martedì 16 novembre 2010

La Cassazione sul reato di atti persecutori (c.d. stalking).

Cassazione penale, sez. V, 7 maggio 2010, n. 17698.
Cassazione penale, sez. V, 17 febbraio 2010, n. 6417.

Con le due sentenze indicate in epigrafe la Cassazione precisa alcuni degli aspetti della nuova fattispecie di reato di “Atti persecutori” di cui all’art. 612 bis c.p., volta a reprimere il fenomeno sociale meglio noto con il nome di stalking.
La sentenza n. 17698 del 7.05.2010 riguarda il caso di Tizio il quale è gravato da seri indizi in ordine ad un comportamento minaccioso e vessatorio tenuto tra il dicembre 2008 e il giugno 2009, qualificato appunto ai sensi dell'art. 612 bis, come atti persecutori, nei confronti di Caia, persona con la quale aveva intrattenuto in passato una lunga relazione sentimentale ed aveva avuto una figlia, separandosene poi per incompatibilità di carattere e per presunti tradimenti.
In particolare, in questa pronuncia la Corte affronta la questione giuridica della qualificazione del reato di cui all’art. 612 bis c.p. come reato di pericolo o di evento.
La Cassazione muove dalla premessa che il paradigma normativo di riferimento ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, prevede che dal comportamento reiteratamente minaccioso o comunque molesto dell'agente derivi, quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura della persona offesa, oppure un fondato timore della stessa per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure ancora il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita: tre fattispecie che valgono a connotare la posizione della persona offesa come quella di un soggetto violato nella propria libertà morale - come si desume dalla collocazione sistematica della norma nella sez. 3, del titolo 12 del secondo libro del c.p. - e costretto ad una posizione seriamente difensiva a causa del debordante invasività degli atti vessatori posti in essere dall'agente.
Bisogna distinguere, dunque, un comportamento effettivamente persecutorio da altro comportamento invece ricadente nell'ambito di una litigiosità, ad armi pari, nell'ambito di un rapporto che risulti aggressivo, sia pure con modalità extra-ordinem, ma in maniera biunivoca. Con ciò non si intende peraltro sostenere che la "reciprocità" dei comportamenti molesti comporti necessariamente la esclusione, in linea di principio, della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p. ma si vuole richiamare l'attenzione su un dato che, ove ricorrente, comporterebbe un più accurato onere di motivazione in capo al giudice in ordine al modo in cui si verrebbe a configurare in concreto, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita.
Deve valutarsi se si configuri, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, la posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria.
E' utile sottolineare al riguardo che il reato in discussione, per l'evento di danno di cui è stato connotato, differisce - come arguibile anche dall'andamento dei lavori preparatori della legge- dalla struttura del reato di minacce che pure ne può rappresentare un elemento costitutivo: la norma che incrimina la minaccia delinea infatti, a differenza di quella che qui interessa (salva ovviamente la configurabilità del tentativo di quest'ultima), un reato di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione di timore nella vittima (Rv. 216321; Rv. 228064; Rv. 242484; Rv. 242604). Solo per il reato di minacce vale dunque l'osservazione che è sufficiente che il male prospettato sia anche soltanto idoneo a incutere timore in un soggetto passivo generalizzato, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale.
Nel reato di atti persecutori rileva invece la risposta in concreto prodotta sul soggetto passivo effettivo.
Nella sentenza n. 6417 del 17.02.2010, invece, la quinta sezione chiarisce l’elemento della reiterazione, che fa del reato di atti persecutori un c.d. reato abituale.
Nel caso trattato, il difensore di Sempronio ricorreva in Cassazione, assumendo che gli episodi precedenti l'entrata in vigore della norma incriminatrice in questione non potevano essere oggetto di considerazione alcuna; che due sole condotte di minaccia o molestia, quali quelle contestate nella specie, non erano suscettibili di integrare l'illecito di cui al 612 bis c.p., qualificato da condotta plurima.
La Corte dichiara prive di fondamento le censure del difensore, affermando che “le condotte di minaccia o molestia devono essere "reiterate", sì da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone vicine o, infine, costringere la p. l. a modificare le sue abitudini di vita.
Il termine "reiterare" denota la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza.
Se ne deve evincere, dunque che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto”.

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