martedì 6 marzo 2012

Gomitata durante la partita di calcetto: reato di lesioni colpose gravissime. I limiti della scriminante del rischio consentito



Cassazione penale, sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 7768

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Nella sentenza in commento la Suprema Corte si trova nuovamente a tracciare i confini della scriminante del c.d. “rischio consentito” durante lo svolgimento di un’attività sportiva. Ci si chiede se esorbita dall’area di non punibilità la condotta di gioco, pur finalizzata allo sviluppo di un'azione di gioco, ma in cosciente e volontaria violazione del regolamento sportivo, che si appalesi come assolutamente sproporzionata ed estranea alle finalità del gioco e contraria ai principi base di lealtà e correttezza.
La Corte ritiene che in tal caso si esorbita dall'area di non punibilità in ragione dell'operatività della scriminante non codificata del c.d. rischio consentito.
Il caso è quello di Caio che viene  condannato per il delitto di cui all'art. 590, comma 2 cod. pen. (così modificata l'originaria contestazione ex artt. 582, 583, comma 1 n. 1 e comma 2 n. 3, 585, comma 1, 577, comma 1 n. 4 in relazione all'art. 61 n. 1 cod. pen.) commesso in Firenze il 24 aprile 2004 in danno di Tizio che, colpito con una violenta gomitata all'addome nel corso di una partita di calcio amatoriale, aveva subito lesioni personali consistite nella rottura della milza ed in ematoma di pancreas sì da rendere necessario ed urgente un intervento chirurgico di splenectomia; dalle quali era derivata una malattia giudicata guaribile in 110 giorni nonché la perdita dell'uso dell'organo della milza. All'esito dell'istruttoria espletata nel corso del giudizio di primo grado, era rimasto accertato che, mentre Tizio stava correndo - palla al piede - lungo la linea laterale destra sulla trequarti della metà-campo avversaria, era intervenuto, sulla sinistra l'imputato (difensore dell'opposta compagine che, durante tutta la partita, aveva attinto lo I. con ripetuti falli) colpendolo con una violentissima gomitata al fianco sinistro, di fatto disinteressandosi del pallone.
Il Tribunale, c:on argomentazioni condivise dalla Corte d'appello, aveva ritenuto che il gesto, sicuramente volontario, assolutamente contrario alle regole del gioco e del tutto sproporzionato alla natura amichevole della partita, scevra da contenuti di esasperato agonismo e di aspettativa di vittoria per coloro che vi prendevano parte, era tuttavia connesso ad un'azione di gioco volta ad acquisire il controllo del pallone dall'avversario. Sicché la condotta dell'imputato, benché non connotabile in termini dolosi (non essendo il gioco un mero pretesto od una studiata occasione per colpire proditoriamente ed immotivatamente Tizio) aveva tuttavia travalicato i limiti della scriminante non codificata del c.d. rischio consentito,. ricostruita dalla giurisprudenza in applicazione del combinato disposto degli artt. 50 e 51 cod. pen. restando quindi configurabile una responsabilità dell'imputato a titolo di lesioni colpose gravissime.
Di seguito si riporta la motivazione della Suprema Corte:

“Infondati risultano il primo ed il secondo motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente siccome intimamente connessi.
Va premesso che, secondo consolidati orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, le pratiche sportive possono suddividersi in due categorie concettuali, a seconda che escludano o meno il contatto fisico e quindi l'uso della violenza nei confronti dell’avversario. Questa seconda categoria si suddivide ulteriormente in due partizioni a seconda che le forme di applicazione della violenza fisica risultino meramente eventuali (come nel caso del calcio c.d. a cinque o “calcetto”) oppure necessarie, coessenziali alla natura stessa della specifica attività sportiva (come il pugilato). È quindi del tutto pacifico che nella pratica degli sports a “violenza eventuale” ben possono prodursi effetti anche lesivi dell'incolumità degli atleti, essendo il c.d. rischio sportivo fisiologicamente coessenziale alla partecipazione .alla gara stessa (in cui rivestono un ruolo rilevante sia la prestanza fisica che le capacità di soverchiare l'avversario, ai fini del mantenimento più a lungo possibile del possesso del pallone fino a giungere alla meta, come ad esempio accade nel gioco del calcio). Detto rischio viene invero contenuto entro limiti non pregiudizievoli dall'imposizione di regolamenti specifici disciplinanti le medesime pratiche sportive, con i quali in buona sostanza si pongono regole cautelari scritte, la cui violazione implica la responsabilità per colpa ex art. 43 cod. pen.. Ora, quanto alle lesioni personali derivanti dalla pratica sportiva, si è ritenuto in dottrina ed in giurisprudenza che dette condotte restino all'interno del semplice illecito sportivo (penalmente irrilevante) pur costituendo infrazione alla disciplina dello svolgimento della stessa attività sportiva, “in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito” (cfr. Cass. pen. Sez. 5 n. 19473 del 2005). Ed invero nella partecipazione ad una gara è insita l'accettazione (e quindi la prestazione del consenso) del rischio che, da determinate azioni precipuamente connotate dall'impeto o dalla concitazione agonistica (si pensi in particolare alle “azioni” del gioco del calcio “violentemente” contrastate dai giocatori avversari, nell'intento di evitare di subire il goal), possano derivare eventi pregiudizievoli per l'incolumità personale. Come peraltro ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5 n. 19473 del 2005., testé citata), non si fuoriesce - ciononostante - dal perimetro del c.d. rischio consentito (ed assentite) qualora si travalichino le regole scritte preordinate alla disciplina dell'uso della violenza nel gioco del calcio, ad esempio, (e si realizzi quindi l'illecito sportivo) nel caso in cui la condotta “non sia volontaria, ma n presenti piuttosto lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o nella trance agonistica (ansia del risultato) può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette”, ben potendo, al contrario, ricorrer l'ipotesi di lesioni personali dolose, in caso di accertata volontarietà o di preventiva accettazione del rischio di pregiudicare l'altrui incolumità, ovvero di lesioni personali semplicemente colpose, allorché la violazione consapevole della regola cautelare risulti finalizzata “al conseguimento - in forma illecita, e dunque, antisportiva - di un determinato obiettivo agonistico”.
A conclusione della concisa esposizione dei surrichiamati principi applicabili in subiecta materia, (che non possono non esser condivisi dal Collegio) deve esser ribadito che la regola di giudizio cui è necessario attenersi implica l'imprescindibile, preliminare accertamento se l'evento lesivo si sia o meno verificato nel corso di una tipica azione di gioco specificamente ricostruita in punto di fatto.
Ciò posto ed acquiisita pacificamente la ricostruzione della dinamica dell'incidente di gioco, in esito ad entrambi i gradi del giudizio di merito (di cui in narrativa), la Corte d'appello di Firenze seguendo il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, ha correttamente ritenuto sussistere, a carico dell'imputato, una responsabilità a titolo di colpa, desunta dal fatto che la gomitata fu volontariamente inferta dal T. allo I., pur nel corso ed a causa di un'azione di gioco, al fine di sottrarre a quest'ultimo il controllo del pallone, nell'ambito di una condotta c.d. di gioco pericoloso, per la indubbia capacità lesiva derivante dal colpo inferto con intensa forza a livello dell'addome dell'avversario, mediante “una parte del corpo rigida e penetrante quale è senza dubbio il gomito piegato”. Da ciò l'indubbio travalicare dei limiti della scriminante del c.d. rischio consentito, in contrasto con il carattere amatoriale e ludico e non esasperatamente agonistico, della partita cui avevano preso parte numerosi ultraquarantenni ed anche cinquantenni. Nelle partite amatoriali il livello di accettazione preventiva del rischio alla incolumità fisica dei partecipanti è invero limitato, com'è appare intuitivo, a pregiudizi di scarso rilievo quali semplici ematomi od ecchimosi, concettualmente e prevedibilmente non “ineludibili” nel gioco del calcio. Ora è ormai jus receptum secondo la richiamata l'elaborazione giurisprudenziale di legittimità, (cfr. Sez. 4 n. 20595/2010) che, in nome della rilevanza sociale generalmente riconosciuta all'attività sportiva, che l'elemento dell'antigiuridicità insito nei fatti tipici penalmente sanzionati commessi nello svolgimento di essa (quali: percosse, lesioni od anche omicidio) restii escluso (con il conseguente venir meno della punibilità) in conseguenza del riconoscimento, in applicazione dell'analogia in bonam partem, di una causa di giustificazione non codificata, che trova titolo nel c.d. rischio consentito. In tale ottica conclusivamente deve rilevarsi che se permane la responsabilità, a titolo di dolo, per la condotta volontariamente lesiva dell'incolumità dell'avversario in relazione alla quale l'occasione del gioco può dirsi solamente pretestuosa (come nel caso, per restare sempre nell'ambito del gioco del calcio, di colpo inferto a gioco fermo ovvero deliberatamente diretto ad attingere l'avversario al volto od all'addome sia pure in un'azione di contrasto per il possesso del pallone), non può tuttavia dirsi scriminata una responsabilità a titolo di colpa qualora la condotta di gioco, pur finalizzata allo sviluppo di un'azione di gioco, ma in cosciente e volontaria violazione del regolamento sportivo, si appalesi come assolutamente sproporzionata ed estranea alle finalità del gioco e contraria ai principi base di lealtà e correttezza. In tal caso si esorbita dall'area di non punibilità in ragione dell'operatività della scriminante non codificata del c.d. rischio consentito (cfr Sez. 5 n. 19473 2005).
Deve invece trovare accoglimento il terzo motivo di ricorso. Il reato di lesioni colpose, cosiccome ascritto all'imputato, risulta ricompreso ex artt. 4 D.l.vo n. 274/2000 tra quelli rimessi alla cognizione del Giudice di pace, non ricorrendo, nel caso di specie, le ipotesi dello stesso reato, espressamente escluse. Qualora tale reato sia giudicato da un giudice diverso dal giudice di pace, questi è tenuto ad applicare le sanzioni applicabili dal giudice di pace; ciò a norma del combinato disposto degli artt. 52 e 63 D.l.vo n. 274 del 2000, con esclusione della pena della reclusione invece illegalmente irrogata nel caso di specie con la sentenza di primo grado, confermata in grado d'appello.
Attesa la statuizione “contra legem”, censurata dal ricorrente, ritiene il Collegio di accogliere, ai sensi dell'art. 609, comma 2 cod. proc. pen. ed in applicazione analogica dell'art. 129 cod. proc. pen. - trattandosi comunque di applicazione della legge processuale in bonam partem - la doglianza, benché non proposta con i motivi d'appello,, facendo proprio quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità di cui alle sentenze: Sez. 5 n. 3945/2002; Sez. 4 n. 39631/2002, non ignorando peraltro la diversa posizione interpretativa resa da altre pronunzie di questa Corte (Sez. 5 n. 36293/2004; Sez. 5 n. 24926/2003.
Ne discende che l'impugnata sentenza va annullata, limitatamente al punto concernente il trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Firenze.

P.Q.M.

Annulla l'impugnata sentenza limitata1mente al trattamento sanzionatorio con rinvio alla Corte d'appello di Firenze.
Rigetta nel resto.”

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