sabato 16 marzo 2013

La Cassazione sui rapporti tra il reato di falso e il reato di turbata libertà degli incanti.


CASSAZIONE PENALE – Sez. VI – 3 gennaio 2013 n. 118 – Pres. Agrò – Est. Di Salvo – (Cassa Corte d’Appello di Caltanissetta)
Turbata libertà degli incanti – Tentativo – Fotocopia falsa in luogo dell’originale – inidoneità.
Non integra il tentativo del delitto di turbata libertà degli incanti la condotta di colui che presenta, all’atto di iscrizione ad una gara pubblica, una fotocopia, seppur alterata, contenente l’affermazione del possesso dei requisiti richiesti dal bando qualora venga richiesta la presentazione della documentazione in originale; pertanto, l’esibizione di una copia falsa, in luogo di quella originale prescritta, è inidonea ad arrecare una effettiva ed apprezzabile turbativa alla gara.

Falso del privato in atto pubblico – Turbata libertà degli incanti – Rapporti.
Il delitto di falsità ideologica commesso dal privato in atto pubblico, integrato dalla falsa attestazione resa in dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, rappresenta un reato autonomo che si distingue per oggettività giuridica e per modalità di esplicazione della condotta da quello di cui agli artt. 56 e 353 c.p.

Commento del dott. Filippo Camela

La vicenda da cui muove la problematica giuridica de qua origina dalla condotta di un legale  rappresentante di una società il quale, all’atto di iscrizione di una gara di appalto per la fornitura di apparecchiatura di radioterapia e del relativo servizio, attestava falsamente, con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che la società possedeva la necessaria capacità economica e finanziaria richiesta dal bando. A comprovare quanto affermato, veniva presentata una copia, apparentemente autentica ma in realtà contraffatta, di una dichiarazione rilasciata da una banca.

Il Tribunale di Caltanissetta, all’esito del giudizio, aveva emesso la sentenza di condanna per i reati di cui agli artt. 56, 353 c.p. (tentata turbativa di libertà degli incanti) e 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) con l’aggravante di cui all’art. 61, n.2 c.p. (aver commesso il reato per eseguirne un altro).
La Corte di Appello di Caltanissetta aveva confermato tale statuizione.
Proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, a tacer d’altro e per quanto qui di interesse, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata e deducendo, al riguardo, due motivi. Con il primo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 606, lett.b), c) ed e), c.p.p., in relazione alla configurabilità del reato di cui agli artt. 56 e 353 c.p. alla luce dell’art. 13 del D.L.vo n. 358 del 1992 così come modificato dall’art. 11 del D.L.vo n.402 del 199, secondo il quale la dichiarazione della banca sulla capacità economica e finanziaria deve essere prodotta in originale. Con il secondo, invece, lamentava la configurabilità del reato di falso ex art. 483 c.p. poiché lo stesso si inseriva nel contesto di quei mezzi fraudolenti già contestati nella prima incriminazione.
La sesta sezione penale della Suprema Corte, investita della questione, ha ritenuto il primo motivo fondato. Gli ermellini, preliminarmente, si soffermano sulla nozione di idoneità degli atti, prevista come uno dei tre elementi costitutivi, oltre al mancato compimento dell’azione o al mancato verificarsi dell’evento e agli atti univoci, della condotta del tentativo di cui all’art. 56 c.p. (“chi compie atti idonei in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”).
Il requisito della idoneità, superata la tesi dell’efficienza causale, richiama “l’idea di capacità potenziale, attitudine, congruità dell’atto compiuto rispetto alla realizzazione del delitto preso di mira[1].
La valutazione della idoneità degli atti deve avvenire con giudizio ex ante (in base alla c.d. prognosi postuma, per la quale l’interprete deve adottare una collocazione ideale nel momento dell’azione) e in concreto, in modo da determinare, come si legge nel corpo motivazione della sentenza in rassegna, “la reale adeguatezza causale della condotta e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto”[2]. La Suprema Corte rileva, tuttavia, un diffuso orientamento giurisprudenziale[3] che sostiene il carattere astratto e assoluto del giudizio, nel senso che l’inidoneità dei mezzi e dell’azione deve essere assolutamente e intrinsecamente inadeguata “indipendentemente da ogni fattore estrinseco o circostanza imprevista che abbia impedito la realizzazione dell’evento[4].
Nel caso di specie, tuttavia, anche a prescindere dalle riflessioni sulle diverse soluzioni ermeneutiche offerte sulla valutazione in concreto o in astratto, rileva che la normativa in materia richiede la produzione della documentazione originale. Dalle risultanze processuali è emerso, peraltro, che l’imputato non ha mentito sulla originalità dell’atto poiché ha presentato lo stesso in veste di copia, seppur alterata. Ne consegue che la domanda depositata dal rappresentante legale era inficiata da un profilo di irregolarità, legato alla presentazione di una documentazione in fotocopia in luogo di quella originale, che la rendeva inidonea a dare luogo all’ulteriore corso della procedura amministrativa nonché ad integrare il delitto di cui agli artt. 56 e 353 c.p..
Per quanto concerne il secondo motivo, invece, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha ritenuto l’infondatezza dello stesso.
La falsa attestazione resa in una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà integra, difatti, la fattispecie incriminatrice prevista e punita dall’art. 483 c.p.. Quest’ultima differisce da quella sopra esaminata sia per quanto riguarda il bene giuridico tutelato (la fede pubblica), sia sotto il profilo oggettivo e per le concrete modalità di esplicazione della condotta (falsa attestazione di fatti di cui l’atto è destinato a provare la verità). Il delitto di falso ideologico, pertanto, è un reato autonomo e distinto rispetto a quello di cui agli artt. 56 e 353 c.p..
Sulla scorta di queste considerazioni, la sesta sezione penale della Suprema Corte annullava, soltanto in relazione alla condanna per il tentativo di turbativa, senza rinvio.
Dolo eventuale e colpa cosciente: criteri discretivi. Focus sulla teoria dell’accettazione del rischio.
 di Fabiola Castellano.

La distinzione tra il dolo eventuale e la colpa cosciente (o con previsione dell’evento) di cui all’articolo 61 n. 3 c.p., è da sempre una delle principali tematiche ad aver generato contrasti sia in dottrina che in giurisprudenza, le quali costantemente dibattono al fine di elaborare un accettabile e condivisibile criterio di differenziazione, atteso il labile confine esistente tra i due istituti.
Le due figure rientrano nell’ambito dell’elemento soggettivo del reato, che può assumere le forme del dolo e della colpa.
Ciò premesso, il dolo eventuale costituisce la forma più lieve del dolo. Esso viene in rilievo tutte le volte in cui il soggetto agente realizza un fatto tipico che, tuttavia, non costituisce l’obiettivo della condotta né una conseguenza certa o altamente probabile, ma egli lo prevede come possibile e accessoria conseguenza della condotta principale, e agisce accettando il rischio che possa verificarsi.
Viceversa, nella colpa cosciente, la quale rappresenta, invece, la forma più grave della colpa, l’agente, che ugualmente si profila la possibilità del verificarsi dell’evento, agisce con la sicura convinzione che esso non si verificherà.
Secondo la dottrina tradizionale (Antolisei) la colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento antigiuridico ma non lo ha voluto, perché sorretto dalla “fiducia” che esso non si sarebbe verificato.
Altra dottrina (Bettiol) ritiene, invece, che la colpa cosciente sia caratterizzata dalla “speranza” che l’evento previsto non si verifichi. Altri ancora (Delitala) ritengono, infine, necessaria la convinzione dell’agente che l’evento, malgrado la previsione, non si verificherà.
Il dolo eventuale e la colpa cosciente hanno, indubbiamente, diversi elementi comuni: in entrambi, la condotta è diretta a realizzare altri scopi e determina anche il verificarsi di un accadimento o di un evento che non è direttamente preso di mira, ma che è previsto come conseguenza accessoria della condotta principale. In tutti e due i casi, il soggetto agisce prevedendo come probabile o possibile il verificarsi di un evento non direttamente preso di mira.
Accertata l’esistenza di elementi comuni, il problema si pone, invece, con riferimento, al criterio distintivo tra i due istituti.
Tra le diverse tipologie di criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza, ad oggi sembra riscuotere maggiore successo quello dell’accettazione del rischio.
Secondo il suddetto criterio, il dolo eventuale presuppone la rappresentazione della concreta possibilità di verificazione dell’evento e, nonostante ciò, la decisione di agire accettando il rischio concreto di provocare quel determinato evento.
La colpa cosciente, viceversa, viene in rilievo tutte le volte in cui il soggetto agente si rappresenta l’astratta possibilità dell’evento lesivo, ma confida con certezza nel fatto che esso non si concretizzerà, sicché non accetta il rischio del suo verificarsi. In altri termini, le sue componenti sono la rappresentazione dell’evento e la contestuale certezza di essere comunque in grado di dominarlo e di evitarlo.
Al criterio dell’accettazione del rischio si è giunti attraverso un percorso evolutivo e di analisi del comportamento e della volontà del soggetto agente che ha preso le mosse dalla ormai nota “Formula di Frank”.
Secondo tale formula, se dall’esame del carattere del reo e, soprattutto, dalle modalità dell’azione risulta che l’autore dell’illecito avrebbe agito ugualmente anche se avesse previsto l’evento lesivo come necessariamente connesso alla sua azione, allora sussisterà il dolo eventuale. Viceversa, qualora nella medesima ipotesi il reo si sarebbe astenuto dall’agire, si avrà la colpa cosciente.
Da ciò consegue che il momento intellettivo della previsione dell’evento è identico in entrambi gli istituti, mentre essi vanno distinti con riferimento al momento volitivo, considerato che, laddove l’agente deliberi di agire anche a costo di realizzare l’evento previsto, allora verserà in dolo eventuale, mentre, se risulta che egli ha agito senza accettare il rischio e nella convinzione che l’evento non si sarebbe verificato o che sarebbe comunque stato in grado di dominarlo, quanto cagionato rimarrà non voluto e dunque estraneo alla sfera della volontà dolosa. Pertanto, rientrerà nell’ambito della colpa aggravata dalla previsione dell’evento.
Prima di giungere e, soprattutto, prima di ritenere la teoria dell’accettazione del rischio come la più idonea a delineare la differenza tra i due istituti in questione, dottrina e giurisprudenza nel corso degli anni hanno elaborato diverse concezioni, ponendo l’attenzione ora sul momento rappresentativo ora su quello volitivo.
Alcune teorie (c.d. della rappresentazione) hanno dato rilevanza al momento rappresentativo del dolo, ritenendo che il dolo eventuale si realizza quando il soggetto agente si rappresenta l’accadimento dell’evento collaterale come “altamente probabile”, mentre nella colpa  con previsione l’agente si rappresenta l’evento come “meramente possibile”.
Altro gruppo di teorie (c.d. volitive) ha spostato, invece, l’attenzione sulla condotta principale del soggetto agente, ritenendo che ad un elevato disvalore della condotta principale corrisponderà un maggiore disprezzo verso il bene giuridico tutelato e quindi uno stato soggettivo di indifferenza verso la probabile verificazione dell’evento, configurandosi in tale stato il dolo eventuale.
L’assunto derivante dall’applicazione della Formula di Frank ha influenzato nettamente tutti gli sforzi fatti dalle precedenti teorie tanto che, ad oggi, quello dell’accettazione del rischio risulta essere, come già chiarito, il principale criterio distintivo tra dolo eventuale e colpa cosciente.
La giurisprudenza di legittimità in buona parte delle proprie pronunce ha aderito a tale criterio affermando che: si è in presenza di dolo eventuale quando l’agente, pur non volendo l’evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, comportandosi anche a costo di determinarlo; mentre si risponde a titolo di colpa aggravata nel caso in cui l’agente, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi.
A questo punto, risulta necessario porre l’attenzione su una importante pronuncia della Suprema Corte ( sent. n. 11222 del 2010) la quale, in tema di dolo eventuale e colpa cosciente, partendo dal normale criterio di distinzione tra i due istituti, ha fornito un ulteriore elemento distintivo che merita di essere analizzato.
La decisione prende le mosse dal famoso caso “Lucidi” del 2008 che ha visto la morte del conducente e del passeggero di uno scooter travolto da un automobilista che ha impegnato un incrocia senza arrestarsi al semaforo con luce rossa.
In primo grado l’automobilista veniva condannato per omicidio volontario, ritenendo, la Corte d’Assise, sussistente il dolo eventuale.
La Corte di Assise di Appello, invece, riformava la sentenza condannando l’imputato per omicidio colposo, ritenendo a tal uopo sussistente la colpa aggravata dalla previsione dell’evento.
Il Supremo Collegio, partendo dalla ormai assodata distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, riteneva di condividere il ragionamento logico-giuridico seguito dalla Corte di Assise di Appello e  coglieva l’occasione per fornire alcune precisazioni sulla differenza tra i due istituti.
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, infatti, affinché possa ritenersi sussistente il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accettare non è solo il rischio del verificarsi dell’evento, ma l’evento stesso. Nel caso in questione, è proprio il verificarsi dell’evento morte che il soggetto deve accettare non desistendo dalla condotta, la quale continua ad essere dispiegata anche a costo di determinare l’evento medesimo. In sostanza, “accettazione del rischio” non significa accettare solo la situazione di pericolo, che trova un antecedente causale nella condotta del soggetto, e prospettarsi solo la possibilità che l’evento si verifichi. Questo, infatti, costituisce anche il presupposto della colpa cosciente. Significa, altresì, accettare la concreta possibilità che l’evento, pur non direttamente voluto, si realizzi.
Ed ancora, il dolo eventuale è pur sempre una forma di dolo, pertanto, affinché possa venire in rilievo, è comunque necessario che un quid di cosciente investa la concretezza del pericolo.
Da ciò consegue che, nel momento in cui la situazione di pericolo astratto assume le connotazioni di concretezza, vengono in rilievo la coscienza e volontà dell’azione. In altri termini: se nel momento in cui il soggetto agente percepisce la concretezza del pericolo (che quindi supera il livello della mera astrattezza) non è più in grado di fare alcunché per evitare l’evento dannoso non voluto, egli dovrà rispondere a titolo di colpa cosciente e non di dolo eventuale, perché manca quel quid di cosciente, quella decisione di rischiare che è necessaria per imputare al soggetto attivo il reato a titolo di dolo eventuale.
La percezione  dell’esistenza del pericolo generico, quindi, è insufficiente per far scattare il dolo eventuale.
Tuttavia, tale percorso argomentativo è stato ribaltato da una successiva pronuncia della Suprema Corte la quale in un caso analogo al caso “Lucidi” si è espressa nel senso di ritenere sussistente il dolo eventuale.
Prendendo sempre le mosse dalla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente sulla base del criterio dell’accettazione del rischio, gli Ermellini si sono espressi nel senso di ritenere che sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente qualora l’agente si sia rappresentato il concreto rischio del verificarsi dell’evento e lo abbia anche accettato, nel senso che si sia determinato ad agire anche a costo di cagionarlo. In sostanza, se il soggetto agente non desiste dalla condotta criminosa bensì persiste nella stessa accettando il rischio che l’evento si verifichi, l’inerzia del soggetto rispetto alla concreta possibilità di desistere è già sufficiente ad integrare il dolo eventuale (Cass. Pen., Sez. I, 15 marzo 2011 n. 10411).


[1] FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale, Parte Speciale, 2008, 460.
[2] Cfr. Cass. Pen., sez. I, 02 ottobre del 1997, Rep Foro it., 1998, 2057.
[3] Ex multis Cass. Pen., sez.II, 04 dicembre 1978 n.2929, Cass. Pen., sez. V, 29 gennaio 1971 n.145.
[4] Ex multis Cass. Pen., sez.II, 22 settembre 2005 n.36295, Cass. Pen., sez.I, 16 gennaio 1984 n. 5015.

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