla famiglia come risultato unico e irripetibile di quell’etica.
A rendere più difficoltoso il tutto, vi è la complessità dell’accertamento del pubblico scandalo, che non sempre risulta evidente, e potrebbe lasciare spazio a casi di impunità superabili solo con la presunzione dello scandalo stesso. In questo caso interverrebbe un duplice errore: quello relativo al fraintendimento o allo snaturamento della moralità familiare, e quello che prenderebbe corpo nella creazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
Dal momento che il nostro Legislatore non ha per niente preso in considerazione di eliminare l’inciso, e continua a considerare atipicamente il concetto di moralità familiare, bisogna comprendere quale sia il ruolo rivestito dal pubblico scandalo. La dottrina si divide, abbracciando due tesi:
1) Condizione obbiettiva di punibilità. In questo caso, essendo la condizione esterna all’aggressione al bene giuridico della moralità (perché l’incesto è immorale in sé, e non perché la comunità si sveglia un bel giorno e lo reputa tale) l’elemento soggettivo può non toccare la condizione stessa, quindi questa può operare obbiettivamente, alla luce di quanto evidenziato dalla Consulta nella nota sentenza 364/1988 ( gli elementi che contribuiscono a generare o aggravare l’offesa al bene giuridico devono essere coperti almeno dalla colpa, per rispettare l’art. 27 Cost.)
2) Elemento costitutivo del reato, e più precisamente evento. Questa parte della dottrina permette, considerando il pubblico scandalo come evento del reato, di coprire l’elemento del pubblico scandalo con il dolo. La tesi evita quindi la responsabilità oggettiva.
E’ mia intenzione sottolineare come, secondo il mio modesto parere, l’inciso normativo riguardante il pubblico scandalo debba essere eliminato per far sì che il bene giuridico della moralità familiare diventi genuino e totalmente tutelato, anche come bene appartenente al contesto familiare specificamente considerato. Se non si vuole l’eliminazione di questo ambiguo e difficilmente accertabile elemento, si dovrebbe considerare valida la seconda tesi dottrinaria, non solo per superare lo scoglio della responsabilità oggettiva, ma soprattutto perché solo considerando il pubblico scandalo come coperto dal dolo si può giungere a punire il comportamento del soggetto reo, che a quel punto offenderebbe il bene giuridico della moralità così come concepita dal Legislatore, cioè come bene afferente alla società e al pensiero che la stessa ha del concetto di morale. Altra possibilità, de iure condendo, per tutelare opportunamente il bene della moralità familiare, è quello di utilizzare il pubblico scandalo al massimo come un’aggravante di un fatto che ha già di per sé offeso la moralità intesa come bene afferente al nucleo familiare.