Appunti di diritto penale
di Filippo Lombardi
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1.
Conflitto tra la responsabilità oggettiva e i principi costituzionali.
La
responsabilità oggettiva è prevista a livello normativo nell’articolo 42 comma
III del codice penale, laddove tale norma dispone che la legge determina i casi
in cui l’evento è posto a carico del soggetto agente “altrimenti”, cioè a prescindere dalla sussistenza dell’elemento
soggettivo del reato, e sulla base del mero nesso di causalità. Per tale
principio una persona può essere condannata alla fine di un processo penale
sulla base del fatto che l’evento sia una conseguenza della sua azione od
omissione, senza che rilevi il legame psichico tra soggetto e fatto. Secondo la
dottrina la responsabilità oggettiva trova la sua ragion d’essere nel fatto che
l’ordinamento abbia interesse a che determinati eventi non si verifichino. Tale
necessità, reputata meritevole dall’ordinamento giuridico, non appare
certamente in linea con alcune norme costituzionali, tanto da aver portato nel
tempo (memorabile e fondamentale la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale) ad una rivisitazione di
tutte, o quasi, le norme che comportano tale tipo di responsabilità. E ciò
perché l’imputazione della responsabilità obbiettiva ostacola il funzionamento
di due principi rilevanti a livello costituzionale, quali il diritto alla
libertà personale (art. 13) e il principio di colpevolezza (di cui all’articolo
27). E’ chiaro sin dal principio come una responsabilità di tipo obbiettivo
possa compromettere la libera autodeterminazione delle persone in quanto, dal
momento in cui Tizio sa che può essere punito se la sua condotta può causare un
evento non tollerato dall’ordinamento, al di là di una sua volontà di causarlo
o di una sua imprudenza o negligenza, sarà molto più propenso a non tenere
quella condotta. Risulterebbe, in tal modo, che l’ordinamento penale vada ad
influire sulle azioni umane e sulla capacità di autodeterminarsi delle persone,
con palese restringimento della garanzia connessa ad un valore assoluto come la
libertà.
Ancora
più problematico il rapporto tra la responsabilità oggettiva e l’articolo 27
Cost. Come si ebbe già modo di notare quando parlavamo della colpevolezza,
l’articolo 27 Cost. presenta al comma I un principio degno di attenzione: la responsabilità penale è personale. Questo
principio fu valutato secondo varie accezioni: 1) non esiste responsabilità per
fatto altrui, salvo il caso in cui vi siano posizioni di garanzia per cui un
soggetto ha l’obbligo giuridico di evitare il fatto illecito di terzi; 2) la
responsabilità penale è della persona fisica e non dell’ente, questo qualora si
accetti la natura amministrativa della responsabilità delle persone giuridiche
disciplinata dal d.lgs. 231/2001; 3) la responsabilità penale è per fatto
proprio. Tale ultima accezione faceva risultare costituzionalmente legittimo
l’imputazione obbiettiva dell’evento, in quanto era sufficiente che l’evento
appartenesse obbiettivamente all’agente, cioè fosse una conseguenza esteriore
della sua azione od omissione. Reputare l’accezione predetta degna di
considerazione in senso positivo è certamente fuorviante, poiché non si tiene
in considerazione non solo il conflitto che essa comporta con l’articolo 13
Cost. prima citato, ma anche e soprattutto quello con il comma II del medesimo
articolo, che dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. La
disapplicazione di questo principio costituzionale è lampante laddove si
consideri che un soggetto non legato psichicamente all’evento causato non
comprenderà il trattamento sanzionatorio, poiché egli giustificherà la reazione
dell’ordinamento solamente qualora abbia voluto l’evento lesivo o l’abbia
causato con un comportamento comunque avvertito come biasimevole. La mancata
accettazione dell’evento genera la percezione della pena come irragionevole ed
ingiusta e paralizza la finalità rieducativa per il semplice motivo che il reo
non si sottoporrà a tale trattamento, stante il fatto che egli si sentirà
incolpevole rispetto all’accaduto.
2. La sentenza della
Consulta n. 364 del 1988.
Le
motivazioni illustrate nel precedente paragrafo hanno orientato la Corte
Costituzionale a intervenire su una delle tante ipotesi di responsabilità
oggettiva che, prima dell’emanazione della sentenza stessa, esistevano
nell’ordinamento, cioè l’articolo 5 del codice penale. Si badi al fatto che
tali ipotesi, di cui pure si discuterà, siano rimaste invariate nel loro tenore
letterale (salvo casi rari) ma debbano essere rilette alla luce dei principi sanciti dal Giudice delle Leggi e ad
essi adeguate. L’articolo 5 del codice penale dispone che l’ignoranza della
legge penale non scusa, e quindi non è di per sé sufficiente ad escludere
la punibilità. Questa norma si fonda su una presunzione di conoscenza da parte
del consociato, delle norme penali, e quindi esclude che la persona possa
liberarsi dalle accuse indicando che non conosceva la norma incriminatrice
della cui violazione è accusata. La Corte Costituzionale, con la sentenza di
cui all’oggetto, ha indicato che ogni forma di presunzione utilizzata
dall’ordinamento integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva che, in quanto
tale, contrasta con i principi costituzionali prima elencati. E contrasta
soprattutto con il principio di cui al primo comma dell’articolo 27 Cost., che
non può essere solo letto come responsabilità per fatto proprio ma anche come
responsabilità per fatto colpevole. Ciò significa che per rimproverare
effettivamente una persona c’è bisogno che quest’ultima non abbia fatto nulla
di concreto e valido per conoscere la norma penale, e abbia perciò tenuto la
condotta illecita. Nel momento in cui un soggetto fa tutto quanto è nelle
proprie possibilità per conoscere dell’eventuale illiceità di un proprio
potenziale comportamento, e nonostante ciò rimane nello stato di ignoranza,
egli non è rimproverabile in concreto, perché ha adempiuto con diligenza all’unico
obbligo concernente il rapporto tra persona e norma giuridica, cioè il dovere di informarsi. La Corte
enuclea anche situazioni e cause tipiche che potrebbero causare il perseverare
dello stato di ignoranza. Esse sono l’oscurità
della norma giuridica, i revirements giurisprudenziali, le informazioni errate
da parte di organi, enti, istituzioni e soggetti pubblici specificamente
competenti nei settori che riguardano l’ambito di applicazione della norma,
eventuali passate sentenze di assoluzione ricevute dal soggetto agente in casi
apparentemente analoghi. Vi è da aggiungere che lo stato di dubbio sulla
illiceità non consente mai la scusabilità del comportamento illecito, in quanto
il soggetto accetta comunque il rischio che il suo comportamento possa costituire
reato. Inoltre, ai fini della scusabilità, verranno valutate anche le
condizioni soggettive della persona, come le esperienze di vita, la
professione, l’età, il grado di intelligenza, il grado di integrazione o di
emarginazione sociale. Proprio perché si tratta di giudicare la scusabilità di
un comportamento in base alla diligenza riposta dalla persona, l’articolo 5
così come modificato dalla sentenza additiva della Corte sarà da inserire tra
le scusanti legalmente riconosciute. In breve, quando risulta che la persona, valutata come singolo individuo dotato
di proprie caratteristiche soggettive, abbia adempiuto con diligenza
all’obbligo di informarsi e, nonostante ciò, sia rimasta nello stato di
ignoranza senza nemmeno sfiorare lo stato di dubbio, in maniera incolpevole e
assolutamente non rimproverabile, non sarà punibile per il reato
inconsapevolmente compiuto.
La
sentenza in questione trascende l’ambito di riferimento
di cui si è discusso finora, ovvero quello legato alla singola scusante, e
tocca un ambito più esteso quale è quello della sussistenza delle ipotesi di
responsabilità oggettiva nell’ordinamento. La Corte Costituzionale ci dice che
l’elemento soggettivo è imprescindibile, cioè che per la punibilità di un
soggetto non è sufficiente il mero nesso di causalità, bensì la condotta dovrà
lasciar trasparire il legame psichico tra soggetto ed evento. Più precisamente
la Consulta indica come gli elementi che
generano o accrescono l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma
incriminatrice devono essere sostenuti almeno dalla colpa. Questo principio
ha delle ripercussioni enormi nell’intero ordinamento penale perché si traduce
nell’esigenza di rivedere tutte le
ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nella legge penale alla luce del
principio di colpevolezza, ed esigere che il soggetto si trovi almeno in colpa
rispetto all’evento. Ogni qualvolta si leggeranno norme nelle quali il
legislatore ha omesso la considerazione per l’elemento soggettivo, il tenore
letterale della norma dovrà subire un’aggiunta del tipo “quando alla condotta del soggetto consegua l’evento X il soggetto sarà
punito se l’evento era da lui in
concreto prevedibile”. Il concetto di prevedibilità in concreto ci
aiuta a leggere tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva abbinando alle
stesse l’elemento soggettivo della colpa, questo in quanto la colpa si fonda
proprio sulla previsione/prevedibilità dell’evento come conseguenza della
propria condotta.
3. Le singole ipotesi
di responsabilità oggettiva presenti nell’ordinamento penale.
il delitto
preterintenzionale
In
base all’articolo 43 c.p., il delitto è preterintenzionale o oltre l’intenzione
quando l’evento dannoso o pericoloso è più grave di quello voluto dall’agente
come conseguenza della propria azione od omissione. Esistono due tipi di
delitto preterintenzionale nel nostro ordinamento penale, e cioè l’omicidio
preterintenzionale e l’aborto preterintenzionale. Entrambi i delitti citati si
fondano su una base comune. Si può dire infatti che è punito il soggetto che,
compiendo atti diretti a ledere o percuotere, causa la morte del soggetto
passivo o del feto. Ci si interroga sulla natura dell’elemento soggettivo. Una
parte della dottrina ritiene che si debba sdoppiare tale elemento soggettivo in
due frangenti, di cui uno che sostiene la condotta voluta (compimento di atti
diretti a ledere o percuotere) e uno che contempla il momento successivo, e
cioè l’evento più grave verificatosi in concreto. Il primo frangente sarebbe
coperto dal dolo mentre il secondo (l’evento) sarebbe addossato obbiettivamente
in base al mero nesso di causalità, cioè in base al mero essere conseguenza
della condotta dell’agente. Altra parte della dottrina (FIORE) ritiene invece
che si debbano prendere in considerazione sempre i due momenti citati ma,
mentre il primo è coperto dal dolo, il secondo sarebbe coperto dalla colpa. Su
questa seconda tesi bisogna spendere qualche altra parola, poiché la colpa, per
sua natura, si fonda sulla violazione di una regola di diligenza, e ci si
chiede nel caso concreto quale sia la norma precauzionale violata. V’è chi dice
che la norma di diligenza sia da rintracciare nelle stesse norme incriminatrici
dei reati di percosse e lesioni. Autori più attenti (FIANDACA) ritengono che
accettando tale tesi si cadrebbe nel paradosso di accettare che le norme
incriminatrici nello stesso tempo incriminino una condotta e la autorizzino a
patto che il soggetto agente, in maniera diligente nel compiere il reato, non
vada oltre quella fattispecie e non sfoci in un evento più grave di quello
contenuto nei limiti entro i quali si verificherebbero le fattispecie meno
gravi ( “Non commettere i reati di percosse
o lesioni, ma se decidi di farlo fallo bene!”). Altra dottrina autorevole
ritiene che vi sia un errore di fondo nella bipartizione dei momenti, in quanto
pare che sulla base di tale bipartizione debba concludersi che vi siano due
azioni: una compiuta al fine di percuotere o ledere, e l’altra in concreto
compiuta che causa l’evento più grave. In realtà l’azione è unica ed è
un’azione che dalle modalità e caratteristiche esteriori deve rivelare
l’intenzione dell’autore di realizzare uno dei due reati-base, senza che si
richieda peraltro che tale intenzione si estrinsechi attraverso un tentativo, in quanto nelle norme
relative ai delitti preterintenzionali non si riscontra il requisito
dell’idoneità, che invece sussiste nell’articolo 56 sul tentativo. L’evento più
grave sarà addebitabile al soggetto agente qualora venga verificato che egli ha
previsto o poteva prevedere tale esito sulla base delle caratteristiche e
modalità dell’azione nonché sulla base delle condizioni del soggetto passivo.
Ecco che quindi, volendo reputare meritevole di considerazione la tesi della
bipartizione della condotta in due segmenti, è proprio la seconda tesi
descritta a valere, cioè quella dell’unione di dolo e colpa (rectius, dolo e prevedibilità in
concreto). Se si fa valere la tesi dell’unicità della condotta, che è quella
più attinente alla realtà materiale del fatto, può condividersi invece il
pensiero di chi reputa il delitto preterintenzionale un’ipotesi di aberractio delicti dello stesso genere.
Nell’aberractio delicti l’agente per
errore nell’esecuzione del reato voluto, o per altra causa, cagiona un evento
diverso da quello voluto, che verrà allo stesso addebitato a titolo di colpa
(che originariamente veniva letto come una responsabilità oggettiva, mentre ora
la colpa verrà valutata sempre secondo il criterio della prevedibilità in
concreto). Nel caso del delitto preterintenzionale può dirsi che vi sono gli
stessi elementi: 1) una condotta finalizzata ad un reato, 2) un evento diverso,
3) un errore colposo nell’esecuzione o altra
causa sempre di natura colposa, che abbia causato tale evento. A tali
elementi è da aggiungere un carattere che non è presente nell’aberractio, e cioè sia il reato-base a
cui puntava l’agente, sia la lesione finale (più grave) concretamente accaduta
sono dello stesso genus, cioè
offendono un bene giuridico attinente l’incolumità personale.
responsabilità
del direttore e del vice-direttore per reati commessi a mezzo stampa
Prima
dell’intervento della legge 127/58, l’articolo 57 del codice penale disponeva
che, qualora un reato fosse stato commesso a mezzo stampa (si immagini una
diffamazione), ed evidentemente fatta salva la responsabilità dell’autore
diretto dell’articolo, il direttore o il vice-direttore “per ciò solo” sarebbero stati ritenuti responsabili dell’accaduto
in concorso con l’autore stesso. Si trattava quindi di un’ipotesi di
responsabilità oggettiva, addossata solo per il fatto che fosse accaduto
l’evento fatto illecito
dell’articolista. Dopo la suddetta novella del 1958 la norma è stata
modificata, prescrivendo la responsabilità a titolo di colpa di tali soggetti
apicali solo in caso di omissione di controllo sull’altrui operato. Superate le
obiezioni di parte della dottrina che riteneva che non fosse stata superata la
responsabilità oggettiva a causa dell’inciso “a titolo di colpa” (che evidentemente veniva letto alla pari di “come se il reato fosse colposo”),
attualmente bisogna ritenere che la colpa vada accertata in concreto come culpa in vigilando, e che il reato
ascritto alle suddette persone debba essere inquadrato nella tipologia del
concorso omissivo colposo in reato commissivo (normalmente) doloso, almeno
nella forma del dolo eventuale. Il controllo richiesto è un controllo sulla credibilità
e attendibilità delle fonti usate dall’articolista, senza che possa tradursi in
un controllo nella verità della notizia o in una supervisione durante
l’attività di scrittura dell’articolo. La rimproverabilità del direttore (o del
vice-direttore) sarà via via più tenue quanto più è complessa la struttura
organizzativa dell’azienda giornalistica, poiché la difficoltà nel controllo
sull’altrui operato diverrebbe eccessivamente capillare.
i reati aggravati
dall’evento
Molto
spesso nel codice penale vengono incriminate determinate condotte, e viene
irrogata una pena superiore nel caso in cui, da quella condotta già ab origine punita, derivi un evento
ulteriore. E’ il caso del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli,
art. 572 cod. pen., che viene punito con la reclusione da uno a cinque anni, ma
se si verificano lesioni o la morte del soggetto maltrattato la pena aumenta
nel minimo e nel massimo fino a raggiungere i 20 anni (in caso di morte,
appunto). Anche tali ipotesi normative erano inserite nell’ambito della
responsabilità oggettiva, presentando ora la necessità di essere adeguate al
parametro della colpevolezza, che come abbiamo detto richiede che ogni elemento
che costituisce o aggrava l’offesa a beni giuridici del soggetto passivo deve
essere coperto almeno dalla colpa. Ineludibile, quindi, il ricorso al principio
della prevedibilità, già più volte citato in questi paragrafi. Il soggetto
agente, volendo rapportarci all’esempio prima fatto, verrà ritenuto
responsabile per la lesione o la morte solo quando fosse in concreto
prevedibile che la condotta base avrebbe potuto aggravarsi raggiungendo tale
stadio ulteriore.
morte o lesioni come
conseguenza di altro delitto (art. 586 cod. pen.)
“Quando da un fatto
preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal
colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni
dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono
aumentate”.
Su
questa norma ci sono alcune considerazioni da fare. L’articolo si applica
quando la morte o le lesioni sono conseguenze di un altro delitto che si è
perfezionato. Ciò significa che il soggetto agente commette un delitto per il
quale egli risulterà già di per sé punibile. Da questo delitto discende come
effetto la morte (cessazione
irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo) o la lesione (qualsiasi menomazione funzionale
dell’organismo che trascende i meri mutamenti anatomici). La norma
definisce la conseguenza “non voluta”,
ma non è questo a farci propendere per la responsabilità oggettiva. L’essere
non voluta la conseguenza, significa solo che la morte o la lesione non devono
essere dolose, altrimenti si applicheranno le norme di omicidio doloso e lesioni
dolose. Inoltre l’art. 586 dispone che si applichino le regole
dell’articolo 83. L’articolo 83 ci dice che, nel caso in cui un soggetto per
errore nell’esecuzione del reato o per altra causa generi un evento difforme da
quello voluto, sarà punito a titolo di colpa. Il problema, prima della sentenza
del 1988 della Corte Costituzionale era tutto qui, e consisteva nel fatto che
l’inciso “a titolo di colpa” era da
intendersi come “come se fosse colposo”.
Quindi, poiché l’articolo 83 forniva una fattispecie di responsabilità
oggettiva ed integrava l’articolo 586, rendeva anche quest’ultimo un’ipotesi di
responsabilità oggettiva. Attualmente questo problema è risolto, dovendosi
effettivamente verificare la colpa come previsione/prevedibilità
in concreto dell’evento difforme. Cercando di mettere ordine in quanto dice
l’articolo 586, si può giungere a queste conclusioni. La norma è applicabile
quando un soggetto agente commette un delitto e ha in concreto previsto (o
poteva prevedere) che da quel delitto sarebbe scaturita come conseguenza la
morte o la lesione. Allo stesso tempo il soggetto agente non deve aver voluto
tali eventi ulteriori, altrimenti sarà punito a titolo di omicidio doloso o
lesioni dolose. Stanti i presupposti appena citati, l’agente sarà punito
secondo le regole del concorso formale tra reato-base e omicidio colposo o
lesioni colpose, le cui pene (quelle dell’omicidio colposo e delle lesioni
colpose) saranno aumentate fino ad un terzo.
I
due casi più rilevanti di applicazione dell’articolo di cui all’oggetto sono
quelli del suicidio a seguito di un delitto (ad esempio le violenze sessuali
ripetute, lo stalking, le molestie,
le estorsioni, ecc) e quello della morte del consumatore dopo l’acquisto della
dose personale di stupefacente ed il suo utilizzo. Nel primo caso, la
Cassazione penale ha stabilito che l’evento morte potrà essere addossato
all’autore del reato-base quando per le
modalità della condotta ad esso relative, per le condizioni socio-economiche, e
per quelle personali e psichiche del soggetto passivo era in concreto
prevedibile che l’azione criminosa fosse idonea a porre la vittima dinanzi alla
drammatica scelta tra un’esistenza intollerabile e il suicidio. Nel caso
della morte del consumatore, prima citato, deve adottarsi lo stesso criterio,
cioè quello della prevedibilità in concreto della morte (superando le
molteplici tesi della responsabilità
oggettiva pura, della colpa implicita, della colpa per fatto assolutamente
illecito, e della prevedibilità in astratto). Lo spacciatore che venda una
quantità di sostanza stupefacente ad un acquirente risponderà della morte di
quest'ultimo se, per le circostanze concrete (oggettive, ad esempio inerenti
alla qualità o al taglio della merce; soggettive, ad esempio le visibili condizioni
di salute del soggetto passivo, la sua età, ecc.) poteva prevedere che alla sua
condotta in re ipsa illecita sarebbe potuto seguire l'evento
morte del consumatore.
le condizioni
obbiettive di punibilità
Le
condizioni obbiettive di punibilità sono disciplinate dall’articolo 44, il
quale dispone che quando la legge subordina la punibilità di un reato al
verificarsi di una condizione, il soggetto è punito per il compimento del reato
anche se l’evento oggetto della condizione si verifica per causa a lui non
imputabile soggettivamente. La condizione, quindi, agisce dopo che il reato è
già perfetto in tutti i suoi elementi, e opera solo sulla punibilità del reo.
E’ anche importante ai fini del decorso del termine di prescrizione, il quale
comincia con l’evento che sta alla base della condizione, e non col precedente
perfezionamento del reato (la regola generale è infatti quella del momento
della consumazione del reato, salvo i
casi di delitto tentato per il quale non vi è consumazione e il caso del reato
permanente per il quale si considera il venir meno dello stato di
antigiuridicità). Prima della sentenza 364/88, le condizioni obbiettive di
punibilità rappresentavano, come dice il loro nome, una ipotesi di
responsabilità obbiettiva. Attualmente, pur essendo intervenuta tale sentenza,
che potrebbe farci propendere per un totale adeguamento di tali condizioni al
principio di colpevolezza, è doveroso ripartire le condizioni obbiettive di
punibilità in due categorie: le
condizioni intrinseche e le condizioni estrinseche. Le condizioni
intrinseche (ad es., il nocumento a seguito di rivelazione di segreto
professionale) sono basate su eventi che, se si verificano, approfondiscono
l’offesa al bene giuridico di riferimento. Quelle estrinseche (ad es., il
pubblico scandalo nel reato di incesto) non hanno questo effetto e sono eventi
che, inseriti nella norma incriminatrice, proteggono interessi contingenti
esterni alla tutela del bene giuridico del soggetto passivo. Adottando il
criterio disposto dalla Consulta (ogni
elemento che costituisce o approfondisce l’offesa al bene giuridico tutelando
deve essere coperto almeno da colpa), si dovranno considerare le condizioni
estrinseche come le uniche ipotesi di responsabilità oggettiva sopravvissuta
nel nostro ordinamento a seguito della sentenza predetta, mentre per quelle
intrinseche dovrà adottarsi il normale criterio della previsione/prevedibilità,
in modo da richiedere che esse siano legate psichicamente, oltre che
obbiettivamente, alla condotta dell’autore del reato.
[ aberractio ictus e
aberractio delicti
Poiché più volte trattati, nel presente articolo come nell’articolo
sulla Colpevolezza, si rimanda alla loro lettura]
La ringrazio infinitamente, questi appunti sono stati di vitale importanza per me!
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