venerdì 20 aprile 2012

Il reato continuato.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

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La vicenda processuale.
L’imputata, condannata due volte per reati legati alla detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, chiede che venga applicata la continuazione tra i due reati, e riformulata la pena con una di più tenue entità in virtù dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 81 cod. pen. I reati per i quali è stata condannata riguardano due episodi criminosi di smercio di cocaina in zone malavitose del napoletano, commessi a distanza di dieci giorni l’uno dall’altro. Dalle prove a carico, e segnatamente dalle intercettazioni telefoniche risulta come prima della commissione dei due fatti di reato, la donna e il suo interlocutore si scambiavano messaggi in codice, facendo riferimento alla droga chiamandola con il nome di generi alimentari.     

IL CONCORSO DI REATI IN GENERALE
Il caso presentato offre particolari spunti per trattare dell’argomento inerente al concorso di reati e, segnatamente, alla continuazione tra reati di cui all’articolo 81 comma II del codice penale vigente. Il reato continuato è un particolare tipo di concorso materiale di reati, il quale beneficia di un trattamento diverso quoad poenam rispetto a quello previsto per quest’ultimo. Il concorso materiale di reati, infatti, si ha quando un soggetto con più azioni od omissioni viola più volte la stessa o diverse disposizioni normative e la pena finale è calcolata secondo il meccanismo tot crimina tot poenae, cioè adottando come criterio quello della somma delle pene relative ai singoli reati, nel rispetto dei limiti sanciti dagli articoli 72 e successivi. Se un soggetto agente, con la stessa azione od omissione, viola più volte la stessa norma o più disposizioni normative, il concorso è detto “formale” e il reo soggiace ad una pena calcolata secondo il sistema del cumulo giuridico, cioè si terrà in considerazione la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, sempre nel rispetto degli articoli predetti. Lo stesso regime (cumulo giuridico) si applica nell’ipotesi del reato continuato, che non a caso è disciplinato dalla stessa norma che regola il concorso formale, pur rappresentando sostanzialmente un concorso materiale di reati. Questo fenomeno consiste nell’esecuzione di più reati, concernenti la stessa disposizione normativa o disposizioni diverse, con più azioni od omissioni, in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Devono essere chiarite due problematiche, e cioè, in primo luogo, quando si può dire che la condotta è unica o vi è pluralità di condotte e, in secondo luogo, cosa significhi “medesimo disegno criminoso”.


CRITERI DISCRETIVI TRA CONDOTTA UNICA E CONDOTTE PLURIME.
Il criterio inizialmente utilizzato per distinguere tra unicità della condotta e pluralità della condotta si basava sulla contestualità degli atti e sulla unicità del fine, dove per contestualità degli atti si intendevano atti non separati da un tempo giuridicamente apprezzabile o da una pausa temporale evidente. La teoria doveva essere modificata, in quanto applicabile solo ai reati dolosi, facendo essa riferimento all’unicità del fine, che può sussistere solo nel caso di dolo. Si giunse quindi all’adozione di due criteri, uno dei quali rimaneva la contestualità degli atti, mentre l’altro veniva modificato in “identità del bene giuridico”. Stanti i predetti presupposti doveva concludersi per l’unicità della condotta e per il concorso formale di reati. Al contrario, si sarebbe optato per la pluralità delle condotte, con conseguente applicazione del concorso formale di reati. In realtà, sembra preferibile, come spesso accade nell’ambito penale in genere, differenziare tra reati commissivi dolosi, reati colposi, e reati omissivi dolosi. Nel caso dei reati commissivi dolosi ben potrebbe applicarsi il principio della contestualità degli atti e unicità del fine. Nel caso di reati colposi, si avrà unicità della condotta quando una volta violata la norma precauzionale di riferimento, il soggetto non è in grado di ritornare nell’alveo della legalità, cioè del rispetto della regola di diligenza (sociale o giuridica); si avrà pluralità di reati quando il soggetto, una volta causato il primo evento con la condotta colposa, è in grado di rispettare quella o altre norme precauzionali e di evitare altri eventi. Nel caso di reati omissivi colposi, deve valere la regola appena indicata, mentre nel caso di reati omissivi dolosi, può farsi riferimento alla seguente regola: se il soggetto poteva evitare i vari eventi solo adempiendo a vari obblighi giuridici contemporaneamente, non gli si può ascrivere la pluralità di condotte. Se il soggetto poteva evitare i vari eventi agendo in successione attraverso il compimento degli obblighi giuridici, tale pluralità sarà affermata. Tali ragionamenti devono essere integrati con un principio inerente il rapporto tra il numero dei soggetti passivi e la natura del bene giuridico leso. Se un soggetto, con una condotta, commette un reato nei confronti di più soggetti passivi, ci si chiede se il reato è da considerare unico o plurimo. Viene di regola utilizzato il criterio della gerarchia di beni giuridici. Nel caso in cui un soggetto rubi una cosa appartenente a più soggetti (comunione) non ci saranno più reati, ma un unico reato. Se un soggetto, con un’unica condotta, lede o uccide più persone, i reati saranno molteplici.

IL REATO CONTINUATO.
Passando ora all’analisi del reato continuato, possiamo dire che la sua caratteristica base la si riscontra nell’implicare tale tipo di fenomeno un concorso materiale di reati (con più condotte si viola più volte la stessa norma o più norme diverse) considerato fittiziamente quoad poenam come concorso formale di reati. Si applicherà quindi il cumulo giuridico in luogo del cumulo materiale (il suddetto tot crimina tot poenae). La domanda sorge spontanea: perché tale diversità? La risposta la si trova nell’ulteriore carattere che deve possedere tale particolare concorso materiale di reati, e cioè l’unicità del disegno criminoso). Chi compie più reati perché ambisce ad un unico risultato è considerato meno pericoloso di colui che compie molti reati per fini diversi. La prima tesi riguardante il significato di tale presupposto si fondava sulla rappresentazione anticipata di ogni singolo reato. Tale teoria non era destinata a durare, in quanto subito si comprese come fosse inesigibile un’applicazione tanto restrittiva della norma da renderla empiricamente non verificabile. Difficile, infatti, ritenere che un soggetto possa rappresentarsi tutti i singoli episodi criminosi a cui darà vita, peraltro immaginandoseli in maniera precisa e dettagliata, e facendoli puntualmente verificare nella realtà materiale. L’attenzione fu quindi spostata su un’altra tesi dottrinaria che faceva leva su due requisiti: la rappresentazione anticipata generica riguardante i fatti di reato e l’unicità dello scopo. Il primo requisiti richiede di verificare che il soggetto abbia progettato i molteplici episodi criminosi non nella loro specificità, ma semplicemente essendo consapevole che nel futuro prossimo avrebbe tenuto più di una condotta criminosa. E si richiede che il soggetto, a grandi linee, immagini la natura di tali condotte. Tale parametro deve essere abbinato all’unicità dello scopo. Esso si verifica quando il fine per cui tali episodi criminosi sono concretizzati è unico (ci si immagini più reati diversi, come un omicidio e un danneggiamento, commessi come “vendetta mafiosa”). L’unicità dello scopo rimanda alla necessaria presenza del finalismo nelle condotte dell’agente, e tale finalismo può essere riscontrato solo nei reati dolosi (delitti o contravvenzioni). La tesi minoritaria per cui possano trovarsi in continuazione reati dolosi e reati colposi con colpa cosciente non trova l’avallo della giurisprudenza di legittimità, nella misura in cui omette di considerare la volontà, sulla base dell’errato assunto per cui il parametro di maggiore interesse sarebbe quello della rappresentazione e non della volontà stessa. Tale volontà, invece, è presupposto indefettibile, e deve accompagnare la rappresentazione nella fase in cui il progetto criminoso è pensato, dovendosi però innestare anche sui singoli episodi criminosi di volta in volta realizzati (Cass. pen. sez. I n. 597/1997). Vale a dire che se un soggetto progetta di uccidere in maniera seriale e commette il primo omicidio doloso in virtù di tale disegno criminoso, tale episodio non sarà legato in continuazione con l’eventuale successivo omicidio (che per genus rientrerebbe nel disegno criminoso anticipatamente rappresentatosi nella mente del reo) che si verifichi per caso fortuito o per pura colpa, seppur cosciente. Stesso ragionamento escludente il reato continuato si dovrebbe fare relativamente ad un reato doloso, del tipo di quelli anticipatamente progettati, ma occasionale. L’occasionalità di un reato astrattamente rientrante nel disegno criminoso, in realtà elimina la prova dell’appartenenza concreta di quello specifico evento al gruppo di eventi che il soggetto si rappresentava precedentemente all’azione. Non mancano sentenze con cui la Cassazione penale ha fatto riferimento alla rappresentazione dei reati come una rappresentazione anticipata di essi nella loro specificità (Cass. pen. 35797/2006). Il criterio della specificità è un criterio ambiguo e forse irrazionale, in quanto se ne dovrebbe trarre che il ragionamento col quale l’agente progetta il disegno criminoso sia il seguente: “per il fine X commetterò una rapina, un furto, una truffa, ecc”. In realtà sembrano preferibili impostazioni più generali (si veda Cass. pen. sez. II, n. 18037/2004) che fanno riferimento ad illeciti individuati nei loro elementi essenziali. In tal caso può dirsi esistente la continuazione nel caso in cui il soggetto pensi “per tale fine X mi troverò a commettere vari reati che possano offendere la persona o il suo patrimonio, poiché tali sono i beni giuridici che mi interessa offendere per assecondare il mio fine”. Anche sul tema dell’occasionalità sarebbe opportuno spendere qualche parola. Se si aderisce ad una tesi restrittiva per cui la rappresentazione ha ad oggetto la specificità dei reati, allora il reato occasionale astrattamente idoneo ad essere ricompreso, non lo sarà in concreto, perché avulso da tale progetto preliminare. Se si aderisce ad una tesi più estensiva, l’occasionalità potrà avere un’altra veste. Il comportamento occasionale è un comportamento dettato da ragioni create hic et nunc in maniera slegata da un progetto precedente. Può però verificarsi il caso per cui il soggetto agente precedentemente si era rappresentato di compiere solo alcuni specifici reati segnati dallo stesso fine. Accade però che, successivamente, ne compia uno avulso dal disegno ma sorretto dallo stesso fine. Si pone quindi il problema di capire se un reato “specificamente scartato” dalla fase rappresentativa, poi si proponga successivamente con volontà partorita al momento e sempre tesa al medesimo scopo che il progetto precedentemente costituito. Secondo la tesi più restrittiva, dicevamo, non vi sarebbero dubbi sulla disapplicazione del concetto di continuazione, perché si richiede che la rappresentazione sia specifica e che quindi ogni reato che non sia delineato specificamente in tale pensiero pre-dato, non possa essere legato in continuazione con quelli che vi formano, senza dubbio, particolare oggetto. Se si accede alla teoria più estensiva non si faticherà a includere nel novero dei reati avvinti da continuazione anche il reato specificamente scartato in precedenza, cioè quello inaspettato, poiché non si dubiterà della predominanza concettuale dello scopo rispetto alla specificità dei reati programmati.
[Per quanto riguarda la differenza tra reato continuato e aggravante di cui all’articolo 61 n. 2 cod. pen., nonché sull’applicazione della continuazione tra reati associativi, e tra reati associativi e reati-scopo, si rimanda a quanto detto nell’articolo, già pubblicato in questo Blog, sul “Il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis del codice penale”. ]

SOLUZIONE PROSPETTATA AL CASO DI SPECIE.

Nel caso di specie si assiste ad alcuni elementi rilevanti e cioè:
1) l’assenza di distanza temporale rilevante tra i due fatti di reato;
2) l’omogeneità dei beni giuridici violati;
3) i contenuti delle risultanze probatorie derivanti dalle intercettazioni telefoniche.

Per quanto concerne il punto n. 1, pare evidente che esso è indizio valido per definire le molteplici attività di smercio come un’attività in realtà continuativa ben in grado di contemplare le due ipotesi. E’ più probabile che due atti vicini nel tempo appartengano al medesimo fine piuttosto che a fini diversi. L’omogeneità dei beni giuridici violati, perché si tratta di violazioni della stessa norma giuridica (art. 73 D.P.R. 309/90), appartiene alla c.d. analogia dei reati, che è criterio altrettanto valido per ipotizzare la continuazione. Le risultanze probatorie, infine, lasciano intendere che le modalità di azione presentino le stesse caratteristiche, proprio perché i due crimini, per natura e per fine, sono strettamente connessi. L’utilizzo di modalità analoghe è legato ad una necessaria predeterminazione delle stesse. Ne risulta dimostrato in concreto un accordo criminoso tra i partecipi al reato, che abbia necessariamente prefissato anche le modalità di comunicazione da utilizzare poco prima di commettere i vari reati appartenenti alla sequela logica. La giurisprudenza di legittimità reputa che l’analogia dei reati, il breve distacco temporale tra gli atti, e altri elementi come l’unitarietà del contesto e dei motivi a delinquere formino validi indizi per il riconoscimento della continuazione. Più precisamente, nel momento in cui l’imputata commetteva il primo reato, già sapeva che ne avrebbe compiuti altri, e già voleva compierli (per l’idoneità dei predetti criteri a fungere da presupposti per il reato continuato, e per l’operatività della volontà come forza psichica che opera in via anticipata e nei singoli episodi criminosi, si vedano ex plurimis Cass. pen. sez. I, n. 12905/2010 e Cass. pen. sez. III, n. 1681/1996). Non sembrano quindi esserci ostacoli al riconoscimento della continuazione.   


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