sabato 3 marzo 2012

Il medico del mafioso: favoreggiatore o associato?


 di Domenico Farina

(Traccia esame avvocato 2001)
Tizio, associato alla mafia, partecipa ad un conflitto a fuoco, con gli esponenti di un cosca rivale, riportando ferite da arma da fuoco ad un piede. Per le necessarie cure viene approntato, in luogo isolato e difficilmente raggiungibile un ambulatorio di fortuna, nel quale viene chiamato a prestare la sua opera, nottetempo, Caio, medico chirurgo, con l'ausilio di un anestesista e due infermieri. Caio, consapevole dell'appartenenza di Tizio ad un'associazione per delinquere di stampo mafioso, presta la propria opera di soccorso ed omette di trasmettere il referto all'Autorità giudiziaria, tornando più volte anche nei giorni successivi a trovare il paziente per verificarne le condizioni di salute. Temendo conseguenze per la sua condotta, Caio si reca successivamente da un legale. Il candidato, assunte le vesti del legale, premessi cenni sulla differenza tra il reato di partecipazione ad associazione mafiosa ed il reato di favoreggiamento, delinei la problematica sottesa alla fattispecie in esame e rediga motivato parere.
Possibile Soluzione
Nel caso di specie illustrato, due sono le fattispecie criminose che assumono rilievo: il delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p. ed il reato di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p. Le differenze strutturali tra le due figure in esame sono evidenti e significative.

Nel reato di associazione mafiosa (camorristica o comunque denominata nel contesto geografico d’origine) il bene giuridico tutelato è l’ordine pubblico, minacciato già dalla semplice esistenza di siffatte organizzazioni; gli elementi costitutivi sono rintracciabili rispettivamente nella forza di intimidazione derivante dal sodalizio criminoso (il c.d. “metodo mafioso”), la condizione di assoggettamento e di omertà di cui si avvalgono gli affiliati, nonché, infine, le finalità perseguite.
Notevolmente distinto da questo è, invece, il reato di favoreggiamento personale, nel quale l’interesse protetto è il sereno ed efficace svolgimento della funzione giudiziaria. Tale fattispecie risulta integrata quando la condotta del soggetto agente sia effettivamente idonea a turbare l’esercizio della funzione giurisdizionale, non richiedendosi, tuttavia, che le attività investigative siano effettivamente fuorviate.
Nel caso di specie proposto, la problematica riguarda la configurabilità in capo al medico Caio dei reati cui si è appena fatto cenno, in relazione alla sua continuata opera di soccorso perpetrata con la consapevolezza dell’appartenenza di Tizio ad un’associazione di stampo mafioso.
Innanzitutto non sembra possano nutrirsi dubbi sulla non riconducibilità della condotta di Caio nei canoni tipici del reato di associazione ex art. 416 bis c.p.; infatti non è assolutamente rintracciabile alcuno dei profili strutturali, sopra citati, che caratterizzano la fattispecie. Va ulteriormente puntualizzato che il reato associativo non potrebbe ritenersi sussistente nemmeno nella forma del concorso “esterno” o “eventuale”, figura ampiamente controversa. La Giurisprudenza maggioritaria, infatti, àncora la sussistenza del concorso esterno ad un’attività che assume i connotati di un contributo consapevole e volontario, esplicante una effettiva rilevanza causale, ergendosi a condizione necessaria di conservazione e rafforzamento delle capacità operative dell’organizzazione. (Cass. SS.UU. 12/7/2005 – 20/9/2005 n. 33748; nello stesso senso si veda Cass. SS.UU. 30/10/2002 – 21/5/2003 n. 22327).
Di conseguenza, l’unica fattispecie ipotizzabile in relazione alla condotta di Caio potrebbe essere quella del favoreggiamento personale. Vanno, però, svolte delle considerazioni sulla natura della condotta suscettibile di essere configurata come favoreggiamento personale. In primis, per quanto concerne l’elemento temporale cui si fa cenno al comma 1 dell’art. 378 c.p., nel caso concreto è superflua ogni divagazione, in quanto l’intervento del medico non può che essere successivo alla commissione del reato; ciò conferma la piena coincidenza con la fattispecie incriminatrice. In secundis, il legislatore nel codice usa l’espressione chiunque “aiuta taluno” ad eludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa. Al riguardo è legittimo interrogarsi sul concetto di “aiuto”. La Giurisprudenza di Legittimità è alquanto chiara sul punto: numerose sono le sentenze che attribuiscono rilevanza penale alla condotta di turbamento della funzione giudiziaria, sia quando si manifesti in un atteggiamento “attivo” che “passivo”. Secondo la Cassazione, infatti, basterebbe che il comportamento dell’agente sia potenzialmente idoneo ad aiutare il colpevole, eludendo le investigazioni in atto, prescindendo, quindi, dalla natura positiva o negativa del medesimo. (Cass. Sez. VI 3/11/1997 – 19/1/1998 n. 539).
Per gli interessi di Caio, è fondamentale segnalare anche un orientamento minoritario della Giurisprudenza di Legittimità, che, con specifico riferimento alla figura del medico, si è espressa nel senso di non riconoscere rilievo alla condotta omissiva. Più precisamente la Suprema Corte afferma che con il termine “aiuto” il Legislatore alluderebbe all’esplicazione di un’attività esclusivamente positiva, escludendo qualunque atteggiamento meramente negativo: si osserva, giustamente, che nessuna norma impone di attivarsi allo scopo di collaborare nell’attività investigativa. Ne deriva, pertanto, che l’omissione va considerata penalmente irrilevante. (Cass. 28/3/1960 – Marmetto + Altri; conforme Cass. Sez. V 2001 n.31657).
Alla luce di queste considerazioni, la posizione di Caio dipende strettamente dall’orientamento che il giudice a quo vorrà fare proprio. Qualora decidesse di aderire all’indirizzo maggioritario, non si potrebbe che pervenire all’affermazione della penale responsabilità di Caio, la cui condotta integra con la fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice. Invece, nel caso in cui il giudice a quo si risolvesse nell’adottare l’orientamento interpretativo minoritario, allora la responsabilità di Caio dovrebbe senz’altro escludersi, essendosi manifestata esclusivamente in forma omissiva; atteggiamento che, come abbiamo avuto modo di comprendere, non avrebbe alcun rilievo penale.
Prima di concludere va necessariamente rappresentata un’ultima opzione ermeneutica nella quale la posizione di Caio potrebbe trovare conforto. Si potrebbe, infatti fare riferimento ad una prospettiva ricostruttiva alternativa, ancorata alla fattispecie contemplata dall’art. 365 c.p. rubricato “Omissione di referto”. Tale norma, al primo comma, punisce chiunque, prestando la propria assistenza nell’esercizio di una professione sanitaria e venendo a conoscenza di un reato procedibile d’ufficio, omette o ritarda l’azione di riferirne all’A.G. Il secondo comma, però, è illuminante. Questo esclude l’applicabilità della disposizione di cui al primo comma quando il referto esporrebbe l’assistito al procedimento penale. Questa limitazione trova la sua ratio nell’esigenza di bilanciare l’interesse all’efficiente e solerte amministrazione della Giustizia con il non meno importante dovere di riservatezza professionale che vincola i medici e gli esercenti professioni sanitarie. Questo discorso consente di aprire un nuovo e suggestivo scenario. Assumendo come norma di riferimento il comma 2 dell’art. 365 c.p., andremmo a rimuovere qualsiasi ipotesi di penale responsabilità in capo al dott. Caio, il cui atteggiamento costituirebbe niente altro che una legittima opposizione del segreto professionale. Tratteggiando l’ipotesi in questi termini, il dott. Caio dormirebbe sonni tranquilli.       

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