martedì 17 aprile 2012

Il delitto tentato

 di Filippo Lombardi

Appunti di diritto penale

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Il tentativo è disciplinato dall’articolo 56 del codice penale, il quale punisce chi commette atti idonei e diretti in maniera non equivoca al compimento di un delitto. La punibilità del tentativo deriva dalla messa in pericolo del bene giuridico protetto da una fattispecie normativa, e dalla pericolosità che il soggetto manifesta. La sua caratteristica pregnante è che esso si verifica quando il reato non giunge a consumazione, dove per consumazione si intende la concretizzazione di tutti gli elementi della fattispecie. Quando si parla di tentativo, quindi, si deve far riferimento al combinato disposto tra l’articolo 56 e un delitto di parte speciale. Il suddetto combinato darà però origine ad una fattispecie normativa autonoma. Si parlerà di tentato omicidio, di tentata truffa, di tentato furto, considerando gli articoli di volta in volta coinvolti non come distaccati dall’articolo 56 di parte generale, bensì come integranti lo stesso, dando origine ad un titolo autonomo di reato.
Originariamente, e cioè con il Codice Zanardelli, il tentativo veniva punito sulla base del fatto che l’attività costituisse l’inizio dell’esecuzione criminosa, cioè lo step successivo rispetto agli atti meramente preparatori, che non avrebbero consentito la punibilità. Vi fu una disputa su cosa significasse “atti esecutivi”, e la dottrina propose quattro tesi.
1) inizio dell’esecuzione si ha quando si rintraccia nell’azione il parametro della univocità degli atti, cioè della sicurezza sul fine degli stessi, proiettati inequivocabilmente verso la lesione del bene giuridico.
2) inizio dell’esecuzione significa ingerenza nell’altrui sfera giuridica. In questo senso si può dire che l’esecuzione criminosa è iniziata quando gli atti del soggetto agente cominciano ad interferire con la sfera soggettiva della vittima, producendo i primi effetti in essa.
3) inizio dell’esecuzione è compimento dei primi atti richiesti dal tenore letterale della fattispecie astratta e generale.
4) inizio dell’esecuzione non è solo compimento degli atti di cui al numero 3, bensì anche compimento di atti antecedenti, logicamente e coerentemente connessi con quelli che iniziano a comporre l’attività complessiva richiesta dalla norma.
La modifica della disciplina del tentativo ad opera del Legislatore del 1930 ha fatto in modo che queste teorie possano essere accantonate, poiché l’attuale questione interpretativa concerne non più il limite operativo tra atti preparatori e atti esecutivi, bensì i significati di idoneità e non equivocità degli atti.
L’idoneità è certamente propedeuticità e funzionalità rispetto al raggiungimento dell’evento voluto, ma bisogna aggiungere due importanti elementi: il grado di possibilità di verificazione dell’evento e il metodo di accertamento.
Per quanto concerne il primo, non ci si accontenta della mera non impossibilità, ma si ricerca l’alta probabilità che a quei singoli atti consegua l’evento. L’idoneità, quindi, afferisce agli atti e non ai mezzi usati per il loro compimento. 
Passando al secondo argomento, è necessario comprendere quale sarà l’attività che il giudice dovrà effettuare per valutare l’idoneità degli atti. Si tratta della cosiddetta prognosi postuma, cioè una valutazione che avviene (ovviamente) dopo che l’agente ha compiuto il tentativo, ma collocandosi con la mente al momento in cui il soggetto intraprendeva l’azione. Il maggior dilemma è stato, ed è ancora, relativo alla c.d. base di giudizio della prognosi postuma. Dottrina maggioritaria (Antolisei, Mantovani) ritiene che la base di giudizio debba essere parziale, cioè debbano tenersi in considerazione solo le circostanze che il soggetto agente conosceva o poteva conoscere durante il tentativo. Dottrina minoritaria (Fiandaca-Musco) ritiene che la base di giudizio debba essere totale, cioè prende in considerazione anche gli elementi e le circostanze non conosciute e non conoscibili.

ESEMPIO PRATICO PER CHIARIRE LA DIFFERENZA TRA (E GLI EFFETTI DEL)LE DUE BASI DI GIUDIZIO:

Tizio spara a Caio che indossa un giubbotto antiproiettile, ma Tizio non sa di questa circostanza.

- Applicando la prima teoria (base parziale di giudizio), Tizio ha compiuto tentativo idoneo e va punito.
- Applicando la seconda teoria (base totale di giudizio), Tizio ha compiuto tentativo inidoneo e non va punito, appunto per mancanza di idoneità, richiesta dalla norma (art. 56 c.p.).

[Il discorso si farà più complesso quando si dovranno valutare similitudini e differenze tra il tentativo inidoneo e il reato impossibile ex art. 49 co. II.]
Valutiamo ora il requisito della non equivocità o univocità degli atti. L’univocità degli atti è la loro evidente caratteristica del mirare al fine criminoso. Gli atti saranno univoci quando si possa ragionevolmente pensare che il fine del soggetto era quello di ledere il bene giuridico. Parte della dottrina, sulla base del fatto che il finalismo è prima di tutto requisito psichico, parlava della non equivocità come di un qualcosa che dipendesse dall’accertamento processuale della volontà, quindi dalla valutazione dell’esistenza del dolo. Si tratta di una teoria dell’univocità in chiave soggettiva, superata dalla teoria dell’univocità in chiave oggettiva. Questa seconda teoria, attualmente vigente, propende per un accertamento della condotta finalistica in chiave oggettiva, cioè discendente dall’esteriorità della condotta. Alla luce delle circostanze materialmente evidenti, e delle caratteristiche naturalistiche degli atti, si deve evincere ragionevolmente che gli atti apparivano come diretti al fine criminoso, cioè alla consumazione del delitto sancito dalla parte speciale del codice.
Il tentativo può essere retto solo dal dolo, in quanto l’univocità deve poggiare per sua natura sulla volontà. Se univocità significa che gli atti sono diretti al compimento del delitto, non può immaginarsi un tentativo colposo, cioè sfornito di finalismo (che è volontà e quindi dolo). Tra le varie intensità del dolo sono valide solo quelle del dolo intenzionale e del dolo diretto. Incompatibile il dolo eventuale poiché la mera accettazione del rischio non pare essere sufficiente per concretizzare il suddetto finalismo richiesto dall’univocità della condotta.
Una breve considerazione merita la natura del dolo nel tentativo (finora abbiamo parlato dell’intensità). Se il dolo del delitto è normalmente dolo di delitto consumato (cioè volontà di perfezionare il reato con tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie), il dolo del delitto tentato non è dolo di tentativo, bensì rimane comunque dolo di delitto consumato. Ciò significa che se un soggetto ha compiuto atti idonei a diretti in maniera non equivoca a tentare il delitto, non è punibile, in quanto la condotta, per le sue caratteristiche, non integra l’articolo 56. Questa precisazione non è superflua, poiché la dottrina la utilizza per spiegare la non punibilità dell’agente provocatore. La sua istigazione a compiere un delitto sarebbe retta dal dolo di tentativo e non dal dolo di delitto consumato, poiché il suo fine sarebbe quello di far arrivare l’esecuzione criminosa dei “provocati” al livello della punibilità per tentativo senza verificazione dell’evento lesivo. La Cassazione, al riguardo, è molto severa. I giudici ritengono che la non punibilità così descritta operi solo quando l’attività del provocatore rimanga al mero livello di istigazione e non trovi sbocco fattuale nella materialità delle azioni concrete.
Altro problema interpretativo riguarda la possibilità di avere un tentativo circostanziato, cioè arricchito dalle circostanze elencate dagli articoli 61 e successivi. In realtà la difficoltà sorge dall’esistenza di due possibili situazioni:
- tentativo circostanziato di delitto. In questo caso non si pongono problemi, perché questa situazione si crea quando il soggetto arriva alla soglia del tentativo punibile essendosi verificate già le circostanze, le quali potranno quindi applicarsi.
- tentativo di delitto circostanziato. In questo caso la dottrina e la giurisprudenza sono divisi. La dottrina ritiene che se le circostanze non si sono perfezionate una volta arrivati al livello del tentativo punibile, non possono essere applicate sulla base di un giudizio di probabilità (cioè della probabilità che, qualora il reato fosse andato a buon fine, esse si sarebbero certamente verificate), in virtù del principio di legalità. La Giurisprudenza di Legittimità, invece, propende per la soluzione estensiva, ritenendo applicabili al tentativo le circostanze che si sarebbero verificate una volta commesso il reato.
Per quanto concerne i reati compatibili con il tentativo, si può dire che esso sussiste nei:
- delitti non colposi
- reati unisussistenti
- reati permanenti, poiché prima del prolungamento dello stato antigiuridico è comunque necessaria la consumazione, la quale potrebbe non verificarsi e bloccare l’esecuzione al mero livello di tentativo (si immagini il tentativo di sequestro di persona).
- reati condizionati, quando la condizione può per sua natura verificarsi anche a consumazione di reato non avvenuta.
- reati aggravati dall’evento, perché l’evento potrebbe ben scaturire dal tentativo di commettere il reato-base, e non dipendere dalla sua verificazione (es. tizio tenta di provocare l’aborto in Caia senza riuscirvi, e Caia muore per lo spavento).
- nei reati omissivi impropri. Poiché, essendo reati di evento, può benissimo verificarsi un non-fare finalizzato a causare l’evento, e quella condotta di non-fare può essere idonea al raggiungimento dell’obiettivo, non verificandosi quest’ultimo, per l’intervento tempestivo di terzi. Chi scrive ritiene che non per forza debba trattarsi di un intervento di un terzo, altrimenti si starebbe dicendo che nell’ambito del delitto omissivo tentato non possano operare né la desistenza volontaria né il recesso attivo, che consistono in condotte dell’agente stesso.  
- nei reati omissivi propri nel caso in cui un soggetto compia un’attività positiva evidentemente al fine di porsi in una condizione di impossibilità di adempiere all’obbligo giuridico in un secondo momento.
- nel reato continuato. Alcuni ritengono che il tentativo di reato continuato si abbia nel caso in cui si cerchi più volte di compiere lo stesso reato, senza riuscirvi. In realtà chi scrive suggerisce di differenziare questo caso (continuazione di tentativi) da un altro caso (tentativo di continuazione) e cioè quello in cui un soggetto commetta un reato, e poi tenti di compierne un altro senza riuscirvi, qualora questo secondo reato faccia parte del medesimo disegno criminoso. Il tentativo di continuazione si perfezionerebbe nel momento in cui l’agente compia l’ultimo atto idoneo diretto in maniera non equivoca al compimento del secondo delitto.
Il tentativo non esiste nei reati colposi, nelle contravvenzioni, nei reati abituali, nei reati di attentato (poiché si punirebbe il tentativo di un tentativo, causando un eccessiva anticipazione della tutela del bene giuridico) e nei reati di pericolo (poiché, in maniera del tutto simile alla ratio del tentato attentato, si punirebbe il pericolo di un pericolo, e quindi si andrebbe contro il principio di offensività). Alcuni ritengono che i reati di pericolo ammettano, al contrario, il tentativo.
Passiamo ora a valutare il momento dell’interruzione dell’azione criminosa. L’interruzione potrà essere di due tipi: spontanea e non spontanea ma legata a fattori esterni.
In entrambi i casi di interruzione, avremo comunque due possibili sbocchi: tentativo compiuto e tentativo incompiuto. Il tentativo è compiuto quando l’azione si compie e l’evento non si verifica. Il tentativo è incompiuto quando l’azione non si compie e l’evento non si verifica.
Ma, nel caso in cui:
- l’azione non si compie perché l’agente spontaneamente desiste, si avranno contemporaneamente un tentativo incompiuto e una desistenza volontaria.
- l’azione si compie ma l’evento non si verifica perché evitato spontaneamente dall’agente, si avranno un tentativo compiuto e un recesso attivo (anche detto pentimento operoso).
In queste ultime due situazioni, la legge accorda una diminuzione di pena. La dottrina ritiene in generale che questo trattamento di favore nei casi di desistenza volontaria e recesso attivo dipendano da due possibili ragioni. La prima è la teoria dei “ponti d’oro”, cioè l’ordinamento starebbe invitando il criminale a desistere in cambio di un trattamento favorevole. La seconda è la teoria generalpreventiva e specialpreventiva della pena, cioè il legislatore sta considerando che questi soggetti possano ricevere sconti di pena poiché dal punto di vista generalpreventivo possono fornire un exemplum agli altri (cioè di essere tornato sui propri passi durante l’azione criminosa, poiché essa era sbagliata) e dal punto di vista specialpreventivo il soggetto agente che ha desistito o è receduto ha dimostrato di essere riuscito a trovare dentro di sé i criteri della buona convivenza sociale, e che quindi non necessiti più di tanto del trattamento rieducativo, poiché è come se si fosse “rieducato autonomamente” durante l’attività criminosa non ultimata.
La desistenza si fonda sempre su un’astensione, cioè su un non-fare. Il recesso attivo si fonda sempre su un fare, perché il soggetto deve evitare l’evento e normalmente deve intervenire materialmente per evitarlo o deve affidarlo alle cure altrui, il che comporta un’azione.
La Cassazione ci aiuta a comprendere quanto ora detto, fornendo una qualificazione del discrimine tra le due situazioni. La desistenza volontaria si ha nel momento in cui non si è ancora innescato il decorso causale capace autonomamente di giungere a evento. Il recesso attivo si ha quando il soggetto, operosamente, si inserisce nel decorso causale attivato con la precedente condotta, al fine di evitare un evento che sarebbe autonomamente scaturito da essa.
Ai fini della punibilità si può quindi fare un elenco di situazioni:
1) se il tentativo è compiuto o incompiuto, e non sussistono né desistenza volontaria né recesso attivo, le pene saranno:
- nel caso in cui la pena del reato di parte speciale sia l’ergastolo: anni 12 di reclusione.
- negli altri casi la pena sarà quella del reato di parte speciale diminuito da un terzo a due terzi.
- nel caso in cui si abbia un tentativo incompiuto ma con desistenza volontaria: il soggetto sarà punito solo per gli eventuali reati, difformi dal reato di parte speciale tentato, e compiuti prima dell’interruzione dell’azione.
- nel caso in cui si abbia un tentativo compiuto e un recesso attivo, la pena sarà quella del reato di parte speciale, diminuita da un terzo a due terzi. Sul risultato dell’operazione aritmetica si effettuerà un’altra diminuzione da un terzo alla metà.
Ricordiamo, inoltre, che la desistenza volontaria e il recesso attivo comportano la spontaneità dell’interruzione della condotta (o dell’evitare l’evento), dove per “spontaneità” non si intende il ravvedimento (del tipo: “Blocco l’azione o evito l’evento perché mi sono reso conto che è moralmente sbagliato”), ma la mera volontarietà, la quale potrà discendere da tutti i fattori possibili, essendo sufficiente che questi fattori il soggetto li trovi nel proprio io e non all’esterno (chi interrompe l’azione perché sente le sirene della polizia non beneficerà di alcunché).
Un problema interpretativo riguarda il limite tra tentativo compiuto e incompiuto per quanto concerne i reati omissivi. La tesi di chi scrive è la seguente:
- nel reato omissivo proprio il tentativo sarà compiuto quando, una volta che il soggetto si sia posto nell’impossibilità di adempiere all’obbligo, non possa autonomamente ritornare alla posizione iniziale di possibilità. Sarà incompiuto quando, seppur si sia verificata la condotta finalizzata a porsi nello stato di impossibilità, e questa sia univoca e idonea, non può dirsi che l’impossibilità sia definitiva.  
- nel reato omissivo improprio la compiutezza del tentativo dovrà per forza dipendere da se la mancata attivazione da parte del soggetto (non) agente abbia prodotto il decorso causale idoneo a portare automaticamente all’evento. Se questo decorso non si è ancora innescato, si parlerà di tentativo incompiuto, e potrà aversi la desistenza volontaria. Altrimenti, se il decorso sarà iniziato, il soggetto potrà solo evitare l’evento con una condotta positiva, e quindi potrà esserci recesso attivo.     

IL LIMITE TRA TENTATIVO E CONSUMAZIONE NEL DELITTO DI FURTO E LA PROBLEMATICA DEL RECESSO ATTIVO E DELLA DESISTENZA VOLONTARIA.

Il delitto di furto (art. 624 c.p.) si fonda sulla sottrazione della cosa altrui con conseguente impossessamento (con quest’ultimo il reato è perfezionato, consumato). La sottrazione è la fuoriuscita della cosa dalla sfera di signoria del soggetto passivo (derubato), mentre l’impossessamento di instaura con la creazione di un potere di fatto sulla cosa da parte dell’agente, al di fuori della sfera di controllo del soggetto passivo. Si dovrebbe ritenere che, considerando come fasi successive l’una all’altra quelle della sottrazione e dell’impossessamento, il tentativo sarà compiuto quando sarà stata superata la fase della sottrazione e non raggiunta la fase dell’impossessamento. E quindi vi potrà essere recesso attivo con la restituzione della cosa mobile sottratta. Quando invece si verificano atti idonei diretti in maniera non equivoca alla sottrazione, e questa non si verifichi,avremo il tentativo incompiuto. Ovviamente, se il soggetto desiste dall’azione volta a sottrarre il bene, si potrà avere desistenza volontaria, con conseguente punibilità per eventuali reati nel frattempo compiuti (es. nel furto in abitazione, la violazione di domicilio).  


IL REATO IMPOSSIBILE.

L’articolo 49 comma II del codice penale affronta il problema del reato impossibile e dispone che il soggetto agente non è punibile quando, per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto materiale, non sia possibile il verificarsi dell’evento da cui la legge fa dipendere il reato.
Il reato c.d. impossibile si può verificare, da quanto si evince nella norma, sia per inidoneità della condotta che per inesistenza dell’entità materiale su cui la condotta dovrebbe abbattersi. La norma parla di “azione”, ma non si vede come essa non possa applicarsi anche all’omissione, quando appunto essa sia inadeguata rispetto al raggiungimento dell’evento.
La dottrina ha ritenuto che il principio contenuto in questo comma sia proprio quello dell’offensività necessaria della condotta, che è uno dei principi fondamentali del diritto penale, esaminato a suo tempo. Esso si fonda sulla necessità che ogni condotta possa essere penalmente punita solo quando aggredisce (cioè, lede o pone in pericolo) beni giuridici protetti dalle norme. Si parla, non a caso, in maniera critica, di tipicità apparente e di antigiuridicità sostanziale, a voler indicare, nel primo caso, che il legislatore deve creare norme che empiricamente riportino situazioni di effettiva offesa a beni giuridici, laddove, se l’offesa non è empiricamente riscontrabile (e quindi la tipicità è apparente), la norma dovrebbe essere dichiarata incostituzionale. Il secondo caso, cioè quello dell’antigiuridicità sostanziale, si fonda su una categoria di antigiuridicità come antisocialità e perciò postula certamente l’offesa di interessi ritenuti meritevoli di attenzione e protezione a livello sociale. I critici di questa categoria ritengono che essa non esista, in quanto l’antisocialità dovrebbe già essere parte integrante della tipicità.
E’ necessario, comunque, apportare un correttivo a quanto detto poco fa. Abbiamo detto che le norme devono tipizzare situazioni che si concretizzino in offese a beni giuridici, altrimenti si pongono al limite dell’incostituzionalità. Il fatto che spesso la giurisprudenza sussuma fattispecie concrete nelle norme astratte e generali, ma ritenga che quelle condotte non erano in concreto offensive, non significa che la norma astratta e generale stia disciplinando casi che non riflettono empiricamente offensività, e che quindi meriti la censura di legittimità costituzionale. Significherà, invece, che l’offensività nei confronti del bene giuridico tutelato sarà presente, ma non a tal punto da giustificare una sanzione penale. La censura di legittimità costituzionale sarà doverosa solo ed esclusivamente quando il tenore letterale della norma non sia affatto idonea a concretizzarsi in alcuna fattispecie concreta offensiva del bene giuridico. Si può dire che, oltre ai casi in cui l’offesa non esista, il reato impossibile sia idoneo a ricomprendere nel suo alveo concettuale i reati bagatellari.
Passando ora all’analisi dell’inidoneità dell’azione,essa viene definita dalla Corte di Cassazione come “assoluta, originaria e intrinseca inadeguatezza causale della condotta rispetto all’evento, derivante dall’inefficienza strutturale del mezzo o delle modalità di azione.
La definizione, seppur molto utile, non sgombra il campo da possibili sovrapposizioni tra reato impossibile e tentativo impossibile (o inidoneo). La dottrina si è divisa in tre filoni di pensiero.
1)ANTOLISEI ritiene che tentativo inidoneo e reato impossibile siano la stessa cosa, e che la valutazione dell’inadeguatezza debba essere effettuata ex ante (cioè su base parziale)
2) MANTOVANI ritiene che il tentativo ha ad oggetto atti, mentre il reato impossibile ha ad oggetto l’azione. Quindi, se si verificano atti inidonei, si tratterà di tentativo impossibile; se si verifica l’azione (cioè compimento di tutti gli atti che compongono l’esecuzione del reato) inidonea, avremo il reato impossibile. Anche per Mantovani l’analisi dell’inadeguatezza è da farsi ex ante.
3)FIANDACA e MUSCO ritengono che, sulla base del fatto che il controllo vada fatto ex post, cioè valutando tutte le circostanze presenti durante l’azione, seppur sconosciute e non conoscibili dall’agente, una volta che sia stata appurata l’inidoneità non sarà nemmeno necessario parlare di tentativo impossibile o inidoneo, ma si parlerà direttamente di reato impossibile.
Chi scrive appoggia pienamente la teoria di Fiandaca-Musco, per i seguenti motivi:

- in omaggio al principio di offensività, un soggetto deve essere punito se ha in concreto offeso o posto in pericolo il bene giuridico tutelato, a nulla valendo la differenziazione tra base parziale di giudizio e base totale di giudizio. Non si può far dipendere il rispetto del principio di offensività e la libertà personale da una esclusione aprioristica delle circostanze non conosciute e non conoscibili dal soggetto agente.
- in omaggio al principio del favor rei, tutto ciò che è idoneo a causare la non punibilità o l’attenuazione della pena è applicato obbiettivamente, in base alla mera esistenza (cause di giustificazione, circostante attenuanti). Non si vede come questo principio non debba essere applicato anche nel caso in cui un soggetto agente tenti di compiere un reato che era destinato a non verificarsi.
- in omaggio al principio del diritto penale del fatto (contro il diritto penale d’autore),se il tentativo è intrinsecamente inidoneo ad offendere il bene giuridico tutelato dalla norma, la punibilità discenderebbe essenzialmente dalla considerazione della “cattiveria”, del fine criminoso e della pericolosità dell’agente. E se si assoggettasse una persona a sanzione penale (non a misura di sicurezza, la quale è possibile) sulla base di questi presupposti, si attuerebbe un diritto penale d’autore, distante dal diritto penale del fatto, che è quello che giustifica la punizione.
- in omaggio al principio di certezza del diritto, la base totale di giudizio è idonea a sgombrare il terreno dalle difficoltà interpretative circa il discernimento tra tentativo inidoneo e reato impossibile.


Passiamo ora all’analisi dell’assenza dell’oggetto materiale del reato. Esso è l’entità materiale su cui si abbatte la condotta criminosa. La mancanza dello stesso genera il reato impossibile. La dottrina, però, ha ragionato in maniera diversa a seconda dei casi:
- La teoria tradizionale ritiene che la valutazione sul reato impossibile vada fatta ex ante considerando se la cosa (l’oggetto materiale), alla luce delle conoscenze dell’agente, sarebbe stata, con alta probabilità, presente sul luogo dell’azione. In caso di risposta affermativa, si tratterebbe di tentativo punibile. Altrimenti si tratterebbe di reato impossibile.
- La teoria moderna ritiene che il discorso su cui si impronta la teoria tradizionale sia valido nel caso in cui la cosa sia esistente in natura, mentre nel caso in cui fosse assolutamente e originariamente inesistente in natura, si tratterebbe sempre di reato impossibile.
- Altri autori (dottrina minoritaria) ritengono che questa differenziazione non abbia senso nel momento in cui si effettui la valutazione ex post. In caso di mancanza dell’oggetto materiale, si tratterà sempre di reato impossibile e mai di tentativo, idoneo o inidoneo.
Ultimo argomento da trattare, relativamente al reato impossibile, concerne l’errore sul reato impossibile.
Esso non riveste una categoria separata rispetto all’errore sul fatto e a quello sul diritto, anzi, le contempla entrambe. Vediamo perché. Se l’impossibilità del reato, come da norma, deriva dall’inidoneità dell’azione o dall’inesistenza dell’oggetto materiale, l’errore sul reato impossibile, di conseguenza, potrà essere:
- errore sulla inidoneità.
- errore sull’inesistenza dell’oggetto materiale.
Poiché l’oggetto materiale è elemento costitutivo del reato, l’errore su di esso sarà sempre un errore sul fatto. E quindi si applicherà l’articolo 47, già analizzato in precedenza, nel capitolo sulla colpevolezza.
L’errore sulla inidoneità si può invece scomporre in:
- errore sulla inidoneità derivante da errore sul fatto.
- errore sulla inidoneità derivante da errore sulla illiceità.
Nel primo caso, si immagini Tizio che per errore ritiene che il fucile dinanzi a sé è finto o caricato a salve. E lo usa per fare uno scherzo a Caio, sparandolo. Il colpo, in realtà era vero, e Caio muore. In questo caso, si applicherà l’articolo 47, con le conseguenze che esso può comportare in tema di colpa.
Nel secondo caso ci si immagini Tizio, pubblico ufficiale, che accetta un regalo importante da Caio pochi giorni prima di compiere un’attività amministrativa che concerne proprio Caio, ma ritiene che la sua accettazione non comporti alcun reato (es. corruzione). Ritiene quindi che la sua condotta sia inidonea all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma. In questo caso l’errore non è errore sul fatto ma è errore sulla illiceità penale, il quale non scusa (art. 5 c.p.) se non nei casi di assoluta inevitabilità dell’ignoranza sulla norma di legge

2 commenti:

  1. Salve, vorrei chiedere una precisazione: il tentativo è configurabile per il reato unisussistente?Pur perfezionandosi in un solo atto e mancando dell'iter criminis frazionabile?

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