sabato 13 novembre 2010

Sul criterio distintivo tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale.

Cassazione penale, sez. I, 27 luglio 2010, n. 29376.

Nella sentenza in commento, la prima sezione penale della Suprema Corte chiarisce, attraverso un excursus sulle difformità strutturali delle due fattispecie, quale sia il criterio distintivo tra il reato di omicidio volontario e quello di omicidio preterintenzionale.
Il caso è quello di Tizio che, nel corso di un alterco con Caio, scoppiato all’interno di un autobus, ne cagionava la morte attingendolo all’emitorace sinistro con un coltello delle lunghezza di 19 cm di cui 10 di lama.
Sulla base del dato probatorio consistito dalle dichiarazioni dei testimoni escussi, dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dagli accertamenti tecnici disposti, tanto in primo che in secondo grado, Tizio veniva condannato per il reato di omicidio volontario e porto senza giustificato motivo di un coltello.
Avverso la decisione d’appello egli proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che la Corte territoriale aveva errato nel non qualificare il fatto di omicidio volontario come omicidio preterintenzionale così come sussumibile dalla testimonianza di Sempronio da cui risultava che Tizio era stato fatto oggetto non solo di insulti e derisione, ma anche di una violenta aggressione fisica da parte della vittima sicché doveva ritenersi che il colpo inferto dal ricorrente, ancorché esiziale, fosse stato vibrato per mera difesa e non per volontà di uccidere. Se Tizio avesse voluto effettivamente uccidere Caio non lo avrebbe fatto uscire dall’autobus, ma avrebbe continuato a infierire su di lui. 
La Corte di Cassazione, respingendo il ricorso e confermando quanto detto dai giudici del merito, coglie l’occasione per precisare che “il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale deve essere individuato nella diversità dell’elemento psicologico che, nel secondo reato, consiste nella volontarietà delle percosse e delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e dell’accettazione del rischio della morte del soggetto passivo (Cass., Sez. 1, 20 novembre 1995, Flore; Cass., Sez. 1, 25 novembre 1994, P.M. in proc. Piscopo; Cass., Sez. 1, 3 marzo 1994, Mannarino; Cass., Sez. 1, 14 dicembre 1992, Di Grande ed altri).
In altri termini, il tratto saliente e peculiare del delitto ex art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nell’art. 43, comma primo c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente.
Anche se riemerge talora in alcune pronunce l’antica teoria che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. 5, 11 dicembre 1992, P.M. in proc. Bonalda), la recente giurisprudenza di questa Corte è largamente prevalente nel senso che la struttura dell’omicidio preterintenzionale è connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale (Cass., Sez. 1, 16 giugno 1998, Gavagnin) mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta (Sez. 1, 21 giugno 2001, sent. n. 25239, Milic, rv. 219433)”.
Con riferimento al caso di specie, la Corte precisa che nella sentenza impugnata è stata correttamente ricondotta l’azione di Tizio nella figura nell’omicidio volontario stante la consapevole volontà di procurare ad altri, con la propria condotta, non un’alterazione anatomica o funzionale classificabile come malattia nel corpo o nella mente (lesione personale), bensì quella di sopprimere l’altrui vita.

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