lunedì 14 novembre 2011

Le conseguenze penali della diffusione su chat pubblica di dati sensibili altrui.

Cassazione penale, sez. III, 1 giugno 2011, n. 21839.

Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione affronta la questione della applicabilità del reato di cui all’art. 167 D.L.vo 196/2003 (legge sulla privacy) anche a colui che, senza essere istituzionalmente depositario della tenuta di dati sensibili, ne faccia diffusione illecita.
Il caso è quello di Tizio il quale, nel corso di un colloquio virtuale su una chatline, utilizzando quale nickname la sigla “weboy 21”, si inseriva in un canale chat privato gestito da Caio intrattenendo con lo stesso una conversazione virtuale poi degenerata (seguita, in particolare, da una telefonata di insulti rivolti dal Tizio al Caio) e diffondendo sulla chat pubblica il numero dell’utenza cellulare del Caio, del quale era venuto a conoscenza durante quel colloquio.
La questione è quella di stabilire se nella definizione di “titolare di dati sensibili” di cui all’art. 4 della Legge 196/03, ai fini della applicazione del reato di “Trattamento illecito dei dati personali”, possa rientrare il privato cittadino che occasionalmente sia venuto in possesso di un dato c.d. “sensibile” appartenente ad altro soggetto, dandogli diffusione indebita.
Il richiamato art. 4, alla lett. f) indica tra il “titolare” deputato ad assumere decisioni in ordine alle finalità, modalità del trattamento dei dati e agli strumenti attuativi, espressamente “la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo preposto” al detto compito.
La Cassazione, negando l’interpretazione restrittiva dell’art. 167 sostenuta dall’imputato ne rigetta il ricorso.
In particolare afferma che “Ad una semplice lettura della norma punitiva, l’incipit “chiunque” già esclude in radice una interpretazione in senso restrittivo riferita ai destinatari: ma anche a voler ricollegare - come mostra di fare la difesa del ricorrente - l’art. 167 all’art. 4 è evidente che laddove si parla di persona fisica, ci si intende riferire al soggetto privato in sé considerato, e non solo a quello che svolga un compito, per così dire, istituzionale, di depositario della tenuta di dati sensibili e delle loro modalità di utilizzazione all’esterno: una interpretazione siffatta finirebbe con l’esonerare in modo irragionevole dall’area penale tutti i soggetti privati, così permettendo quella massiccia diffusione di dati personali che il legislatore, invece, tende ad evitare.
Può quindi affermarsi senza tema di smentita che l’assoggettamento alla norma in tema di divieto di diffusione di dati sensibili riguardi tutti indistintamente i soggetti entrati in possesso di dati, i quali saranno tenuti a rispettare sacralmente la privacy di altri soggetti con i primi entrati in contatto, al fine di assicurare un corretto trattamento di quei dati senza arbitrii o pericolose intrusioni.
Né la punibilità - in caso di indebita diffusione dei dati - può dirsi esclusa se il soggetto detentore del dato abbia ciò acquisito in via casuale, in quanto la norma non punisce di certo il recepimento del dato, quanto la sua indebita diffusione.
Nel caso di specie è proprio questo che è accaduto: il Tizio, venuto in possesso, peraltro non casualmente come sostenuto dal suo difensore per come è dato leggere dalla sentenza impugnata, di un dato sensibile (numero di utenza cellulare) per essergli stato fornito dal suo interlocutore del momento (il Caio), si è determinato a diffonderlo su altri canali con ciò compromettendo la riservatezza del dato che la norma intende salvaguardare.
Correttamente la Corte ha individuato il Tizio quale destinatario della norma e soprattutto, ancor più correttamente, la Corte ha ritenuto che quella indebita diffusione del dato costituisca uno dei modi di intendere la nozione di trattamento codificata dalla norma incriminatrice: invero il concetto di trattamento va inteso in senso ampio per come di già lo afferma il legislatore laddove elenca tutta una serie di condotte sintomatiche, non circoscritto quindi ad una raccolta di dati, ma anche - e soprattutto - alla diffusione indebita senza il consenso dell’interessato, del dato acquisito, non importa se casualmente o meno (circostanza che, nel caso di specie, la Corte ha comunque escluso).
Quanto poi al concetto del danno del quale la condotta denunciata sarebbe - ad avviso del ricorrente - priva, si tratta di una opinione nient’affatto condivisibile e nemmeno giustificata dalla realtà dei fatti per come afferma la Corte territoriale, sia pure in modo implicito. Invero la diffusione in ambito generalizzato di un numero di utenza cellulare - per sua intrinseca natura, riservato, tanto è vero che solitamente negli elenchi telefonici pubblici distribuiti dalla TIM (ma anche in altri elenchi in possesso di soggetti che li tengono a disposizione dei terzi) figura solo il numero telefonico pubblicabile e mai quello di un’utenza cellulare a meno che il suo titolare non vi abbia consentito - è certamente produttiva di danno: elemento, quest’ultimo, preso in considerazione dal legislatore che lo ricollega all’elemento soggettivo del reato inteso quale dolo specifico (”al fine di recare ad altri un danno” recita la prima parte dell’art. 167 citato).
Danno che la Corte territoriale - diversamente da quanto opinato dalla difesa del ricorrente - ha individuata proprio nella diffusione non consentita, specie perché preceduta da un intento ritorsivo, in risposta ad una diffida rivolta dal Caio al Tizio affinché si astenesse da indebite intromissioni pubblicitarie: comportamento che colora ancor meglio sia l’elemento soggettivo che quello oggettivo del reato.
Quanto all’elemento danno, è del tutto evidente che non si versa in quella ipotesi di “minimo vulnus all’identità personale del soggetto passivo ed alla sua privacy” in presenza del quale la condotta materiale di tipo diffusivo sarebbe scriminata (in termini Cass. sez 3, 28.05.2004 n. 30134, Barone, Rv. 229472), in quanto una diffusione ad ampio raggio, indipendentemente dal tempo più o meno breve di stazionamento del messaggio sulla chat line (tempo nel caso in esame non quantificabile per come ricordato dalla Corte Territoriale) consente a chiunque di prendere cognizione di numeri telefonici riservati.
Ed anzi, l’esigenza che tale evenienza non accadesse traspare ancor più chiaramente riverberandosi quindi sulla esistenza del danno, nella misura in cui si legge che il B. si era recisamente lamentato di intrusioni pubblicitarie sulla sua chat line, segno evidente che detta persona tenesse ad una particolare riservatezza nelle comunicazioni con terzi e che, quindi, una una diffusione allargata avrebbe potuto generare altri contatti indesiderati e lesivi della privacy.
Le considerazioni di cui sopra appaiono sufficienti per giudicare infondata anche la doglianza - peraltro formulata in termini fin troppo generici e quasi ai limiti della inammissibilità rivolta verso l’assetto motivazionale della sentenza ritenuto inadeguato e carente rispetto alle doglianze difensive: la Corte territoriale, nel premettere quali fossero le doglianze contenute nell’atto di appello, le ha esaminate partitamene, dando risposta a ciascuno dei quesiti proposti in modo coerente e logico anche se sintetico”.

Nessun commento:

Posta un commento