sabato 14 aprile 2012

Evoluzione del concetto di colpevolezza tra teoria belinghiana (Concezione psicologica) e concezione normativa.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

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Quello della colpevolezza è il terzo stadio del controllo sulla responsabilità penale (i primi due sono, come abbiamo già visto, la tipicità e l’antigiuridicità). Originariamente, cioè con la c.d. concezione belinghiana, essa contemplava gli elementi soggettivi del reato, ovvero il dolo e la colpa, in quanto legami psichici tra soggetto e fatto. Era questa la concezione psicologica della colpevolezza, che adottava una netta ripartizione tra gli elementi della fattispecie, in quanto teneva gli elementi oggettivi nell’ambito della tipicità, e trasferiva quelli soggettivi nella colpevolezza. Il noto teorico Frank elaborò successivamente una teoria diversa, basata su una riflessione in tema di concreta sanzione inflitta a soggetti che avessero compiuto il medesimo fatto con lo stesso elemento soggettivo (es. furto, con dolo specifico richiesto dalla norma). Egli si rese conto che la punibilità poteva in concreto essere diversa, pur oscillando tra i canoni edittali. Alla domanda “Cos’è che rende questa punibilità diversa tra due situazioni uguali dal punto di vista tipico?” egli rispose: la rimproverabilità del soggetto agente. La rimproverabilità sarà più elevata quanto più sarebbe stato esigibile un comportamento conforme alla norma di legge da parte dell’agente. E sarà minore quanto meno poteva in concreto richiedersi a quest’ultimo di rispettare la regola di condotta. La concezione di arrivo, che è quella attualmente utilizzata, è chiamata concezione normativa in quanto la rimproverabilità, criterio evidentemente elastico a differenza del legame psichico, viene valutata mettendo in correlazione le caratteristiche del soggetto individualmente considerato (età, cerchia sociale di appartenenza, esperienze, grado di intelligenza e socializzazione, cultura, professione, emozionalità, spirito di adattamento a circostanze nuove mai vissute, ecc.) con la norma comportamentale prescritta dal sistema normativo, di volta in volta considerata.  
Dal punto di vista concettuale, l’alveo della colpevolezza risulta svuotato degli elementi soggettivi, e riempito col concetto di rimproverabilità, cioè esigibilità in concreto di un comportamento conforme al dettato normativo. Gli elementi soggettivi vengono considerati come parti integranti la tipicità, come abbiamo più volte ripetuto, in quanto veri e propri elementi descrittivi del fatto. Se un soggetto compie un furto senza il dolo specifico richiesto dall’art. 624, non è necessario il controllo sulla colpevolezza (la quale, comunque verrà a mancare insieme all’antigiuridicità) bensì verrà meno innanzitutto il fatto tipico.   
L’ambito della colpevolezza, lungi dall’essere riempito solo col concetto di rimproverabilità, si vede addensato in concreto di norme vere e proprie del codice penale, che certamente hanno a che fare con suddetto concetto elastico. Le esamineremo successivamente.  

COLPEVOLEZZA E ARTICOLO 27 COST.  

Al di là delle dispute teoriche, comunque utili quando si tratta di valutare la responsabilità del soggetto agente nonché di commisurare la pena, la colpevolezza trova il suo fondamento costituzionale nell’articolo 27, laddove ai commi I e III si dice che la responsabilità penale è personale le pene devono tendere alla rieducazione del reo. Pur essendo due capisaldi dell’ordinamento penale, le due frasi sono alquanto problematiche e vanno sciolte delle riserve a riguardo.  

La personalità della responsabilità penale è valutabile a tre livelli, di cui i primi due sono i seguenti:  
1) la responsabilità penale è della persona fisica.  
2) la responsabilità penale è per fatto proprio.  

Sul numero 1, si possono fare alcune osservazioni. Esso lascia intendere che la persona giuridica non possa avere responsabilità penale. Questo è vero fino ad un certo punto, poiché attualmente esiste una vera e propria responsabilità penale camuffata da responsabilità amministrativa (D.lgs. 231/2001) in capo agli enti, persone giuridiche, alla presenza di alcuni presupposti: che un soggetto in posizione apicale (rappresentanza, direzione, gestione, amministrazione) commetta un fatto di reato previsto come tale dal decreto legislativo, nell’interesse o a vantaggio di un ente, e questo discenda da scelte imprenditoriali interne all’ente (dolo) o derivi da una lacuna organizzativa nei sistemi preventivi di reati interni, di cui l’ente avrebbe dovuto dotarsi (colpa di organizzazione). L’interesse potrà essere valutato ex ante, cioè come motivo scatenante l’azione, mentre il vantaggio potrà essere valutato non solo ex ante, ma anche ex post. Ciò significa che il vantaggio potrà essere riscontrato obbiettivamente, al di là dell’interesse. Dinanzi a questo tipo di azione criminosa, il decreto legislativo citato appresta: sanzioni pecuniarie, pene interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza. Discorso diverso è la responsabilità dei singoli soggetti operanti negli enti e nelle persone giuridiche, che andrà valutata secondo le normali regole, nel caso in cui questi soggetti non si spoglino delle loro competenze delegandole ad altri soggetti (subalterni). Un discorso specifico, quindi, va fatto nel caso in cui uno di questi soggetti effettivamente deleghi ad un altro il compimento di una specifica attività normalmente di competenza del primo, e il delegato compia un illecito nello svolgimento di questa attività. La responsabilità del delegante è attenuata, stanti i seguenti presupposti: il delegante deve aver delegato, nel rispetto delle prescrizioni di legge e dei propri poteri, ad un soggetto di provata competenza, il quale avesse a disposizione strumenti e conoscenze adatte a svolgere l’attività. In più, si richiede che la delega non abbia fine fraudolento e che l’azienda abbia un’organizzazione complessa e capillare che giustifichi il meccanismo delle deleghe. La delega avrà, stanti questi presupposti, effetti costitutivi di responsabilità sul delegato, ed effetti parzialmente liberatori per il delegante, sul quale insisterà comunque un obbligo di controllo di tipo sintetico (generale) e non analitico (cioè non capillare, altrimenti la ratio della delega come alleggerimento dei compiti sarebbe sacrificata), sull’attività che il delegato è chiamato a svolgere. Se il controllo non è svolto dal delegante, egli concorrerà a titolo colposo nel reato eventualmente compiuto dal delegato; o anche a titolo di dolo eventuale se in concreto egli si era rappresentato la possibilità che il subalterno realizzasse illeciti. Se il sistema di controllo verrà approntato, il delegante dovrà intervenire in maniera incisiva sull’attività del delegato, solo nel caso in cui venga a sapere di intenzioni criminose del secondo, o del fatto che questi stia portando avanti l’attività attribuitagli, con leggerezza o negligenza.    
Sul numero 2, non si può omettere un duplice discorso. Responsabilità per fatto proprio vuol dire divieto di responsabilità per fatto altrui e responsabilità per fatto legato eziologicamente alla propria condotta. Dal primo punto di vista non può non rilevarsi come l’affermazione non si applichi nei casi in cui un soggetto aveva l’obbligo di impedire un fatto altrui (posizione di garanzia). Nella sua seconda accezione, invece, deve ammettersi che essa giustificherebbe la responsabilità oggettiva in quanto dà importanza al fatto proprio dal punto di vista oggettivo, cioè come evento giuridico collegato causalmente con la condotta del soggetto agente (o non agente, nei casi di omissione).  

3) Ecco perché è fondamentale aggiungere una terza accezione, della cui definizione si è occupata la Corte Costituzionale con la nota sentenza 364/88. Questa sentenza fa sì che, potendo riepilogare gli elementi dell’articolo 27 comma I, essi debbano dare origine a questa statuizione: la responsabilità penale è personale, essa attiene alla persona fisica (e alla persona giuridica, nel rispetto di quanto indicato dal D.lgs. 231/2001, se si aderisce alla tesi per cui essa è responsabilità penale e non amministrativa) ed è responsabilità per fatto proprio e colpevole.  

Rispetto a quanto in precedenza indicato, si può notare l’aggiunta dell’aggettivo “colpevole” accanto a “proprio”. La Corte Costituzionale dispone, attraverso la predetta sentenza, che ogni elemento del fatto, che costituisca o accresca l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma penale, deve essere coperto almeno da colpa e non può essere addossato all’agente sulla base del mero nesso di causalità. La sentenza è epocale, poiché consente di riadattare in chiave costituzionalmente orientata ogni ipotesi del nostro codice penale che sia improntata all’accettazione della responsabilità oggettiva.  
All’inizio del paragrafo abbiamo indicato che il principio di colpevolezza completa la sua struttura nel comma III dell’art. 27 Cost., e cioè con il fine rieducativo della pena. In attesa di analizzare separatamente il concetto di pena e la sua funzione e commisurazione nell’ordinamento, si deve ammettere che la colpevolezza è strettamente connessa con l’esigenza rieducativa. Si può dire che la colpevolezza è presupposto del fine rieducativo, in quanto solo un soggetto che sia conscio del proprio comportamento riprovevole, potrà considerare se stesso ragionevolmente suscettibile di applicazione della sanzione da parte dell’ordinamento, e avvertirà la presenza dell’esigenza rieducativa nei proprio confronti. Al contrario, un soggetto al quale il fatto sia stato imputato solo perché conseguenza della propria condotta dal punto di vista oggettivo, ma non conseguenza della sua predisposizione psichica, riterrà errata la reazione ordina mentale e non si sottoporrà al trattamento risocializzante, in quanto non sentirà come propria l’esigenza di essere rieducato.  (Successivamente si approfondiranno i temi della responsabilità oggettiva e della pena).   

PRESUPPOSTI DELLA COLPEVOLEZZA E SCUSANTI LEGALMENTE RICONOSCIUTE. 

- Imputabilità. Secondo l’articolo 85 c.p. non è punibile il soggetto che, al momento del fatto non era imputabile, cioè non era in concreto capace di intendere e di volere. Non si tratta di una singola capacità, bensì di una duplice capacità, cioè di due capacità che devono sussistere nello stesso momento: capacità di intendere e capacità di volere. La capacità di intendere è capacità di relazionarsi con la realtà circostante, di comprendere gli impulsi esterni e gli effetti delle proprie interazioni con essa; la capacità di volere è capacità di autodeterminarsi tra motivi antagonisti, nonché di portare avanti finalisticamente i decorsi causali generati dalla propria condotta. L’imputabilità è presupposto della colpevolezza poiché il non essere capaci di intendere e di volere mentre si commetteva il reato fa venire meno proprio la possibilità di muovere il rimprovero nei confronti dell’agente, in quanto non era in concreto esigibile dallo stesso un comportamento conforme alle norme dell’ordinamento penale.  
E’ importante a questo punto fugare ogni dubbio sul concetto di presupposto dell’imputabilità. Dalla sentenza 364/88 della Corte Costituzionale si evince che per essere colpevole, il soggetto agente deve trovarsi almeno in colpa rispetto al fatto (se non in dolo). Questo fa sì che gli elementi soggettivi siano dei “presupposti” in senso atecnico della colpevolezza, vale a dire che essi saranno imprescindibili per passare ad un controllo di colpevolezza. Ma i veri e propri presupposti della colpevolezza saranno gli elementi che inseriamo direttamente nel suo alveo, e cioè elementi capaci di incidere sulla rimproverabilità del soggetto. Il soggetto agente potrà, a ben vedere, essere semi-imputabile, imputabile, non imputabile. In ognuno dei tre casi, se presenta il carattere della pericolosità sociale, potrà vedersi applicata una misura di sicurezza, la cui natura varia a seconda della ragione per cui essa viene applicata. Per quanto concerne la pena, agevole sarà comprendere che al non imputabile non potrà essere assolutamente irrogata la pena (non avrebbe effetto, poiché la non imputabilità, incidendo sulla colpevolezza, incide sulla capacità di percepire la propria rimproverabilità), all’imputabile si applicheranno le normali regole di scelta e commisurazione della pena, mentre al semi-imputabile la pena verrà applicata in versione ridotta, cioè diminuita.    

Idonei ad incidere sull’imputabilità sono il vizio di mente (infermità mentale), l’età, il sordomutismo e l’uso di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti.  

Il vizio di mente è disciplinato dagli articoli 88 e 89 e si basa sull’infermità psichica. Se essa è totale si avrà un vizio totale di mente, e il soggetto sarà non imputabile. Se invece l’infermità è parziale, anche il relativo vizio di mente lo sarà, e si applicheranno le regole della semi-imputabilità, viste prima. L’infermità di mente, originariamente, veniva vista come patologia, e quindi come valida solo se rientrante nei paradigmi medici, cioè solo se si fosse trattato di vera e propria malattia accertata e definita organicamente dalla scienza medica. Ne risultavano escluse le abnormità psichiche, cioè i disturbi atipici della personalità, le reazioni “a corto circuito”, le psicopatie e le nevrosi. Con una giurisprudenza costante dal 2005 si è rafforzata invece la tesi (già peraltro prospettata in dottrina) della loro suscettibilità di inclusione nel novero delle infermità quando per rilevanza e gravità siano tali da incidere sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Questo “al momento del fatto” deve essere interpretato come necessità di nesso di causalità tra il vizio di mente (totale o parziale) e la condotta generatrice dell’evento lesivo, cioè come condicio sine qua non. La Cassazione ha peraltro precisato che il vizio di mente (come del resto l’imputabilità in generale) non è incompatibile con l’elemento soggettivo, operando essi in campi diversi (il vizio di mente opera nell’ambito della imputabilità e quindi della colpevolezza; l’elemento soggettivo, pur essendo presupposto pratico della colpevolezza, opera al livello della tipicità come elemento descrittivo). L’unico effetto della non imputabilità sull’elemento soggettivo è quello di causare la sua degenerazione. Il dolo rileverebbe come mero finalismo, e la colpa come imprudenza o negligenza in senso lato. Il vizio di mente, tra l’altro, non deve per forza di cose derivare in via esclusiva dalla psiche, ma può derivare anche da problemi fisici che si riverberano sulla psiche.   
La differenza tra infermità e semi-infermità non è qualitativa ma quantitativa. Ciò significa che le tipologie di infermità rilevanti sono le stesse, ma che nella semi-infermità si verificherà un frazionamento della psiche in parte malata e parte sana. Superata quindi la concezione secondo la quale la semi-infermità era verificabile dal punto di vista pratico valutando se il soggetto riuscisse a svolgere solo una parte delle attività della vita quotidiana autonomamente. Più problematico risulterà quindi l’accertamento dell’incidenza della semi-infermità (vizio parziale di mente) sul fatto di reato, poiché si dovrà verificare:  
1) se la tipologia di vizio di mente è rilevante per il diritto penale. Rilevanti sono le patologie, e le abnormità psichiche che abbiano i caratteri prima indicati. 
2) se è condicio sine qua non rispetto al fatto.  
3) se, alla luce delle circostanze di fatto, dell’entità del vizio, dei rapporti con la vittima, si possa ritenere che la riprovevolezza della condotta avrebbe potuto essere percepita anche da tale soggetto malato. In caso di risposta affermativa a quest’ultimo quesito, la diminuzione della pena operante per il vizio parziale può essere minima, come più volte indicato dalla Cassazione (nei casi di violenze sessuali in famiglia perpetrate da soggetto con disturbo di controllo delle pulsioni). 

L’età (art. 97) è rilevante per l’ordinamento penale, in quanto i soggetti minori di 14 anni sono considerati non imputabili (se sono pericolosi socialmente gli si potrà applicare una misura di sicurezza). I soggetti dai 14 anni compiuti, fino ai 18 anni non compiuti sono considerati imputabili o non imputabili in base ad un accertamento giudiziale volto a comprendere se la maturità psichica posseduta dal giovane fosse sufficiente a permettergli di realizzare il disvalore della propria condotta e la rimproverabilità conseguente. Essi saranno puniti ma la pena sarà diminuita.  Il soggetto maggiorenne invece sarà considerato imputabile in base ad una presunzione, salva l’esistenza di cause che escludono l’imputabilità (vizio di mente, sordomutismo, assunzione di alcol o stupefacenti).  

Anche il sordomutismo (art. 96) può incidere sull’imputabilità quando è idoneo a escludere la capacità di intendere e di volere o a farla grandemente scemare. Si applicheranno le normali regole sull’imputabilità. Parte della dottrina ritiene che sia da valutare se il sordomutismo sia congenito o acquisito, poiché solo nel primo caso varrebbero le regole predette. Nel caso di sordomutismo acquisito, il soggetto disporrebbe comunque sempre di un bagaglio di esperienza idoneo a fronteggiare le situazione in maniera cosciente, consapevole degli effetti delle proprie azioni sulla realtà circostante.   

[Gli stati emotivi e passionali  (art. 90) invece non rilevano per la legge ai fini dell’imputabilità, cioè non sono idonei a farla scemare né ad eliminarla. I primi (stati emotivi) sono alterazioni normali dello stato psichico, di basso rilievo. I secondi (stati passionali) sono profondi turbamenti della psiche connessi ai sentimenti più forti (gelosia, rabbia, odio, ecc). In giurisprudenza vi sono visioni difformi in merito alla rilevanza di suddetti stati sull’imputabilità. La tesi più garantista ritiene che dovrebbe accordarsi rilevanza in presenza di due condizioni: l’essere il soggetto agente di personalità di per sé debole e l’aver espresso il proprio stato emotivo o passionale con gesti e atti idonei a rivelare uno squilibrio psichico, seppur non rientrante in concetti medici ben definiti.]  

Molto problematica la questione relativa al rapporto tra imputabilità e assunzione di alcol o sostanze droganti (d’ora in avanti per comodità si parlerà di “ubriachezza”, le cui regole si applicheranno anche all’assunzione di stupefacenti). Innanzitutto, sgombriamo il campo dalle situazioni di più agevole soluzione.  
1) Nel caso in cui l’ubriachezza derivi da forza maggiore o caso fortuito (art. 91), e crei uno stato di totale incapacità nel soggetto agente, opererà la normale regola dell’assenza di coscienza e volontà richiesta dall’art. 42 c.p. con conseguente venir meno del fatto tipico e connessa assenza di punibilità. Se la capacità di intendere e di volere sarà solo scemata, si applicheranno le regole della semi-imputabilità.  
2) Nel caso in cui un soggetto compia il fatto nello stato di cronica intossicazione (art. 95) da alcol o stupefacenti, la punibilità è totalmente esclusa, poiché la cronica intossicazione è una patologia che causa il perpetuo occultamento della capacità di intendere e di volere.  
3) Se il soggetto compie il fatto in stato di ubriachezza abituale (art. 94), non solo sarà punito ma la pena è aumentata. L’ubriachezza abituale non è una patologia, ma uno stato frequente di ubriachezza intervallata con momenti di lucidità. Il fatto che la pena sia aggravata è, secondo molti, incostituzionale, perché varrebbe a segnare l’esistenza di un diritto penale d’autore (e non è l’unico caso. Un altro esempio è il reato di pedopornografia virtuale) a discapito del diritto penale del fatto.  
4) Se l’agente si pone nello stato di incapacità di intendere e di volere (art. 92 co. II) assumendo droga o alcol al fine di rimuovere da se stesso i freni inibitori e commettere così il reato o prepararsi una scusa, sarà normalmente punito, per reato doloso nel caso in cui vi sia corrispondenza tra il programmato e il realizzato; per reato colposo (quando il fatto è punito dall’ordinamento anche per colpa) qualora vi sia discordanza tra quanto rappresentatosi nella mente del reo e quanto attuato.  

Rimane da analizzare la situazione più problematica e più criticata, tanto dagli operatori del diritto, quanto dall’opinione pubblica. Il caso in cui un soggetto si ponga colposamente (per leggerezza) o dolosamente (volontariamente) (art. 92)  nello stato di incapacità di intendere e di volere attraverso l’uso di bevande alcoliche senza ovviamente voler compiere il reato (altrimenti opererebbe, nel caso di volontà di porsi in tale stato, la regola di cui al numero 4).  
L’articolo 92 co. I c.p. disciplina una fictio dell’ordinamento penale: lo stato di incapacità di intendere e di volere derivante dall’aver abusato volontariamente o colposamente di bevande alcoliche non esclude la punibilità. E’ una fictio in quanto l’art. 85 dispone nello stesso tempo che l’incapacità di intendere e di volere è non imputabilità, e di conseguenza porta alla non punibilità. Una volta chiarito il meccanismo che opera per legge, v’è da chiedersi a che titolo sarà punito un soggetto per il reato compiuto: se per colpa o per dolo. O meglio, ci si interroga su come si faccia a stabilirlo in concreto. La dottrina proponeva in principio una teoria: l’elemento soggettivo da scegliere è quello che regge il momento in cui il soggetto fa uso di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti. In breve, se il soggetto abusa volontariamente di bevande alcoliche o assume volontariamente sostanza drogante, l’elemento soggettivo dovrebbe essere quello del dolo (eventuale). In caso contrario, sarà quello della colpa. La teoria fu criticata e accantonata poiché rimetteva la scelta dell’elemento soggettivo del reato a caratteristiche relative ad un momento irrilevante per il diritto penale (il momento in cui il soggetto siede ad un bar e beve). Fu scelto allora il criterio dell’ hic et nunc, cioè dell’accertamento del legame psichico esistente nel momento in cui il soggetto commette il reato. Ma, dato che non può non rilevarsi come il soggetto, nel momento in cui commette il fatto, non sia capace di intendere e di volere, la giurisprudenza è adusa a punire per colpa. Non mancano però pronunce con cui la Corte di Cassazione ha consentito la sanzione per dolo eventuale, utilizzando come parametro, però, il fatto che il soggetto si sia ad esempio messo alla guida pur rappresentandosi l’evento come concreto, e accettandone il rischio di verificazione. D’altronde la scelta dell’ordinamento di assoggettare queste fattispecie ad una fictio iuris deriva da un’esigenza di prevenzione generale di reati che avvengono con una frequenza elevata a causa dell’abuso di alcol (si pensi agli incidenti stradali). Il corto-circuito è evidente: l’art. 92 permette di punire sia per colpa che per dolo ma il giudizio sull’elemento soggettivo si verifica tenendo conto di un momento in cui il soggetto è incapace di intendere e di volere. Se l’ordinamento non permettesse la punibilità, però, i reati conseguenti all’abuso di alcol o droghe aumenterebbero a dismisura, con buona pace della sicurezza pubblica e della tutela delle vittime. Nulla quaestio, quindi, per la punibilità per colpa. La problematica è più evidente nell’ambito del riconoscimento del dolo.  

Chi scrive ritiene che: 

- nel caso di semi-imputabilità, il dolo eventuale è per sua natura possibile, poiché la parziale capacità poteva portare il soggetto ad una maggiore “coscienziosità”, dalla quale avrebbe dovuto conseguire un comportamento diligente del soggetto, che non costituisse pericolo per gli altri. L’elemento soggettivo, cioè, può essere valutato normalmente con riferimento al momento di violazione della norma precauzionale.  
- nel caso di non imputabilità (totale), la fictio dell’art. 92 è vistosa (ma necessaria), perché il dolo eventuale presuppone l’accettazione del rischio. Tale accettazione presuppone a sua volta un minimo di lucidità mentale, lucidità che è evidentemente assente. Di conseguenza, per punire per dolo eventuale un soggetto assolutamente non imputabile al momento del fatto, si dovrebbe per forza di cose far discendere la punibilità da un rimprovero che si muove al soggetto nel momento in cui abusava della bevanda alcolica (momento che è generalmente irrilevante per il diritto penale poiché non appartiene all’esecuzione criminosa), e il rimprovero dovrebbe fondarsi sul fatto che la persona, forte delle sicure conoscenze in termini di possibilità di commettere il reato da ebbra, nonostante ciò abusava dell’alcol.  

SCUSANTI LEGALMENTE RICONOSCIUTE.  

Alcune norme presenti nel codice penale sono idonee ad essere valutate come scusanti, cioè a trovare la loro ragion d’essere nella non esigibilità di un comportamento difforme da quello tenuto in concreto dall’agente, e conforme a paradigma normativo, anche se, a volte, possono sembrare altro. Se ne propone sinteticamente un elenco:  

- art. 5 sull’ignoranza della norma penale, così come rivalutata dalla sentenza 364/88 della Corte Costituzionale; 
- art. 51 (relativamente all’adempimento del dovere per ordine insindacabile dell’Autorità); 
- art. 52 co. II (legittima difesa domiciliare);  
- art. 54 (stato di necessità).  
[- anche l’intera categoria dell’errore può a volte portare all’esclusione della rimproverabilità e quindi della colpevolezza, ma non perché essa escluda direttamente la colpevolezza, bensì perché l’errore potrebbe innestarsi su un soggetto non rimproverabile (errore inevitabile).] 


LA CATEGORIA DELL’ERRORE. 

L’errore non è una categoria unica, bensì si scinde in due sotto-categorie: l’errore motivo e l’errore inabilità. Il primo è una falsa rappresentazione della realtà che opera nella fase di ideazione della condotta e dà origine ad un’azione che non sarebbe nata senza l’errore, mentre il secondo si sostanzia nella scorretta esecuzione dell’attività oggetto della propria condotta (la quale può essere lecita o illecito, come nei casi, rispettivamente, di eccesso colposo nell’uso di una scriminante, e di aberratio ictus o aberratio delicti), quindi l’azione sarebbe comunque nata, ma non sarebbe sfociata nello specifico evento. Inutile dire che entrambi i tipi di errore sono rilevanti per il diritto penale nel momento in cui da essi scaturisca l’evento punito come reato.  

Per quanto concerne l’errore-motivo, questo contempla le due ipotesi di falsa rappresentazione di un quid della realtà materiale o giuridica (rappresentazione imperfetta), e dell’ignoranza (rappresentazione mancante). 
L’errore-motivo è contemplato nelle seguenti ipotesi:  
- art. 47 c.p. (errore motivo sul fatto). 
- art. 59 c.p. ultimo comma (errore motivo sull’esistenza di una causa di giustificazione).  
- art. 5 c.p. (errore motivo sul diritto). 

L’errore-inabilità  si manifesta, invece, nei già richiamati fenomeni di aberratio ( ictus e delicti) e nel caso di eccesso colposo nell’utilizzo di una causa di giustificazione. (Mi verrebbe da aggiungere il delitto preterintenzionale, se lo si considera come aberratio delicti dello stesso genus del delitto di base a cui ambiva l’agente)  

Caso a parte è il reato putativo, che verrà affrontato singolarmente, essendo meno problematico dei casi prospettati finora.  

>> Cominciamo con l’errore-motivo ex art. 47. Questa norma ci dice che è esclusa la punibilità quando l’evento si origina da un errore sul fatto tipico (c.d. errore sul fatto). Tuttavia, se l’errore deriva da colpa e l’evento è punito dall’ordinamento anche come reato colposo, la punibilità non è esclusa. Si punirà, appunto, per colpa. L’articolo, già analizzato in parte quando si parlava del dolo, è stato utilizzato proprio per comprendere l’oggetto di quest’ultimo, cioè il fatto tipico. In breve, se il soggetto mal si rappresenta (o non si rappresenta) un elemento costitutivo del fatto tipico, il dolo sarà escluso, e tendenzialmente anche la punibilità. Essa tornerà ad affiorare nel momento in cui si ritenga che, se il soggetto avesse riposto più attenzione (rectius, se fosse stato più diligente), l’evento non si sarebbe verificato, perché si sarebbe rappresentato esattamente gli elementi della fattispecie. Ciò vuol dire, letto a contrario, che se il dolo è escluso e l’evento è punito come reato colposo ma il soggetto non è in concreto rimproverabile, la punibilità sarà totalmente esclusa, perché verrà a mancare la colpevolezza.  
Se l’errore cade su un elemento costitutivo specializzante (cioè un elemento che la fattispecie presenta in più rispetto ad un’altra fattispecie penale, art. 47 co. III), l’ordinamento considererà che il soggetto sia stato comunque in dolo per la fattispecie generale (cioè quella che non presenta l’elemento specializzante) ed egli verrà punito per il reato (doloso) generale. 
Il problema sorge per i casi di errore su elemento degradante il dolo, cioè il caso in cui l’errore, cadendo su un elemento specializzante, apre le porte all’applicazione di una fattispecie penale (generale) più grave di quella su cui cadeva l’errore. Il tipico (forse unico) esempio è quello dell’omicidio del consenziente. Cosa succede se il soggetto ritiene erroneamente di aver avuto il consenso? La dottrina si è divisa tra chi ritiene che si debba applicare la fattispecie di omicidio, e chi ribatte in maniera contraria, sostenendo che il dolo relativo all’omicidio del consenziente non inglobi il dolo di omicidio, che non sia applicabile l’art. 47 comma III e che quindi si debba ragionare in termini di favor rei, attraverso due strade prospettabili:  
1) in primis, riconoscere l’applicazione della fattispecie di omicidio del consenziente, in virtù di un’applicazione analogica dell’articolo 59 ult. comma, come se il consenso fosse causa di giustificazione (art. 50 c.p.) che il soggetto ritiene erroneamente esistente e quindi debba essere applicata ritenendola effettivamente esistente. 
2) se non si vuole seguire la prima strada, riconoscere l’applicazione della fattispecie di omicidio con attenuanti generiche e attenuante dei motivi di alto valore sociale e morale. 

L’articolo 47 comma IV esprime una situazione importante e dibattuta. Esso ci dice che l’errore su norma diversa da quella penale, che abbia causato un errore sul fatto, avrà le stesse conseguenze disciplinate dal primo comma. Innanzitutto questo comma IV ci permette di suddividere la categoria dell’errore sul fatto in due sottocategorie: l’errore di fatto sul fatto e l’errore di diritto sul fatto. L’errore di fatto sul fatto (art. 47 co. I)  si ha quando l’errore cade su un elemento descrittivo della fattispecie (es. il cacciatore che spara uccidendo il collega in un bosco, ritenendolo selvaggina per errore, mal si rappresenta il concetto di “uomo” dell’art. 575 c.p., che è elemento descrittivo); l’errore di diritto sul fatto (art. 47 co. IV) si ha quando l’errore cade su un elemento normativo della fattispecie (es., sottraggo la cosa altrui senza sapere che è altrui, il che implica la conoscenza di norme diverse dalla fattispecie penale, come quelle sulla proprietà). La giurisprudenza propende per la distinzione tra i casi in cui la norma diversa da quella incriminatrice è integratrice di quest’ultima, e i casi in cui non lo è. Nel primo caso, l’errore sulla norma diversa integratrice della fattispecie penale di riferimento non scusa, poiché si tramuterebbe in errore non sul fatto bensì sul diritto (art. 5 c.p.), che non scusa in base al principio ignorantia legis neminem excusat. In realtà, si può dire che ogni norma extrapenale, cioè diversa dalla fattispecie penale di riferimento (ma si può trattare anche di un’altra norma penale), che sia in qualche modo “richiamata” da quest’ultima, la integra, e questo causerebbe la disapplicazione permanente dell’articolo 47 comma IV. Spesso la giurisprudenza riflette in questi termini, con grave danno dell’applicazione ragionevole del diritto.    

>> Sugli articoli 59 ult. comma e 5 cod. pen. si rimanda ad altra sede. L’art. 59 ult. comma è già stato analizzato quando si parlava di cause di giustificazione e antigiuridicità. L’articolo 5 è meglio comprensibile quando si parlerà di responsabilità oggettiva, in quanto l’articolo, prima della sentenza 364/88 altro non faceva se non addossare obbiettivamente le conseguenze dell’ignoranza della legge sul soggetto agente. 

>> Continuiamo, quindi, con il fenomeno dell’aberratio. Si tratta di un duplice fenomeno, disciplinato dagli articoli 82 e 83 del codice penale.  
Il primo disciplina l’aberratio ictus, vale a dire l’offesa a persona diversa rispetto a quella nei cui confronti doveva perpetrarsi il reato. Il soggetto agente, che per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per altra causa cagiona l’offesa a tale persona diversa da quella presa di mira, risponde come se avesse compiuto il reato nei confronti della persona prescelta e non di quella errata. Questa ipotesi è considerata un’ipotesi di responsabilità oggettiva, e dovrà essere riveduta alla luce del principio di colpevolezza, il quale deve portare ad applicare tale norma solo nel caso in cui l’errore (o l’altra causa) derivi da colpa.  
Nel caso in cui l’agente riesca ad offendere anche il soggetto prescelto (aberratio ictus bilesiva), si applicherà la pena del reato doloso, aumentata della metà.  
Non è disciplinato il caso di aberratio ictus plurilesiva, nel senso che il soggetto offenda tizio (prescelto), Caio (erroneamente) , ed altri. Si ritiene che debba essere applicata la regola del concorso formale di reati tra il reato doloso e i reati non voluti, valutati secondo il parametro della colpa. Altra parte della dottrina ritiene che debbano essere aggiunte alla pena per il reato voluto, tanti aumenti della metà, quanti sono i reati colposi. Si potrebbe (tesi di chi scrive) anche pensare di trattare l’aberratio ictus plurilesiva come aberratio ictus bilesiva (il cui computo della pena è tipizzato) in concorso formale con gli altri reati colposi. Occorre sgombrare il campo da un possibile fraintendimento. L’aberratio ictus non ha nulla a che vedere con l’errore sulle qualità del soggetto passivo. Nella prima figura, il soggetto agente non vuole colpire il soggetto diverso da quello preso di mira. Nella seconda, l’agente vuole colpire quella persona ma non si rappresenta alcune delle sue qualità. Nel caso in cui queste qualità siano elementi costitutivi del fatto, si applicherà l’articolo 47 (errore sul fatto). Nel caso in cui queste qualità diano origine all’applicazione di aggravanti, non solo esse non si applicheranno, ma si applicheranno eventuali attenuanti che sarebbero sussistite se il soggetto passivo avesse avuto le caratteristiche immaginate dall’agente.  

L’aberratio delicti si verifica quando l’agente, sempre per il medesimo tipo di errore (nell’esecuzione, o per altra causa) cagiona un evento difforme da quello voluto. La norma dice che, se l’evento difforme realizza un reato punito dalla legge come reato colposo, l’agente ne risponderà a titolo di colpa. Il problema, in passato, era comprendere se questo “a titolo di colpa” significasse “come se fosse colposo” o “a titolo di colpa se essa viene accertata”. Nel primo caso ci troveremmo dinanzi ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Nel secondo caso invece la norma sarebbe compatibile col principio di colpevolezza. La dottrina maggioritaria propende per la prima soluzione. La disputa, ad ogni modo, non ha attualmente rilevanza, poiché tutto il diritto penale passa per il principio di colpevolezza, e di conseguenza ci dovrà sempre essere accertamento sull’esistenza degli elementi soggettivi (in questo caso, della colpa). Anche l’aberratio delicti può essere bilesiva o plurilesiva. In entrambi i casi, si applicheranno le regole sul concorso formale di reati (art. 83 comma II, che richiama l’articolo 81 c.p.). 

>> Eccesso colposo e delitto preterintenzionale sono trattati nelle rispettive sedi più opportune. Del primo si è trattato nell’ambito delle cause di giustificazione. Del secondo si tratterà nell’ambito della responsabilità oggettiva. 

>> Rimane quindi da chiarire cosa si intende per reato putativo. Esso è disciplinato dall’articolo 49 co. I del codice penale. Quest’ultimo dispone che un soggetto non è punito quando compie un’azione che non costituisce reato, nell’erronea convinzione che esso invece costituisca effettivamente reato. Nulla quaestio su questo comma dell’articolo predetto, in quanto altro non è che un’espressione del principio di materialità e di legalità : un reato è tale se previsto dalla legge, non se un soggetto ritiene sia tale (principio di legalità). A nulla rileva l’intenzione di commettere un reato se da questa intenzione si origina in realtà una condotta che reato non è (principio di materialità – l’intenzione criminosa non rileva se il reato non è commesso).  
L’errore che si pone alla base del reato putativo può essere di tre tipi:  
1) il soggetto si immagina l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie di reato, che in realtà non esiste.  
2) il soggetto ritiene che stia agendo in assenza di causa di giustificazione, e in realtà essa sussiste pienamente.  
3) il soggetto ritiene di avere la qualifica per commettere un reato proprio, ma in realtà non ha questa qualifica. Ai fini dell’assenza di punibilità, però, il soggetto non deve compiere un’attività che, oltre a costituire il reato proprio attraverso la presenza della qualifica assente, trovi una collocazione parallela in un reato comune. (Es., se Tizio vuole commettere peculato e ritiene per errore che lo sta commettendo, in quanto si reputa pubblico ufficiale, non potrà essere punito per peculato, ma sarà punito pe

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