lunedì 13 febbraio 2012

L’amante minaccia di rivelare la relazione extraconiugale in cambio di denaro: Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni?

di Giovanni Miccianza

Preliminarmente prendiamo in considerazione un caso che può verificarsi nella vita di tutti i giorni.
Tizio intrattiene una relazione extraconiugale con Caia versandogli a titolo di doni del denaro. La relazione prosegue a gonfie vele fino a quando l’uomo pian piano si allontana dall’amante. Ebbene, mettiamo il caso che Caia, comprendendo l’imminente abbandono della persona che con lei condivideva letto e mantenimento, si rivolga a Tizio minacciandolo di rivelare la relazione extraconiugale a sua moglie se non gli corrisponderà il denaro che abitualmente gli versa.
Ebbene, nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una vera e propria estorsione o ad un esercizio arbitrario delle proprie ragioni?    
 
L’art. 393 c.p. è norma volta a sanzionare ed impedire che la violenza privata si sostituisca all’esercizio della funzione giurisdizionale in occasione dell’insorgere di una controversia tra privati.
Presupposto necessario è il preteso diritto; invero, il soggetto attivo agisce nella piena consapevolezza e convincimento del proprio operato pur non essendo necessaria, al fine di integrare la fattispecie delittuosa, la fondatezza giuridica della pretesa vantata; l’ordinamento giuridico sanziona unicamente l’antigiuridicità del modo attraverso il quale l’autore esercita il proprio diritto,     
Dal punto di vista oggettivo non è richiesto che l’oggetto materiale dell’azione del reo esista realmente essendo sufficiente il libero convincimento dell’agente che sussistano i presupposti per agire a tutela delle proprie ragioni senza rivolgersi all’autorità giudiziaria competente. Il soggetto agente diventa reo per il fatto di aver sottratto alla competenza del giudice la valutazione del caso specifico, sostituendosi all’autorità e esercitando l’eventuale diritto in modo antigiuridico.  
La condotta si attua: 1) con violenza, qualsiasi comportamento che, risolvendosi in un contatto fisico nei confronti del soggetto passivo, ne impedisca la libera autodeterminazione e 2) con la minaccia che consiste nella c.d. violenza morale, costituita dalla prospettazione di un male futuro ed ingiusto allo scopo di coartare la libertà di autodeterminazione.
Il dolo previsto dalla norma è generico in quanto risulta sufficiente la coscienza e volontà dell’atto di violenza o di minaccia compiuto nel solo convincimento di esercitare un diritto.
Il bene giuridico tutelato, invece, dalla norma di cui all’art. 629 c.p. (estorsione) è duplice; da un lato si protegge l’inviolabilità del patrimonio e, dall’altro, la libertà di determinazione individuale contro fatti di coercizione, posti in essere per costringere altri a fare od omettere qualche cosa al fine di procurare al soggetto agente oppure ad altre persone un ingiusto profitto con altrui danno.
L’elemento psicologico riferibile al reato di estorsione è il dolo generico, poiché il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno non rappresenta soltanto lo scopo in vista del quale il colpevole si determina al comportamento criminoso, ma un elemento della fattispecie oggettiva.
In estrema sintesi, il reato di estorsione è caratterizzato, quanto all’elemento soggettivo, dalla piena consapevolezza di usare la violenza fisica o morale, per poter procurare ad altri oppure a sé un profitto ingiusto. Pertanto, il dolo ovvero la coincidenza tra il voluto ed il realizzato deve estendersi ed abbracciare anche l’ingiustizia del profitto che rappresenta uno degli elementi materiali del reato.
E’ un reato comune e, quindi, il soggetto attivo del reato può essere chiunque ed a forma vincolata, poiché la condotta tipica è prestabilita dal legislatore.
Ritornando al caso di specie occorre accertare se si configuri il reato di estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. A prima vista sembra integrare gli estremi del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona (art. 393 c.p.), ma da una attenta e approfondita analisi emergono conclusioni diverse.
Il negozio giuridico con causa illecita per contrarietà al buon costume (corrispettivo di prestazioni sessuali mercenarie) ex art. 1343 c.c. non può trovare alcuna tutela nel nostro ordinamento. Ciò comporta che la pretesa di Caia non è tutelabile giudizialmente. Non è ravvisabile il delitto di ragion fattasi ogni qualvolta, la pretesa, discendendo da un contratto illecito, sia contra ius (cfr. Cass. pen., Sez. II, 18 novembre 2009, n. 44029).
Invece, è da sottolineare come, sempre secondo l’opinione del Supremo Collegio di legittimità, costituisce estorsione e non esercizio arbitrario delle proprie ragioni l’impiego di violenza o minaccia per ottenere l’adempimento di una c.d. “obbligazione naturale”, quale quella oggetto della presente vicenda, essendo esclusa, per siffatto genere di obbligazioni, la proponibilità dell’azione davanti al giudice civile ed essendo, altresì, esclusa l’eccezione della soluti retentio in caso di adempimento coatto (Cass. pen., Sez. VI, 2 ottobre 2007, n. 39366).
Con l’art. 629 c.p. il legislatore ha inteso tutelare il bene giuridico del patrimonio, sotto il duplice profilo della libertà morale e del patrimonio della vittima. La differenza principale con l’art. 393 c.p. sta nel fatto che nell’estorsione l’agente è consapevole dell’infondatezza della pretesa, proprio come nel caso di specie. Infatti, mentre la condotta può anche coincidere, ciò che differisce è l’elemento intenzionale che, nell’estorsione, si concretizza nella coscienza e volontà di conseguire un ingiusto profitto, con la consapevolezza che quanto pretende non gli è dovuto.
Come ribadito dalla recente giurisprudenza di legittimità, “ciò che essenzialmente differenzia il delitto di estorsione dalla fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, a parità di comportamento materiale, l’elemento soggettivo che caratterizza l’azione: l’esercizio illecito di proprie ragioni presuppone che l’agente versi nella ragionevole convinzione della legittimità della propria pretesa, la quale potrebbe ottenere un riconoscimento ad opera del giudice; l’estorsione si qualifica per la volontà protesa a conseguire un profitto riconosciuto come ingiusto, rispetto al quale non sussiste diritto alcuno” (Cass. pen., Sez. II, 4 febbraio 2010, n. 4828).
Ne consegue che, all’esito di quanto sin qui affermato, il comportamento minatorio attuato da Caia, per ottenere l’adempimento richiesto, integra dunque il reato ex art. 629 c.p. e non un illecito meno grave quale l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p..

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