sabato 16 marzo 2013

La Cassazione sul reato di maltrattamenti in famiglia.


CORTE DI CASSAZIONE – Sez. VI – 4 dicembre 2012, n. 46848 – Pres. Agrò – Est. Aprile.
Maltrattamenti in famiglia – Abitualità – Morte – Aggravante – Causalità – Interruzione – Concorso di reati.
La circostanza aggravante di cui all’art. 572 co. 3 cod. pen. opera quando l’evento ulteriore non voluto (nel caso specifico: morte della vittima) sia legato al delitto base dal nesso eziologico, a nulla valendo che i maltrattamenti non siano l’unica causa del decesso, stante il principio dell’equivalenza delle condizioni, ex art. 41 c.p.; altresì, il giudice dovrà accuratamente valutare che il fatto produttivo dell’evento più grave sia effettivamente riportabile nel sistema vessatorio che compone il reato abituale, dovendosi, al contrario, ammettere un’assenza di nesso causale tra quest’ultimo e l’ulteriore evento non voluto, con conseguente sussistenza di due distinte condotte illecite e, dunque, di un concorso materiale di reati.

Commento del dott. Filippo Lombardi.

1. Cenni sul delitto di maltrattamenti in famiglia.
L’articolo 572 del codice penale sanziona il delitto di maltrattamenti in famiglia, inserito tra i delitti contro l’assistenza familiare[1]. Compie questo reato colui il quale maltratta propri familiari, conviventi, o persone che ricadono sotto la propria tutela, la propria cura, custodia o sorveglianza,  ai fini educativi o professionali. 
Si nota, dunque, che l’ambito operativo della norma afferisce ad un concetto allargato di famiglia, poiché si ha riguardo non solo alla famiglia legittima e ad altri fenomeni di convivenza non suffragati dal negozio matrimoniale, ma anche a gruppi di persone che, per i motivi indicati dal testo della norma, si ritrovano a svolgere assieme attività o ad avere rapporti segnati da un carattere di continuità, contestualità e unità, e fondati sulla reciproca assistenza. La convivenza, d’altra parte, non è ritenuta imprescindibile dalla
giurisprudenza, potendosi perfezionare il reato in parola anche nel caso di coniugi separati e non più coabitanti[2], nonché nei casi in cui tra l’agente e la vittima sia intercorsa una relazione sentimentale “che abbia comportato un’assidua frequentazione” in ambito domestico[3]
In questa sede si prenderà in considerazione la famiglia come gruppo segnato da legami affettivi (a prescindere dall’esistenza di un matrimonio) e composto da una coppia con figli.
Fornite queste premesse, può porsi l’attenzione sulla natura del reato, sull’elemento oggettivo e su quello soggettivo che caratterizzano il fatto tipico.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è, a dispetto dell’incipit “Chiunque…”, un reato proprio, poiché può essere commesso solo da particolari soggetti, dotati di status o coinvolti in situazioni fattuali richiamate, implicitamente o esplicitamente, dalla norma[4]. E’, poi, un reato che può essere compiuto in forma commissiva od omissiva. La forma omissiva concretizza il reato, a mente delle regole generali del diritto penale italiano, qualora vi siano obblighi di attivarsi, che rimangono disattesi dal soggetto (non) agente. A ben vedere, tali obblighi sono già prima facie richiamati dalle parole della norma, laddove si fa ad esempio riferimento a soggetti affidati in cura o custodia, attività che si palesano ab initio come comportanti obblighi positivi. Negli altri casi, rileveranno le specifiche norme poste dall’ordinamento a garanzia dei soggetti sottoposti all’altrui autorità: nei contesti famigliari, le norme a tutela dei coniugi e dei figli; nei contesti lavorativi, le norme sui rapporti di lavoro (art. 2087 c.c. in primis).
Il reato de quo è, altresì, a forma libera, in quanto è sufficiente che la condotta del reo realizzi un maltrattamento. Tale risultato può scaturire da qualsiasi metodo adatto allo scopo. Fondamentale è stato, in tal senso, l’intervento della giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito che il maltrattamento consiste in comportamenti vessatori che minano l’armonia e l’equilibrio di un collettivo, in quanto generano situazioni di denigrazione e/o alienazione di uno o più soggetti appartenenti ad esso, con contestuale lesione del benessere psico-fisico delle vittime[5].
Avendo riguardo al contesto famigliare e alla situazione concreta in cui vittima sia un bambino, la giurisprudenza ha aggiunto che il maltrattamento può avvenire anche attraverso comportamenti iperprotettivi[6], essendo sufficiente che tali comportamenti, comportando privazioni anomale e ingiustificate, raggiungano gli effetti lesivi pocanzi citati, con eventuali riverberi negativi sul piano della relazionalità che il minore sarà capace di sviluppare in seguito coi propri coetanei.
Non è necessario che la condotta sia violenta dal punto di vista fisico, potendo anche atteggiarsi, come prima chiarito, in forma omissiva, e cioè come mera trascuratezza e noncuranza per gli interessi altrui; è possibile, altresì, che la condotta, seppure attiva, si traduca in atteggiamenti commissivi di estrema severità, non degeneranti in violenza fisica ma capaci di generare sofferenze e privazioni, e dunque di interferire con la psiche della vittima piuttosto che con la sua corporeità. Tali forme comportamentali possono raggiungere, per un infante, esiti addirittura più devastanti rispetto alla interazione materiale, se solo pensiamo all’importanza che riveste per un minore la circolazione di manifestazioni affettive nella famiglia in cui lo stesso vive.
La particolarità del delitto in parola è certamente l’abitualità: si tratta di un reato abituale improprio. Di talché, esso si perfezionerà attraverso la reiterazione dei maltrattamenti, non essendo sufficiente un singolo episodio vessatorio. L’abitualità impropria, poi, sta a significare che, fino a quando non sia integrato il sistema di vessazioni idoneo a far scattare la fattispecie criminosa, il singolo episodio vessatorio potrà sia perfezionare un reato alternativo (es. lesioni) sia risultare impunibile (es. un singolo episodio in cui il padre manifesti una semplice noncuranza nei confronti del proprio figlio non pare di immediata punibilità).
Va da sé che, ai fini ricostruttivi dell’elemento soggettivo, non potrà non notarsi come il dolo richiesto dalla norma vada plasmato proprio sulla natura abituale del reato di cui si discute. Il soggetto agente dovrà, in altri termini, essere cosciente del fatto che i propri comportamenti siano vessatori e lesivi dell’integrità psico-fisica altrui, volere la lesione del bene giuridico tutelato, ed essere consapevole che ogni episodio discriminatorio, o altrimenti offensivo, va ad aggiungersi a quello precedente in un sistema unico: una sedimentazione di attività lesive che compone una piramide al cui vertice vi è la concreta offesa al benessere psico-fisico del soggetto passivo, alla sua capacità di autodeterminazione e al suo diritto di vedersi riconosciuto come membro meritevole di attenzioni in un contesto famigliare[7].
Dalla natura di reato abituale, derivano, secondo le regole generali, alcuni corollari: 1) perfezionandosi il reato abituale, ogni singolo episodio che lo compone confluirà in esso, dovendo essere punito come fatto costitutivo del reato di maltrattamenti, e non essendo dunque possibile una ulteriore - dunque doppia - punibilità come fatto a sé stante (in omaggio al principio del ne bis in idem sostanziale); 2) non esiste il tentativo di maltrattamenti in famiglia, in quanto, prima del perfezionamento del sistema vessatorio, i fatti potranno essere puniti solo se costituenti autonomi titoli di reato diversi da quello indicato dall’art. 572 c.p., e, una volta concretizzata la reiterazione richiesta dalla norma, il reato di maltrattamenti è già integrato. Non si passa mai per quella fase di transizione necessaria a dar vita al tentativo: o il fatto è tipico o non lo è, non atteggiandosi mai come fatto “quasi” tipico, carattere che riporta la mente dell’interprete all’istituto del tentativo di cui all’art. 56 del codice penale[8]; 3) qualora non si ricada ancora, per l’insufficienza delle condotte, nel reato di maltrattamenti, ma si sia comunque verificato più di un episodio significativo autonomamente punibile, si potranno applicare le norme generali in tema di concorso materiale, se del caso riconoscendo la continuazione ex art. 81 comma 2 c.p.

2. L’aggravante di cui all’articolo 572 comma 3 del codice penale.
Subito dopo il comma 2 dell’articolo 572 cit., che prevede l’aumento della pena (fino ad un terzo) nel caso in cui soggetto passivo sia un infraquattordicenne[9], il Legislatore prevede una ulteriore aggravante quando dal reato base scaturisca una lesione – grave o gravissima – o la morte della vittima.
Non può tacersi una lapidaria considerazione circa la natura dell’aggravante. Non si dubita del fatto che si tratti della tipica ipotesi normativa di reato aggravato dall’evento. Vale a dire che gli eventi più gravi richiamati, puniti normalmente agli articoli 575 c.p. e ss, vengono utilizzati dal Legislatore come circostanza aggravante (speciale) quando derivino dal reato di maltrattamenti in famiglia.
L’evento morte o lesione deve essere non voluto, in quanto, se al contrario dovesse rinvenirsi il dolo, l’agente dovrebbe essere punito attraverso il ricorso alle norme ad hoc previste in tema di lesioni ed omicidio.
Dando solo atto in questa sede delle problematiche connesse alla ricostruzione dogmatica del reato aggravato dall’evento – in termini di delitto preterintenzionale o di reato circostanziato – si vuole spostare l’attenzione del lettore proprio sul concetto di “derivazione”, e dunque di legame causa-effetto, relativa al binomio reato base – evento più grave non voluto.
Su questa tematica è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza in epigrafe oggetto di commento. Gli Ermellini, pur consentendo di rinvenire un principio unitario nella pronuncia de qua, si muovono in realtà su più impalcature argomentative, tanto da richiamare ed unire con assoluta maestria più istituti e questioni connessi col reato di maltrattamenti, di cui si è cercato di approfondire alcuni principali aspetti al paragrafo precedente: la natura di reato abituale, il contenuto della condotta illecita, l’evento aggravatore, il nesso di causalità tra reato base e circostanza aggravante.
La Suprema Corte sottolinea la necessità che l’evento aggravatore (nel caso specifico: morte) sia legato da un nesso eziologico al reato di maltrattamenti, secondo il normale criterio della teoria condizionalistica sussunta sotto leggi scientifiche, ma approfondisce una questione di ampio rilievo. Rimarca, infatti, come la fonte diretta dell’evento più grave debba appartenere al sistema vessatorio che dà linfa al reato di maltrattamenti inteso come reato abituale: il fattore produttivo dell’evento deve cioè essere un tassello della rete di vessazioni ed offese che il soggetto agente ha voluto comporre con molteplici comportamenti. Se tale requisito non è integrato, vi sarà una cesura tra i maltrattamenti e l’evento, e questo genererà esclusivamente la possibilità di rinvenire due condotte criminose divergenti, autonomamente punibili: maltrattamenti in famiglia e omicidio colposo (o preterintenzionale, a seconda dei casi). L’evento non sarà causalmente ricondotto al reato base, in quanto rinvenente la propria scaturigine in una causa da sola sufficiente a produrlo (art. 41, comma 2, c.p.).
I giudici aggiungono, nel percorso argomentativo, che, stante il principio condensato all’articolo 41 comma 1 cod. pen., relativo all’equivalenza dei fattori causali, non sarà idoneo ad eliminare la responsabilità dell’agente il fatto che l’evento sia stato provocato da ulteriori concause oltre alle condotte consistite nei maltrattamenti (quale ad esempio una malattia pregressa della vittima), né precedenti, né simultanee, né successive, a meno che non si traducano nella succitata cesura, idonea a frammentare la condotta apparentemente unitaria in due tronconi penalmente rilevanti.
I principi appena espressi devono essere calati nella realtà fattuale con la quale si confronta la Corte: due giovani genitori si rendevano responsabili di maltrattamenti ai danni del proprio figlio, al quale cagionavano ripetutamente percosse e lesioni, fino a che uno dei due uccideva il piccolo involontariamente con un calcio, durante un ennesimo caso di violenza domestica. La Corte, dinanzi al tentativo di difesa dei due imputati fondato sull’assenza di legame tra il caso specifico e le pregresse condotte vessatorie e su un accadimento fortuito (si rivendicava nello specifico, che il calcio era destinato al partner e non all’infante), rinviene al contrario che l’evento morte non costituisse un fatto eccezionale ed imprevedibile rispetto all’abituale condotta di maltrattamenti, ma il suo naturale sviluppo, parimenti ad altri ed alternativi eventi che avrebbero potuto condurre alla morte scaturendo dalle condotte violente reiterate, quali un’infezione o una malattia improvvisa (nella casistica, la morte potrebbe derivare anche dal suicidio del soggetto passivo dopo le continue sopraffazioni).
Pur non focalizzando la pronuncia sull’elemento soggettivo che deve innestarsi sull’evento più grave, è chiaro che rispetto ad esso dovrà farsi riferimento ai normali canoni elaborati dalla giurisprudenza costituzionale attraverso le fasi storiche di eliminazione della responsabilità oggettiva dall’ordinamento penale, canoni ripresi e confermati dalla giurisprudenza di legittimità. Con maggiore rigore esplicativo, si richiede che il soggetto agente non debba volere l’evento più grave ma, al contempo debba trovarsi in una situazione di (almeno pseudo-) colpa, vale a dire che l’evento non voluto deve essere prevedibile dal soggetto che già versa in re illicita col ricorso ad un minimum aggiuntivo di diligenza[10].



[1]  Per un approfondimento circa le criticità della scelta di sistemazione del reato adottata dal Legislatore, si veda Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona.”, Ed. III, Bologna, 2011, pag. 377.
[2]  Delpino, “Diritto penale. Parte Speciale”, Ed. XVIII, pagg. 434 e ss.
[3]  Cass. pen., sez. V, 30 giugno 2010, n. 24688.
[4] Fiandaca - Musco, “Diritto Penale. Parte Speciale. I Delitti contro la persona”, Ed. III, Bologna, 2011, pag. 378. 
[5]  Si veda, ex plurimis, Cass. pen., sez. I, 24 settembre 1996, n. 8618 e Cass. pen., sez. VI, 19 febbraio 2004, n. 7192.
[6]  Cass. pen., sez. VI, n. 36503/2011.
[7] Il tema del reato abituale, con particolare riferimento al reato di maltrattamenti in famiglia, è trattato, funditus, da Caringella – Della Valle – De Palma, “Manuale di diritto penale. Parte generale”, Ed. II, Dike Giuridica Editore, pagg. 1259-1262.
[8]  Contra, Caringella-Della Valle-De Palma, op. ult. cit., pag. 1233.  Secondo gli Autori, è configurabile il tentativo nei reati abituali quando il soggetto agente abbia posto in essere atti idonei diretti in maniera non equivoca a dare origine a quel sistema vessatorio che integra la serie minima richiesta per il reato abituale.
[9]  Comma inserito dalla legge 172 del 1° ottobre 2012.
[10]  La dottrina, infatti, è divisa a riguardo tra chi ammette che il soggetto che versa in re illicita possa essere in colpa rispetto ad un evento ulteriore non voluto, e chi, al contrario, nega la configurabilità di tale elemento soggettivo. Questi ultimi Autori fondano la propria valutazione sull’analisi della struttura della colpa in senso tecnico, che si compone di un elemento normativo (violazione di norma precauzionale) ed uno psicologico (previsione/prevedibilità dell’evento non legato a volontà di produrlo). Nel caso di chi versa in re illicita, sussisterebbe solo l’elemento psicologico, mentre, qualora si volesse individuare la violazione del parametro normativo, dovrebbe utilizzarsi come norma precauzionale la norma che vieta il fatto base. Tale affermazione comporterebbe il paradosso per cui la norma che vieta il reato base stia al contempo vietandolo e suggerendo di compierlo in maniera adeguata evitando di sfociare in eventi ulteriori più gravi (Fiandaca). Altri, invece, ritengono che la tesi predetta si fondi su un equivoco di fondo: aver rintracciato la norma precauzionale in una norma di legge (appunto, la legge penale), quando al contrario deve farsi riferimento ad una norma cautelare proveniente dal tessuto sociale, cioè la diligenza in senso ampio, di cui l’ordinamento può esigere il rispetto anche da parte di chi si trova già in un alveo di illiceità (Fiore).  

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