lunedì 28 gennaio 2013

Diventare avvocato in Romania.

Ragazzi, il quotidiano Repubblica ha pubblicato un interessante articolo sulle modalità per sostenere l'esame in Romania, leggetelo con attenzione per evitare fregature e truffe
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/06/26/news/avvocati_in_romania_principale-61905733/

Oggi ho avuto il piacere di dialogare con una collega abilitata in Romania per questioni lavorative. 
Tra le varie notizie che mi ha fornito sullo stato della giustizia in quel paese (in cui le cause hanno una durata media nettamente inferiore all'Italia) mi ha anche spiegato, su mia esplicita richiesta, le modalità per conseguire il titolo di avvocato in Romania.
La mia richiesta è nata dal desiderio di fare chiarezza, ed evitare fregature, su un percorso seguito da molti followers del blog che hanno scelto la c.d. "via rumena" per essere iscritti negli ordini italiani come "avvocati stabiliti", in virtù del D. l.vo 2 febbraio 2001,n.96.
La collega mi ha elencato i due principali requisiti:

1) stage presso un avvocato (equivalente alla nostra pratica forense);
2) esame di abilitazione da effettuarsi in un capoluogo di regione (la legge prevede espressamente che l'esame venga fatto in Romania)

Di conseguenza un italiano che volesse sostenere l'esame in Romania ai sensi della Direttiva 98/5/CE dovrebbe essere in possesso dei seguenti requisiti:

- Laurea italiana in Giurisprudenza.
- Certificato di pratica forense legale in Italia.

- Richiesta al Ministero dell’Educazione e della Ricerca e dello Sport di Bucarest per ottenere l’autorizzazione dell’equipollenza della laurea Italiana nella corrispondente laurea rumena.


Una volta in possesso  di detti requisiti il praticante potrà sostenere l’ esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato definitivo in Romania.


A questo punto non dovrà fare altro che chiedere l'iscrizione ad un ordine italiano ed attenersi alle regole stabilite dal CNF che si riportano di seguito:

"La direttiva sul diritto di stabilimento (Direttiva 98/5/CE recepita in Italia con il D. Lgs. 2 febbraio 2001 n. 96) consente agli avvocati “comunitari” la possibilità di svolgere stabilmente l’attività forense in ogni Stato europeo con il proprio titolo professionale di origine.
L’avvocato che abbia esercitato in maniera effettiva e regolare la professione in Italia per tre anni può chiedere al proprio Consiglio dell’Ordine la dispensa della prova attitudinale e, se dispensato, può iscriversi nell'albo degli avvocati e esercitare la professione con il titolo di avvocato.
Durante il periodo dei tre anni l’avvocato rientrerà nella categoria dei c.d. avvocati stabiliti, e dunque:
 viene iscritto in’apposita sezione dell’albo;
nello svolgere attività giudiziale deve agire di intesa con un professionista dello Stato ospitante abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato, non sussistendo invece alcuna limitazione rispetto all’attività stragiudiziale;
per poter esercitare innanzi alla Corte di Cassazione ed alle altre giurisdizioni superiori, oltre a dover agire d’intesa con un professionista dello Stato ospitante, deve dimostrare di aver esercitato la professione nella Comunità europea per almeno 12 anni, compresi quelli eventualmente già esercitati come avvocato stabilito;
deve rispettare le norme legislative, professionali e deontologiche dettate dall’ordinamento italiano;
non può avvalersi del titolo di avvocato italiano;
deve sottostare al potere disciplinare del competente Consiglio dell’Ordine.
Trascorsi regolarmente i tre anni l’avvocato, se dispensato dalla prova attitudinale, diventa integrato ossia in tutto equiparato al professionista del Paese ospitante."

Vi invito, qualora vi fornissero informazioni diverse da quelle che vi ho dato, a chiedere adeguate spiegazioni e motivazioni in merito, ed eventualmente a segnalarle in commento al presente post per integrarlo e completarlo.

A presto




sabato 26 gennaio 2013

Diritto ad educare: brevi riflessioni in tema di evoluzione e contenuto.


di Filippo Lombardi 

Quante volte voi genitori avete rimproverato vostro figlio dopo un suo comportamento poco consono nei confronti dei nonni? Quante volte avete pronunciato nei suoi confronti la frase "Ora devi chiedere scusa"? ... Magari portandolo dinanzi al nonno offeso, per spronare il ragazzino a farsi perdonare da quest'ultimo? Penso che, per un genitore, un evento del genere è quasi all'ordine del giorno, specialmente quando il proprio figlio frequenta i nonni in maniera assidua. La Cassazione, però, avverte: si tratta di comportamenti al limite dell’intollerabile, perché potrebbero superare i limiti dello ius corrigendi e, nel caso concreto, dare origine al delitto di violenza privata, per il quale un padre è stato recentemente condannato dalla Suprema Corte. Il padre aveva infatti portato con la forza la propria figlia al cospetto del nonno, imponendole di chiedere scusa a quest’ultimo. [1]

Ma cos'è lo ius corrigendi e in cosa si sostanzia? Esso è il diritto di educare, e fino a poco tempo fa questo diritto, spettante al genitore, era in grado di fornire a quest'ultimo i mezzi, anche violenti, per "correggere" i comportamenti ancora sviati del proprio figlio. Si diceva, cioè, che il genitore poteva utilizzare modi anche coercitivi al fine di disciplinare la prole, risultando tali metodi approvati dall’ordinamento anche se costituenti reato in senso astratto.

venerdì 25 gennaio 2013

Responsabilità del medico a seguito della Legge 189/2012 art. 3

di Filippo Lombardi

Art. 3, L. 189 del 2012: “L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.

PREMESSA. IL REATO COLPOSO IN GENERE E LA COLPA MEDICA
L’interpretazione della norma ha destato difficoltà, tanto da portare taluno ad utilizzare la locuzione “in culpa sine culpa”. Partiamo dal principio, valutando come la nozione di colpa si innesta sull’attività sanitaria. Il reato colposo si fonda sull' attribuibilità di un evento lesivo sanzionato dall'ordinamento al soggetto agente poiché concorrono vari elementi. Come la Corte Costituzionale insegna, l'articolo 27 Cost. va letto nel senso che la responsabilità penale deve essere personale, vale a dire propria e colpevole. La responsabilità penale è propria quando sussistono la suitas rispetto alla condotta e il nesso causale tra condotta ed evento; è colpevole quando, sussistendo almeno l'elemento soggettivo della colpa, il soggetto agente è in concreto rimproverabile per non essersi discostato dalla condotta tenuta, potendo intraprendere una strada alternativa lecita. L'elemento soggettivo della colpa è poi scomponibile in due sub-elementi: uno di tipo psicologico e uno di tipo normativo. Quello di tipo psicologico consta della previsione/prevedibilità dell'evento e della sua consequenziale evitabilità, congiuntamente all'assenza di volontà di cagionarlo, mentre quello di tipo normativo consta della violazione di una regola precauzionale, positivizzata o di provenienza sociale, funzionale a scongiurare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Nel caso di diligenza positivizzata in una norma di legge, regolamento, ordine o disciplina, il mero distaccarsi dalla condotta prescritta, dà origine alla presenza dell'elemento soggettivo qualora si tratti di norma rigida; qualora la norma sia "elastica", essa va ancorata al caso di specie, nel senso che il contenuto della norma è indicativo, e va plasmato in base alle circostanze concrete (es. la distanza di sicurezza nella circolazione dei veicoli). E' anche possibile che la responsabilità penale non venga meno pur avendo il soggetto agente rispettato la norma scritta cautelare, potendosi richiedere allo stesso di distaccarsi dal suo contenuto in base ad una norma di diligenza generica, qualora il suo utilizzo possa servire ad evitare l'evento. La diligenza generica da richiedere all'agente è quella dell'homo eiusdem condicionis et professionis, cioè un soggetto della medesima cerchia sociale o professionale, tenuto conto però delle carenze psicofisiche che l'agente concreto presentava al momento dell'illecito, e del contesto in cui si trovava ad agire. Riguardo l'assenza di volontà, mentre essa è meglio dimostrabile in caso di colpa incosciente, risulta più complesso il suo accertamento nel caso di colpa con previsione, poiché questo tipo di colpa si trova sul confine con il dolo eventuale e il discrimine è attualmente rinvenuto in una teoria mista: si tratta di dolo eventuale quando il soggetto agente ha tenuto la condotta rappresentandosi l'evento come concretamente possibile, accettando il rischio della sua verificazione attraverso una deliberata opera di subordinazione del bene giuridico leso ad un proprio interesse o vantaggio personale, senza approntare alcuna contromisura atta ad evitare l'evento dannoso o pericoloso. Se l'agente si è invece rappresentato l'evento come astrattamente possibile e comunque ha confidato nel mancato verificarsi dello stesso grazie a proprie abilità personali, confortate da contromisure idonee a scongiurare il risultato nefasto, si avrà colpa cosciente (che contraddistingue una circostanza aggravante ex art. 61 cod. pen.). Il controllo sulla causalità, poi è effettuato così come segue: si deve valutare se l'evento è conseguenza della condotta, secondo la teoria condizionalistica sussunta sotto leggi scientifiche; l'evento deve appartenere al tipo di eventi che la norma cautelare non rispettata mirava a prevenire; si deve poter ritenere che la norma di diligenza violata, qualora rispettata, avrebbe aumentato in maniera apprezzabile la probabilità che l'evento non si sarebbe verificato. In tema di colpevolezza, infine, si prende in considerazione il c.d. doppio grado della colpa: il primo grado è la discrasia tra condotta concreta e condotta richiesta dalla norma cautelare, e opera sul piano della tipicità; il secondo grado opera sul piano della colpevolezza e si fonda sul controllo dell'esigibilità da parte dell'autore dell'illecito di una condotta conforme alla norma cautelare.

giovedì 17 gennaio 2013

Stop al numero chiuso nelle università: sottoscrivi il tuo ricorso!

Dopo il provvedimento del TAR LAZIO dello scorso dicembre che ha ammesso in sovrannumero nella facoltà di medicina e chirurgia dell' Università Sapienza di Roma delle studentesse non ammesse in un'altra università italiana, e in attesa della sentenza della Corte Costituzionale chiamata a decretare la costituzionalità o meno del "numero chiuso", SI RIAPRONO LE PORTE PER MOLTISSIMI STUDENTI ESCLUSI NELLE PROVE SELETTIVE DI ACCESSO A DETERMINATE FACOLTA' E CHE CON IL LORO PUNTEGGIO SAREBBERO STATI AMMESSI IN ALTRE UNIVERSITA' ITALIANE!!
Trascorsi i 60 giorni per impugnare al TAR le graduatorie definitive, l'unica possibilità che si prospetta è quella del RICORSO STRAORDINARIO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA (termine di 120 giorni dalla pubblicazione della graduatoria definitiva).
Chiunque fosse interessato a proporre ricorso per non rimanere fuori da questa svolta epocale può contattare il nostro studio legale all'indirizzo email forleogi@msn.com.
Affrettatevi per non far scadere i termini!
Avv. Giulio Forleo
 

lunedì 14 gennaio 2013

Concorso della moglie nella detenzione ai fini di spaccio compiuta dal marito.


di Filippo Lombardi

Cassazione penale, sez. IV, n. 35641 del 2012

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La Corte di Cassazione, con la sentenza in epigrafe affronta il delicato tema del concorso nel delitto di cui all'articolo 73 del D.P.R. 309/1990, compiuto dalla moglie in favore del proprio marito, durante una perquisizione dei Carabinieri destinata a concludersi con il ritrovamento di sostanza stupefacente utile a comporre circa 188 dosi.

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sussistenza della responsabilità penale della donna, emetteva una sentenza di condanna che veniva prontamente impugnata con ricorso per cassazione. La Corte territoriale aveva emesso la citata condanna in quanto l'imputata, nel caso di specie e su richiesta del marito, aveva occultato su di sé la droga oggetto di ricerca dei Carabinieri nell'abitazione dei due, attraverso un'apposita perquisizione. L'occultamento era stato facilmente smascherato dagli agenti, in quanto la donna tentava spesso di dileguarsi in bagno, o di fingere malori per spostare la sostanza nel proprio letto e renderla irreperibile.

La sentenza veniva impugnata con ricorso per cassazione sulla base dei seguenti motivi: 1) non era stato valutato il favoreggiamento piuttosto che il concorso nel reato; 2) la donna non conosceva il contenuto della confezione che occultava su di sé e teneva la condotta solo perché gli era stato richiesto dal marito.

domenica 13 gennaio 2013

L'aggravante del femminicidio.


di Filippo Lombardi

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Come tutti sapete, c’è stata di recente una proposta, da parte dell’ On. Bongiorno, di inserire nel codice penale (pare tra le aggravanti previste per l’omicidio – artt. 576 e 577 c.p.) una nuova aggravante a tutela delle donne. La chiamano “aggravante del femminicidio”, termine un po’ rude secondo il mio parere, ma che rende bene l’idea: il soggetto che uccida una donna rischia, in particolari casi, di vedere la propria pena schizzare dalla reclusione all’ergastolo.
Devo ammettere che, tramite le varie ricerche del testo preciso della norma nel web, ne ho trovate di cotte e di crude, ma la spiegazione che la maggior parte delle testate online dava era la seguente: l’aggravante si applicherebbe al soggetto agente il quale uccida una donna in quanto donna. Di conseguenza, la pena risulterebbe aggravata dal motivo biasimevole, cioè l’aver ucciso una donna a causa dell’odio nei confronti del genere femminile. Avevo quindi iniziato a scrivere una bozza di commento, evidenziando come l’aggravante in parola si ponesse in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, fosse di difficile accertamento processuale, rischiasse almeno nel breve periodo di applicarsi in funzione generalpreventiva (e dunque con criteri obbiettivi, in spregio all’articolo 27 Cost.), e soprattutto non servisse, perché facilmente sostituibile attraverso il ricorso a moltissime aggravanti già esistenti, alcune delle quali aumentano già la pena da reclusione a ergastolo: motivi abietti, abuso di relazioni domestiche o di coabitazione, crudeltà, uxoricidio, ecc. L’aggravante sarebbe stata altresì inutile in quanto non considera che il dolo d’impeto o la turba psichica non fa i conti con la pena, e quest’ultima, anche se aumentata, difficilmente riesce ad avere effetto dissuasivo sull’agente.