sabato 7 aprile 2012

L'antigiuridicità e le singole scriminanti.

 Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

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L’antigiuridicità è il secondo elemento strutturale nella concezione tripartita del reato. Il primo stadio da vagliare ai fini della responsabilità penale è quello della tipicità, che sussiste nel momento in cui il caso concreto presenta tutti gli elementi descrittivi e  (eventualmente) normativi della fattispecie astratta. Successivamente bisogna valutare se quello specifico comportamento tipico è anche antigiuridico, cioè contra ius. Per farlo, è necessario controllare se l’azione tipica tenuta in concreto dal soggetto agente non è tutelata, autorizzata, o comunque permessa e facoltizzata da qualsiasi ramo dell’ordinamento giuridico. Attualmente, l’antigiuridicità viene tradotta come assenza di cause di giustificazione. Esiste anche la cosiddetta antigiuridicità speciale, la quale sussiste quando nel tenore letterale della norma giuridica emergono parole o locuzioni come “abusivamente”, “illecitamente”, o altre. La dottrina si è divisa, al riguardo, in tre filoni di pensiero: c’è chi considera le predette locuzioni come pleonastiche e sovrabbondanti rispetto al disvalore già condensato nella norma; vi è chi indica invece un loro ruolo rafforzativo dell’illiceità della condotta; e, infine, l’ultimo filone dottrinale reputa questi concetti come concetti-guida per l’interprete nella ricerca di eventuali cause di giustificazione applicabili.
A proposito di cause di giustificazione, esse (anche dette “scriminanti”) si distinguono rispetto alle scusanti e alle cause di non punibilità. Le cause di giustificazione o scriminanti, infatti, elidono l’antigiuridicità; le scusanti elidono la colpevolezza, cioè incidono sulla rimproverabilità dell’agente; le cause di non punibilità, invece, lasciano intatte l’antigiuridicità e la colpevolezza ma prevedono la non punibilità in casi nei quali l’ordinamento tutela specifici interessi ritenuti prevalenti rispetto alla punibilità stessa (es. il figlio che ruba ai danni del padre non è punibile, poiché l’ordinamento vuole preservare l’unità della famiglia, e l’interesse della stessa a intervenire per prima su eventuali devianze dei suoi membri). E’ da segnalare, ai fini definitori, che mentre la dottrina parla indiscriminatamente delle tre categorie chiamandole “esimenti”, la giurisprudenza considera esimenti solo ed esclusivamente le cause di non punibilità.

LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. PRINCIPI GENERALI.
Secondo quanto premesso, siamo in grado di dire che le cause di giustificazione sono delle “circostanze” che elidono l’antigiuridicità, cioè fanno in modo che il fatto, seppur tipico (e quindi tendenzialmente illecito), non possa considerarsi illecito, poiché non contra ius. Potrà definitivamente dirsi che un fatto sarà antigiuridico quando non esiste una causa di giustificazione che lo scrimina.
Tra i principi generali del nostro ordinamento vi è quello del favor rei, che impone di applicare tutto ciò che è favorevole al reo anche se da questi non conosciuto. Sarà così, ad esempio, per le circostanze attenuanti, e il principio vale anche per le cause di giustificazione. Ciò significa che la causa di giustificazione che emergerà dalle circostanze concrete sarà applicabile al di là di se il soggetto agente sapeva di agire in concomitanza con l’operatività della scriminante. Vi è da aggiungere il principio per cui il putativo vale reale. Ovvero, quando un soggetto agisce con l’errata percezione dell’esistenza di una causa di giustificazione, questa verrà applicata al caso di specie, e l’eventuale fatto (che è sostanzialmente tipico ed antigiuridico) sarà considerato come sostanzialmente tipico e formalmente non-antigiuridico, in base alla suddetta fictio iuris. Deve ricordarsi però che, se nel caso concreto può ritenersi che il soggetto, riponendo una diligenza e un’attenzione maggiori nell’azione, avrebbe potuto immaginarsi l’inesistenza della causa di giustificazione, il fatto tornerà ad essere tipico e antigiuridico, e sarà punito a titolo di colpa se quello specifico fatto è previsto dalla legge come reato colposo. La dottrina parla, a proposito del principio de quo (art. 59 ult. comma c.p.), di colpa impropria, cioè di una punizione a titolo di colpa di un fatto essenzialmente doloso. In realtà, trattasi di vera e propria colpa, poiché l’errore che intervenisse nella fase precedente all’azione reputata coperta dalla scriminante sarebbe comunque un errore-motivo, cioè un errore sui presupposti di fatto della scriminante che, intervenendo sulla fase ideativa dell’azione, produce una falsa rappresentazione fattuale da cui si origina l’azione stessa. La punibilità, quindi, non sarà esclusa quando questo errore deriva da colpa, mentre sarà esclusa quando questo errore, alla luce delle circostanze oggettive e soggettive, sarà da considerare inevitabile. La non punibilità, in sintesi, deriva dall’assenza di colpevolezza, e quindi l’art. 59 ult. comma è normalmente inserito nell’ambito delle scusanti. La differenza tra questo articolo e l’articolo 5 del codice penale sta nel fatto che nel primo caso il soggetto sa che ciò che fa è considerato fatto tipico ma ritiene che sia scriminato per la presenza in concreto di una causa di giustificazione; nel secondo caso (art. 5) il soggetto non sa che il suo fatto è un fatto tipico.
Possiamo riscontrare, ulteriormente, un eccesso colposo e un eccesso doloso nell’uso di una situazione sostanziale che risponde al nome di causa di giustificazione. Caso tipico è l’eccesso colposo (o doloso) di legittima difesa. Vi è una differenza importante tra i due eccessi. Nel caso di eccesso colposo, la persona reagisce ad un’offesa ingiusta, e varca i limiti della proporzione (ad es., il soggetto avrebbe potuto usare una reazione meno lesiva nei confronti dell’offensore, ed esagera senza volerlo nella reazione, provocando un danno maggiore di quello che avrebbe egli stesso subìto dall’aggressione). In questo caso l’eccesso è punito a titolo di colpa. Quindi, se il soggetto che ha ecceduto ha in concreto apportato delle lesioni senza che queste siano state volute, risponderà di lesioni colpose. Se, invece, il soggetto ha voluto quelle lesioni finali, eccedendo nella legittima difesa in maniera quindi del tutto dolosa, risponderà di lesioni volontarie. Anche nel caso dell’eccesso colposo nell’uso di una scriminante, la dottrina ritiene che si tratti di colpa impropria, cioè di colpa solo ai fini della punibilità, in quanto ritiene che il soggetto può sempre prevedere il verificarsi dell’evento lesivo e, nel momento in cui prevede, finisce automaticamente per accettarne il rischio. Ovviamente trattasi di una teoria infondata o, meglio,  fondata sull’uso della responsabilità dolosa presunta. La situazione sostanziale è, in realtà, simile al caso della preterintenzione, poiché anche nella preterintenzione un soggetto causa un danno maggiore di quello che voleva realmente causare. Vedremo come la preterintenzione potrà essere attribuita a titolo di colpa. Anche il caso dell’eccesso colposo si basa sull’esistenza dei medesimi presupposti: un soggetto vuole causare un danno (che è facoltizzato dall’ordinamento qualora compreso nel limite della proporzione) ma ne causa uno più grave (che trascende il limite della proporzione). Quell’evento verrà posto a carico del soggetto se sussiste la colpa, cioè un errore colposo nell’esecuzione dell’attività che comporrebbe la causa di giustificazione. Ad ogni modo ricordiamo come la colpa goda di un doppio grado di giudizio, di cui uno al livello della tipicità e l’altro al livello della colpevolezza. Quindi potrà aversi una non punibilità se il soggetto, valutato come individuo dotato di specifiche caratteristiche, è identificato come non rimproverabile.
Si è a lungo ritenuto che la ratio dell’esistenza delle cause di giustificazione debba rintracciarsi a seconda dei casi nella prevalenza del vantaggio sul danno, o nel raggiungimento di uno scopo tutelato dall’ordinamento. Queste rationes afferiscono quindi ad un principio di interpretazione delle c. di g. in senso monistico. Si è successivamente affermata una nuova visione (criterio pluralistico) del fondamento delle cause di giustificazione, visione che poggia sul concetto di interesse, che si atteggerebbe in maniera diversa nei casi di esercizio di un diritto, adempimento di un dovere, legittima difesa e uso legittimo delle armi, rispetto ai casi di stato di necessità e consenso dell’avente diritto. Nell’ambito delle prime, l’interesse sarebbe prevalente e afferirebbe al contenuto del diritto, al contenuto del dovere e alle situazioni giuridiche soggettive tutelande con la legittima difesa e con l’uso delle armi; negli ultimi due casi sarebbe mancante, e afferirebbe all’interesse dello Stato a reprimere, nel primo caso (consenso dell’avente diritto) perché il soggetto presta il consenso alla lesione, con la presenza di presupposti che glielo consentano, e nel secondo caso, vedremo, per la non rimproverabilità del soggetto che realizza la situazione tipica. Da queste premesse, possiamo prendere spunto per trattare delle singole cause di giustificazione.

LE SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. IL CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO (art. 50 cod. pen.)
La causa di giustificazione di cui si discute è quella prevista dall’articolo 50 del codice penale, il quale dispone che non è punibile colui il quale ha commesso il fatto tipico col consenso dell’avente diritto. Il consenso è inquadrato dalla dottrina maggioritaria come atto giuridico in senso stretto, e cioè come permesso. Deve provenire da un soggetto titolare del diritto, capace di intendere e di volere (capace di agire) e, in generale, legittimato a prestarlo. Esso deve essere quindi genuino, consapevole, esplicito, non equivoco, non estorto con violenza errore o dolo. “Esplicito” vuol dire che deve manifestarsi all’esterno, quindi sarà valido il consenso espresso ma anche quello tacito. Dottrina dibatte sulla validità del consenso presunto. La differenza tra consenso tacito e consenso presunto sta nel fatto che quello tacito è comunque manifestato e inequivoco, a causa di atti concludenti idonei a rappresentare la volontà del soggetto, mentre il consenso presunto è un consenso non manifestato, ma che il soggetto che compie il fatto tipico ritiene che avrebbe avuto se l’avesse richiesto. La Corte di Cassazione è intervenuta a sciogliere la questione, propendendo per la sola legittimità del consenso espresso e tacito.
E’ da ricordare che nella legge penale il consenso non è sempre causa di giustificazione. A volte, infatti, si incontra il dissenso come elemento costitutivo di un reato (es. furto, violazione di domicilio). In questi casi, l’eventuale consenso prestato non esclude l’antigiuridicità, bensì opera già al livello della tipicità, eliminandola ed evitando il controllo del secondo step (antigiuridicità).
Una ulteriore caratteristica del consenso è che questo deve avere ad oggetto un diritto (innanzitutto di pertinenza del soggetto che lo presta ma soprattutto) disponibile, cioè che possa essere sacrificato. I diritti disponibili per eccellenza sono quelli patrimoniali, altamente sacrificabili. Esistono poi diritti intermedi come i diritti della personalità che possono essere compressi in maniera tollerabile, cioè senza che vi sia un sacrificio totale, sia nel modo relativo al sacrificio, sia come sua continuità nel tempo. Ad esempio, un soggetto non può acconsentire a essere ridotto in schiavitù, ma può acconsentire a che venga chiuso in una gabbia per effettuare un numero del suo spettacolo in un circo, col fine di rivedere il bene “libertà personale” espanso nuovamente alla fine dell’evento. Diritti problematici sono quelli relativi all’incolumità personale, intesa come integrità fisica e come bene-vita. L’art. 5 del codice civile dispone che sono vietati gli atti che causano una menomazione permanente dell’integrità fisica, o che siano comunque contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Le uniche eccezioni riguardano i casi in cui dalla menomazione seppur permanente possa derivare una modificazione in melius dello stato di salute della persona, o i casi in cui la menomazione sia animata dallo spirito solidaristico che impegna alcune persone nei confronti di altre (es. il padre che dona il rene al figlio). Il diritto alla vita è invece un diritto considerato non sacrificabile dall’ordinamento. E’ infatti sanzionato l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La concezione tuttora seguita è ovviamente densa di concetti che richiamano la funzionalità del bene-vita nei confronti degli interessi pubblici, concetti che trovano la loro collocazione storica nei totalitarismi di inizio novecento. Attualmente sarebbe auspicabile una rivalutazione in chiave costituzionalistica della vita intesa non come obbligo di una persona nei confronti dello Stato, ma come diritto che debba considerarsi arricchito dal concetto di dignità. Si dovrà parlare quindi di “diritto ad una vita dignitosa”, che trova il suo riconoscimento all’art. 32 Cost. laddove esso parla del rispetto dovuto dalla legge alla persona umana. Il concetto di persona umana, di conseguenza, sembra uscire da queste considerazioni arricchito di un contenuto nuovo, un contenuto che rende la stessa centro dell’ordinamento giuridico, diversamente da ciò che si è sempre distinto per essere il centro dell’ordinamento giuridico, cioè lo Stato, almeno dal punto di vista penalistico (da notare infatti è la gerarchia di beni giuridici presenti nel codice Rocco, che parte dal più importante (lo Stato, appunto) e finisce con i beni meno importanti (la vita, il patrimonio). La dottrina costituzionalista e la comunità scientifica sembrano recentemente propendere per questa rivalutazione, tant’è che sono ritenute valide eticamente le due eutanasie più praticate, cioè quella passiva (interruzione dell’alimentazione forzata) e quella indiretta (somministrazione di farmaci contro il dolore ma che diminuiscono le aspettative di vita del paziente).

L’ESERCIZIO DI UN DIRITTO (art. 51 cod. pen.)
Anche la commissione del fatto tipico nell’esercizio di un diritto è scriminata dall’ordinamento, per opera del principio di non contraddizione: non vi possono essere due norme, l’una che vieta e l’altra che autorizza lo stesso comportamento. Quando si parla di diritto si parla di situazione giuridica soggettiva, di potere o di facoltà di agire in vista del raggiungimento di un interesse tutelato dall’ordinamento, e quindi costituirà l’oggetto di questa causa di giustificazione qualunque norma del panorama giuridico che autorizzi il consociato a compiere un’attività giuridicamente rilevante, norma che potrà appartenere alla normazione primaria come a quella secondaria. O potrà, a maggior ragione, provenire direttamente dalla Costituzione. Le tre questioni che rilevano, al fine di determinare il contenuto di questa scriminante sono le seguenti:
1) la scriminante opera regolando un contrasto tra diritti, quello leso e quello oggetto dell’esercizio. Quindi c’è da comprendere quali siano i criteri per risolvere questi contrasti.
2) la seconda questione riguarda i limiti dell’esercizio del diritto. 
3) la terza questione riguarda i casi problematici dei diritti di cronaca, critica e satira, nonché dello ius corrigendi, degli offendicula e del picchettaggio.

La prima questione va risolta scegliendo di volta in volta il criterio di specialità, cronologico o gerarchico, che si adatti meglio al caso di specie. O meglio, si dovrebbe ammettere che, laddove i diritti siano gerarchicamente diversi, l’esercizio del diritto gerarchicamente inferiore non può scriminare l’azione lesiva del bene giuridico di più elevato rango. Laddove essi siano dello stesso rango, si dovrà valutare quale sia il diritto condensato nella norma cronologicamente successiva o speciale.
La seconda questione va invece affrontata nell’ottica del diritto esercitato, dal punto di vista del contenuto della norma ad esso inerente e del suo rapporto con altre norme. Ciò significa che l’esercizio del diritto troverà limiti intrinseci ed estrinseci. I primi saranno dati dalla regolamentazione del diritto ad opera della norma che lo contiene e lo disciplina. I secondi saranno individuati dal rapporto sistematico tra la norma specifica e il contesto normativo di cui fa parte, il quale può offrire spunti giuridici per valutare l’esistenza di ulteriori limiti all’esercizio del diritto.
Riguardo alla terza questione, si possono analizzare singolarmente le situazioni elencate.

Diritto di cronaca, critica, satira. Se il diritto alla giusta rappresentazione del proprio essere è giustificato dalla normativa costituzionale, è anche vero che sempre al livello costituzionale si scorge il diritto di manifestazione del pensiero, che trova il suo riconoscimento nel diritto di cronaca, e nei diritti di critica e di satira.
Ci si interroga quindi su quali siano i limiti che i due ambiti devono rispettare per consentire il bilanciamento di interessi dello stesso rango. La Corte di Cassazione ha riposto la soluzione in tre limiti che chi si occupa di cronaca deve osservare.
1) In primo luogo il principio di verità o veridicità (anche detto di verosimiglianza): il giornalista che intende scrivere notizie relative ad una persona deve verificare con diligenza il contenuto della notizia, per valutarne la verità o almeno la verosimiglianza. Non si richiede che il soggetto entri nei meandri della materia scoprendo se effettivamente la questione di cui intende scrivere sia VERA, ma si richiede che egli svolga almeno un lavoro certosino sulle sue fonti e sull’attendibilità delle stesse per valutare quantomeno se non risulti evidente l’impossibilità o la inverosimiglianza della notizia. 
2) In secondo luogo il principio dell’interesse pubblico: il pubblico deve essere interessato alla ricezione della notizia. Deve cioè trattarsi di una notizia di rilievo per la collettività. Ne risultano escluse le notizie di mero gossip, finalizzate a suscitare lo scalpore o il mero pettegolezzo intorno ad una vicissitudine concernente una persona.
3) Infine la S.C. fa riferimento al principio di continenza: si tratta cioè della pacatezza nell’esposizione, nel dosaggio “educato” delle parole, onde riconoscere anche alla persona più spregevole un diritto ad essere rispettata e a non vedere violata la propria dignità di essere umano. Il principio della continenza non sarebbe rispettato se il giornalista utilizzasse il linguaggio ironico (ad esempio attraverso l’uso del virgolettato), il sarcasmo, il tono rude e aggressivo volto a gettare discredito, l’accostamento al soggetto di concetti che a prima vista non sembrano a lui attribuibili ma, a ben vedere, sono volti alla di lui denigrazione, il messaggio subliminale.

Un ultimo cenno al concetto di critica e di satira per valutare le somiglianze e le diversità rispetto alla cronaca. La critica è definibile come “l’attacco argomentato alle altrui posizioni”. Il critico non ha come finalità quella di presentare un fatto (obbiettivamente o con una seppur lieve presa di posizione) bensì quella di analizzare gli argomenti altrui per scovarne ed affrontarne le debolezze, con intento decostruttivo e volto a presentare invece con forza le proprie tesi. Nell’attività critica è possibile (non far venir meno ma) attenuare l’obbligo di continenza, nel senso che il linguaggio può essere forte e apertamente denigrante l’altrui punto di vista, ma non deve sconfinare nel “gratuito attacco alla persona in quanto tale”. Il diritto di satira è più problematico, poiché spinge il limite tra libera manifestazione del pensiero e diritto altrui alla esatta rappresentazione di se stesso fino all’estremo, quasi sempre “affacciandosi” nell’illiceità. Il diritto di satira, cioè, è per sua natura tendente all’illecito, poiché esaspera i caratteri insiti nella mera critica, portandoli ai livelli più elevati. Questo spiega le tantissime beghe giudiziarie emerse in particolar modo tra politici o esponenti del clero e vignettisti (o comici) satirici. Nemmeno la giurisprudenza di legittimità si è sentita di limitare questo diritto inviolabile scaturente dall’articolo 21 della Costituzione, e ha acconsentito giustamente a che esso potesse mirare alla “caricaturizzazione della persona malcapitata, all’esasperazione dei suoi lati più biasimevoli, e alla ridicolizzazione di essa”. Anche nel caso della satira, però, l’opera di dileggio, lungi dal poter essere pacata, dovrà fondarsi su basi oggettivamente riscontrabili, e non rappresentare il gratuito e ingiustificato disprezzo della vittima con connessa violazione di questa come persona che ha diritto ad un’integra dignità.

Ius corrigendi. E’ il diritto dei genitori di compiere atti invasivi dell’altrui fisicità e produttivi della sensazione di dolore (schiaffi), o di limitazione della libertà di movimento (strattoni o altri atti che comportino la coercizione fisica che influisca sul movimento), nei confronti dei figli, al fine di “correggere”, cioè educare. La psicopedagogia moderna suggerisce l’assoluta assenza di gesti violenti nei confronti dei bambini (facile obbiettare, non a torto, come sia alquanto arduo trattare “diplomaticamente” con un bambino di due anni irrequieto!) ma, anche volendo prescindere da questi consigli, si rileva come i gesti violenti, sia quelli di lieve entità a cui si è fatto accenno, sia quelli più lesivi, costituiscano il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572 c.p.) qualora si verifichino in una maniera continuativa, idonea a rappresentare un sistema di comportamenti vessatori nei confronti del minore, segnati dall’abuso della posizione dominante di genitore.  

Gli offendicula. Essi sono strumenti, accorgimenti materiali, idonei a preservare cose o luoghi (quindi in generale, la proprietà privata). Come indica già il termine, essi sono mezzi non solo idonei alla protezione ma anche idonei a ledere l’altro, per scoraggiare l’invasività dei consociati che non vantino diritti sulla cosa. Si è posto quindi il problema della caratteristiche che essi debbano avere per non trasmodare in abuso del diritto. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che i requisiti siano i seguenti:
- non eccessiva lesività rispetto al tenore del bene protetto. Questo è il principio che traduce direttamente l’esigenza di proporzione (ci si immagini l’illegittimità di un’arma da fuoco automatica posta a protezione di una statuetta da giardino).
- l’oggetto non deve ingannare, cioè sorprendere perché occultato, difficilmente visibile o distinguibile.

Esiste una disputa su se gli offendicula appartengano alla causa di giustificazione di cui all’art. 51 o a quella dell’art. 52 (legittima difesa). Al di là delle due branche della dottrina che condividono l’una o l’altra tesi, esiste una terza strada intermedia che alcuni Autori hanno scelto, e cioè quella di considerare lo strumento atto ad offendere come integrante l’esercizio di un diritto se il soggetto che si relaziona con l’ offendiculum è un soggetto privo di finalità aggressiva, mentre nel caso opposto si tratterebbe di legittima difesa.  

Anche per quanto riguarda il fenomeno del picchettaggio, cioè dei lavoratori scioperanti che vietino con mezzi o atti violenti ad altri lavoratori di svolgere l’attività lavorativa nel giorno dello sciopero, si registrano opinioni discordanti all’interno della stessa Cassazione. Alcune sezioni lo rappresentano come integrante il reato di violenza privata, altri lo reputano non penalmente rilevante, o meglio, scriminato dall’esercizio di un diritto. In realtà sarebbe da preferire la prima tesi, poiché il diritto allo sciopero e quello al lavoro sono garantiti entrambi a livello costituzionale, e quindi è doverosa in questi casi un’opera di bilanciamento. Ciò vuol dire che entrambi i diritti devono essere tutelati e quindi nessuno dei due deve soccombere rispetto all’altro.


L’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE (art. 51 cod. pen.)

Non è punibile, sempre in base all’art. 51 del codice penale, il soggetto che compie il fatto tipico nell’adempimento di un dovere o di un ordine dell’autorità. Il dovere è un obbligo giuridico che sorge da una qualsiasi norma dell’ordinamento, mentre l’ordine dell’autorità è una disposizione che un soggetto sovraordinato impartisce ad un soggetto subordinato gerarchicamente, qualora tra questi soggetti intercorra un rapporto gerarchico di diritto pubblico. In particolar modo è bene chiarire il secondo aspetto citato, cioè l’operatività della scriminante nel caso in cui il fatto tipico sia compiuto nell’adempimento di un ordine. La non punibilità non è subordinata all’emanazione di un qualsiasi ordine, bensì di un ordine legittimo. Se l’ordine è legittimo, nessuno dei soggetti (quello sovraordinato e quello subordinato) risponderà del fatto tipico. Cosa significa legittimo? La legittimità deve essere formale e sostanziale: quella formale consiste nella competenza del sovraordinato ad impartire l’ordine, nella competenza del subordinato a recepire ed eseguire, e nel rispetto delle forme e delle procedure per l’emanazione dell’ordine in quanto atto; quella sostanziale concerne il merito, cioè la possibilità concreta che il soggetto chiamato ad agire, cioè il subordinato, compia quell’attività. Quindi si tratta di comprendere se sono stati rispettati i presupposti normativi per richiedere il compimento dell’atto.
Se, al contrario, l’ordine è illegittimo, risponde del fatto illecito chi ha impartito l’ordine e chi lo ha eseguito, con delle eccezioni. Non è comunque punibile l’esecutore in due casi:
1) se, per errore di fatto, si è immaginato di adempiere un ordine legittimo;
2) se l’ordine è in concreto insindacabile.
Appare evidente che nel caso numero 1, la punibilità è esclusa dall’art. 47 del codice penale. Il caso numero 2, invece, rappresenta una scusante, cioè una causa di esclusione della colpevolezza, perché ci si può chiaramente immaginare che un soggetto che nulla può contro l’ordine non può opporvisi, e quindi non è rimproverabile se commette il fatto tipico nell’adempimento dell’ordine stesso. Vi è, però, di più. L’insindacabilità non è sempre presente. La legittimità formale (rectius: l’illegittimità formale) è sempre sindacabile (competenze dei due soggetti ad emanare e ricevere, e rispetto di forme e procedure), e la manifesta criminosità dell’ordine lo rende, allo stesso modo, sempre sindacabile. La manifesta criminosità si evince dalla palese insussistenza di ragioni giustificatrici il compimento del fatto tipico, o nella palese sproporzione dell’azione ordinata rispetto ai presupposti esistenti, i quali giustificherebbero una condotta molto meno lesiva. Esempio: durante una manifestazione in cui i rivoltosi potrebbero essere “domati” tramite lacrimogeni, il soggetto sovraordinato richiedere di sparare all’impazzata sulla folla.

Ci si chiede, poi, quale sia il valore del contrordine e del secondo ordine contrastante emanato da ente diverso. Il contrordine altro non è che un ordine inverso emanato dallo stesso soggetto che in precedenza aveva emanato l’ordine. Vale quindi come revoca del primo ordine. Nel secondo caso, cioè dell’ordine contrastante di soggetto diverso, dovrebbe essere rimesso potere valutativo in capo al soggetto che dovrebbe adempiere, rilevando, per ciò, la legge, dalla quale ci si aspetta la risoluzione dei contrasti operativi e di competenze di soggetti diversi. Nel caso, quindi, di norme di difficile “traduzione” dovrebbe potersi considerare l’applicazione dell’art. 5 nel suo spirito di favor rei, di cui è intrisa la sentenza 364/88.


LA LEGITTIMA DIFESA (art. 52 cod. pen.)

La legittima difesa è una scriminante che si fonda sul riconoscimento di un residuo di autotutela in capo ai consociati qualora non sia possibile l’intervento tempestivo dell’Autorità. Detto in altri termini, l’ordinamento giuridico è cosciente del fatto che i mezzi dell’Autorità pubblica non possono sempre risultare idonei e prontamente operativi per scongiurare i danni alle persone e, di conseguenza, ammette che un soggetto possa, esistendo i presupposti di legge (art. 52 c.p.) difendersi da solo, arrecando ovviamente un danno al soggetto “frontista”, cioè all’aggressore.  
Passando alla struttura della norma, possiamo notare più elementi che fondano i presupposti della non punibilità: l’essere stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempreché la difesa sia proporzionata all’offesa.
La costrizione, a ben vedere, non è un elemento strutturale vero e proprio, ma semplicemente segna la situazione di impellente urgenza che si crea dalla “somma” dei concetti di “necessità” e “pericolo attuale”. Il pericolo attuale deve essere un pericolo imminente, cioè non passato né futuro. Se fosse passato, verrebbe meno la necessità di difendersi. Se fosse futuro, sarebbe possibile l’intervento dell’Autorità. Se il pericolo è attuale, deve però altresì concernere un’offesa ingiusta, per essere rilevante per l’articolo 52. Un’offesa è una condotta altrui che è idonea a generare un danno concreto per un bene giuridico o una situazione giuridica soggettiva di pertinenza di un soggetto. L’offesa deve essere ingiusta, cioè contra ius, ovvero non deve essere facoltizzata o autorizzata dall’ordinamento giuridico. Il diritto deve essere proprio o altrui, e ciò significa che il fatto tipico può essere compiuto in ausilio di soggetti terzi (es. il passante che aiuta la ragazza preda di un tentato stupro) e non solo per preservare se stessi. Diritto vuol dire interesse tutelato dall’ordinamento e può sia riferirsi all’integrità fisica, sia ad altri diritti come quelli della personalità. La reazione è normalmente rivolta verso una persona ma, nel caso in cui il pericolo di essere offesi si origini da cose o animali su cui debba vigilare una persona, essa potrà rivolgersi indistintamente contro l’animale, contro la cosa, o contro la persona che ha l’obbligo di controllo e custodia.
Il pericolo di cui si è appena discusso deve creare la necessità di difendersi attraverso la reazione. Ciò vuol dire che la situazione che il soggetto deve vivere lo deve porre dinanzi ad un bivio: reagire o vedere il proprio diritto offeso. Questo vuol dire il concetto di necessità, cioè in primo luogo l’inevitabilità della reazione se non a costo di sacrificare il proprio diritto. In secondo luogo, accanto alla inevitabilità della reazione, deve porsi l’insostituibilità della condotta tenuta con una meno lesiva del bene giuridico dell’offensore. Ciò vuol dire che quando verrà valutata giudizialmente la possibilità concreta per il soggetto che si è difeso di utilizzare una condotta meno lesiva di quella attuata, e comunque idonea a preservare il proprio diritto dall’altrui offesa, la punibilità non sarà esclusa.
La proporzione tra difesa e offesa, invece, è stato un elemento controverso per lungo tempo. La prima tesi che veniva seguita era quella della proporzione tra mezzi utilizzati nelle condotte reciproche. Come a dire che all’aggressore che tentasse di offendere l’altrui incolumità fisica a mani nude, non potesse essere opposta una difesa con coltello (quindi, applicando letteralmente il principio, se un uomo pugile professionista aggredisse una donna esile in una strada e questa reagisse utilizzando un bastone trovato per strada, vi dovrebbe essere l’eccesso di legittima difesa e la donna sarebbe condannata, stanti i presupposti concernenti l’evento cagionato, per lesioni colpose). Per evitare applicazioni dell’art. 52 inidonee a garantire la menzionata autotutela, si è preferita la successiva tesi della proporzione tra beni giuridici posti in pericolo: se il soggetto aggressore, con la sua condotta, a prescindere dai mezzi usati, attentasse alla mia vita, io potrei reagire offendendo il suo bene-vita.
Ci si interrogava, oltretutto, se il soggetto in pericolo fosse tenuto a darsi alla fuga quando possibile. Originariamente si diceva che la fuga fosse richiedibile solo nel caso di commodus discessus, cioè di occasione in cui la fuga non fosse idonea a mettere a repentaglio l’onore della persona che fosse scappata, facendola apparire come vile. Ciò vuol dire che il soggetto era tenuto a darsi alla fuga nel momento in cui questa non lo squalificasse a livello di reputazione acquisita socialmente. Attualmente, invece, la dote cavalleresca e l’aspettativa legata allo sterile onere sociale di apparire impavidi sono cadute nel dimenticatoio, ricollegando l’eventuale dovere di darsi alla fuga alle circostanze del caso concreto: è preferibile la fuga quando possibile date le circostanze fattuali, e soprattutto quando il soggetto, con la fuga non espone beni giuridici propri o altrui a pericolo. Riguardo, invece, all’applicabilità dell’art. 52 nel caso in cui il soggetto reagisca nei confronti di una persona in fuga che abbia già causato il danno, in questo caso la causa di giustificazione non si applicherà, poiché verrà reputata mancante proprio l’inevitabilità dell’azione lesiva (il pericolo non è più attuale ma oramai passato e quindi non esiste la necessità di difendersi. Di conseguenza esisterà l’evitabilità del compimento del fatto tipico).

Una ulteriore disputa è nata relativamente alla legittima difesa c.d. domiciliare, cioè quella prevista dallo stesso articolo, comma II. La norma dice che il rapporto di proporzione richiesto dal comma I, esiste ed è presunto nel caso in cui un soggetto legittimamente presente in un luogo di privata dimora (casa, ufficio, negozio) usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo, contro un soggetto illegittimamente presente nel medesimo luogo. L’arma deve essere usata per difendere l’incolumità propria o altrui o i beni propri o altrui quando non vi è desistenza ma vi è pericolo di aggressione. Innanzitutto qual è l’effetto della presunzione appena citata? E’ quella di onerare la pubblica accusa della prova della sproporzione nel caso di processo contro il soggetto che ha usato l’arma citata. Ciò perché l’esistenza delle cause di giustificazione deve normalmente essere provata dall’imputato. Presumendo il rapporto di proporzione, invece, la legittima difesa opererà ipso iure e quindi sarà il pubblico ministero che dovrà dimostrare la sproporzione qualora intenda accusare il soggetto stesso di eccesso di legittima difesa. Nulla quaestio riguardo all’operatività del principio quando si tratta di difendere l’incolumità propria o altrui. Era sorto un interrogativo per quanto invece concerne la necessità di difendere i beni propri o altrui, di cui al numero 2 del comma II. Il problema nasce dalla dicitura “quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Come si fa a valutare la non-desistenza? Bisogna che il soggetto che intenda usare l’arma intimi all’altro di desistere (ad es. con la nota frase da film poliziesco “Fermo o sparo!”)? Basta usare un po’ di buon senso per dare una veloce risposta negativa. L’assenza di desistenza si dovrà valutare attraverso la presenza di una situazione di imminente pericolo derivante dal fatto che l’azione criminosa, per qualsiasi ragione (ad es. perché il ladro o rapinatore presente nel domicilio non abbia trovato beni sufficienti per soddisfarlo, o abbia ricevuto risposta negativa alla richiesta di consegnargli dei preziosi) appaia come proiettata verso la sfera fisica delle persone legittimamente presenti nel luogo. 

In ultima analisi, ci si può chiedere se la legittima difesa domiciliare sia una vera e propria causa di giustificazione o può essere altro. Chi scrive è d’accordo con quella parte della dottrina che inserisce il comma II dell’art. 52 cod. pen. nell’ambito delle scusanti (cioè cause di esclusione della colpevolezza), in quanto il legislatore non ha presunto il rapporto di proporzione per la difficoltà di dimostrare probatoriamente le vicende svoltesi in luoghi riservati, ma perché colloca in capo al soggetto che reagisce una non rimproverabilità, derivante dal fatto di essere stati colti impreparati e alla sprovvista dal criminale. L’ordinamento sta sostanzialmente dicendo che nella maggior parte dei casi (qualora non si voglia far riferimento al 100% dei casi) in cui avvengono aggressioni nei domicili lo stato mentale che il titolare del luogo assume nell’immediatezza dà origine ad un’assenza di freddezza e ad un timore fondato per la propria vita e per quella dei propri cari. Di conseguenza li si protegge normativamente con una presunzione di non rimproverabilità, in modo da sottrarre alle loro incombenze processuali l’onere della prova dell’esistenza della scriminante, collocando suddetto onere in capo al pubblico ministero.

STATO DI NECESSITA’ (art. 54 cod. pen.)

Lo stato di necessità è disciplinato dall’art. 54 del codice e dispone che non è punibile “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
La differenza principale tra lo stato di necessità e la legittima difesa è che in quest’ultima il fatto tipico è commesso nei confronti del soggetto dal quale promana il pericolo, mentre nello stato di necessità il fatto tipico è commesso contro un soggetto estraneo, terzo, non colpevole di azioni illecite o dannose. Questo giustifica, tra l’altro, l’indennizzo equo che è normalmente accordato al soggetto leso.
Anche nello stato di necessità è prevista l’esistenza di un pericolo attuale, che vuol dire “incombente”, “imminente”. Il pericolo deve condensarsi in una situazione che, se non fronteggiata, comporterà con alta probabilità un danno grave alla persona. Originariamente si reputavano inseriti nell’alveo del concetto di danno solo i danni alla fisicità e alla salute (integrità fisica, incolumità, vita). Successivamente l’evoluzione giurisprudenziale ha coinvolto anche i diritti della personalità. La costrizione, così come nell’ambito della legittima difesa, deve sorgere dalla situazione di aut aut che il soggetto è chiamato a fronteggiare: o compiere il fatto tipico, o soccombere nel senso di tollerare l’inflizione del danno su di sé o su altri. Il pericolo non deve essere causato volontariamente. Questa frase sembra di facile interpretazione, ma cela una questione, e cioè se gli antecedenti del pericolo possano essere addossati a titolo di colpa o dolo al soggetto stesso, qualora siano derivati da suoi comportamenti colpevoli. La risposta affermativa causerebbe la disapplicazione dello stato di necessità qualora questi comportamenti antecedenti colpevoli abbiano condotto eziologicamente alla situazione di pericolo. Si ritiene che, in omaggio al principio di legalità, debba essere il pericolo a non essere stato cagionato volontariamente, mentre lo stato di necessità non sarà escluso nel caso in cui il soggetto, colpevolmente, abbia dato vita ai lontani antecedenti della situazione di pericolo. L’inevitabilità è il presupposto della costrizione e quindi ne condivide il contenuto. Inevitabile sarà il pericolo imminente non fronteggiabile con mezzi meno lesivi di quelli adottati per compiere il fatto tipico.
La dottrina moderna traduce, invece, il concetto di proporzione tra fatto e pericolo nel modo che segue: la proporzione dovrà atteggiarsi come possibile bilanciamento tra bene giuridico leso e entità del pericolo. In altre parole, più è alto il bene giuridico leso, più deve essere elevata l’entità del pericolo corso dal bene giuridico protetto, in modo da bilanciarlo. 

Per quanto riguarda l’applicabilità dello stato di necessità ai casi in cui il soggetto agente agisca a causa di uno stato di bisogno economico, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata contraria ad essa, poiché ritiene che ogni persona può usufruire dei mezzi di assistenza sociale e dell’apparato di sussidi e benefici approntato dallo Stato e dagli enti pubblici. Lo stesso ragionamento era effettuato per quanto concerne l’applicazione dell’art. 54 a chi avesse occupato alloggi popolari per tutelare il proprio diritto all’abitazione. Attualmente sembra prendere corpo un’impostazione diversa, legata al vaglio del caso concreto, in quanto bisognerebbe sempre valutare, nel primo caso (bisogno economico) i tempi della burocrazia italiana, e nel secondo caso (occupazione dell’alloggio) la tutelabilità del diritto all’abitazione come diritto primario, specialmente nei casi in cui dalla mancanza di un alloggio possa derivare un danno incombente alla persona (ci si immagini, ad esempio, una famiglia con bambini piccoli che occupa un alloggio popolare durante una serata di inverno con temperatura di molto sotto lo zero).
Ci si interrogava, infine, sulla possibilità di avere un c.d. soccorso di necessità, cioè un fatto tipico compiuto per soccorrere un terzo che sarebbe altrimenti andato incontro al danno alla sua persona. La disputa è stata risolta nel senso che il soccorso di necessità rientrerà nell’ambito di applicazione dell’art. 54 c.p. nel caso in cui tra il soccorritore e il soccorso vi sia un legame famigliare, parafamigliare o, in generale, affettivo.

Il soggetto che è tenuto per un obbligo giuridico a sottoporsi al pericolo non può vedersi riconosciuta l’operatività dello stato di necessità (comma II, art. 54 cod. pen.). Ma si ritiene che sia proprio l’eventuale soccorso di necessità compiuto da questo soggetto, che possa far ritenere applicabile la causa di giustificazione. Il soggetto, infatti, compierebbe il fatto tipico non per salvaguardare se stesso bensì per salvare altri, e questo è reputato meritevole di attenzione da parte dell’ordinamento.

L’ultimo comma dell’articolo 54 dispone che la scriminante sarà applicabile anche a chi compie il fatto tipico sotto minaccia altrui. E risponderà del reato commesso il soggetto che ha minacciato. Si è in presenza di uno dei vari casi di autore mediato (gli altri sono il caso di costringimento fisico e di reato compiuto per errore determinato dall’altrui inganno). Per rendere applicabile effettivamente lo stato di necessità, la minaccia deve avere nel caso concreto caratteristiche intrinseche tali da rendere visibili i presupposti dell’art. 54. Essi saranno presenti quando il soggetto è stato posto in uno stato di coercizione psichica assoluta (il soggetto non agit sed agitur) che gli ha fatto compiere il gesto previsto e punito dalla legge come reato poiché, se non avesse compiuto quel fatto tipico, il soggetto minacciante avrebbe arrecato un danno a lui o ai suoi cari.

Importante poi, e qui concludiamo il discorso sull’art. 54, è capire se questa norma concretizza una vera scriminante o può rappresentare altro. Dottrina dominante ritiene che alla base della non punibilità non vi sia il venir meno dell’antigiuridicità ma una vera e propria scusabilità (non rimproverabilità) del soggetto che agisce. Sarebbe, cioè, non esigibile un comportamento difforme da quello in concreto tenuto (chiunque, nei panni dell’agente, avrebbe agito allo stesso modo). Lo stato di necessità altro non sarebbe, in tal senso, che una scusante, cioè una causa di esclusione della colpevolezza.



USO LEGITTIMO DELLE ARMI (art. 53 cod. pen.)

Ferma restando l’applicabilità degli articoli precedenti (51 e 52), il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, utilizza o ordina ad altri di utilizzare armi o altri strumenti di coazione fisica, perché costretto dalla necessità di fronteggiare una violenza o una resistenza, o di evitare i delitti elencati dalla norma, non è punibile.

Gli elementi della costrizione e della necessità godono dello stesso contenuto di quelli relativi alla legittima difesa, a cui si rimanda.

La violenza deve essere un’attività di coercizione fisica che un soggetto pone in essere nei confronti del pubblico ufficiale, mentre la resistenza deve essere un ostacolo posto da un soggetto all’attività del pubblico ufficiale finalizzata al compimento del dovere legato all’ufficio. In generale, conserva la stessa caratteristica anche la violenza al pubblico ufficiale. In altre parole, violenza e resistenza devono essere atteggiamenti assolutamente non pacifici che si frappongono tra il pubblico ufficiale e l’adempimento di un suo dovere.
La resistenza giustifica l’uso delle armi solo quando è una resistenza attiva, cioè una resistenza che si proietta verso la corporeità del pubblico ufficiale o attenti ad altri beni giuridici, e non quando è passiva, cioè quando pur frapponendo un ostacolo tra questi e il suo ufficio, non costituisca un pericolo, né per l’incolumità del p.u. né per l’incolumità altrui.
La fuga dei soggetti diversi dal pubblico ufficiale rende sempre evitabile l’uso delle armi da parte di quest’ultimo, alla pari di quanto accade nella legittima difesa. Il concetto di insostituibilità dell’azione intrapresa con altra meno lesiva è comune alle due cause di giustificazione (artt. 52 e 53), perciò si ritiene inutile in questa sede dilungarsi su di esso e si rimanda a quanto detto per la legittima difesa.

1 commento:

  1. al di là del rispetto per il curriculum, complimenti sinceri per il blog, è sempre spunto di approfondimento e riflessione, almeno per un modesto praticante come me.
    Continua così
    Max

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