venerdì 5 febbraio 2016

SOLUZIONE PARERE CONCORSO DI REATI (STALKING, VIOLENZA PRIVATA E DIFFAMAZIONE).

SOLUZIONE 
Cassazione penale, sez. V, 11 novembre 2014 – 16 gennaio 2015, n. 2283

FATTO
1. Il Tribunale di Arezzo, con sentenza riformata, limitatamente alla pena, dalla Corte di appello di Firenze in data 4/10/2013, ha ritenuto C.S. responsabile, nei confronti della ex- convivente D.S., di atti persecutori (art. 612 bis c.p., capo A), di violazione delle prescrizioni dettate dal giudice civile in ordine all'affidamento della prole (art. 388 cod. pen., capo B), di violenza privata (art. 610 c.p., capo C) e violazione di domicilio (capo D); per l'effetto, lo ha condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al versamento, a favore della parte civile, di una restante somma dovuta a titolo di provvisionale.
Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa e di numerosi testi, anche di appartenenti al Servizio Sociale, nonchè documentazione varia.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. Nadia Frese, con sei motivi, tutti incentrati sulla violazione di legge e il vizio di motivazione.
Col primo lamenta - in ordine al delitto di atti persecutori - che non sia stata fornita risposta alle critiche mosse dalla difesa alla sentenza di primo grado, laddove si addebitava al Tribunale di non aver tenuto conto del motivo che aveva indotto l'imputato a ricercare, ripetutamente, la donna: quello di conservare i rapporti col figlio minore, ingiustamente ostacolati dalla madre. Per questo motivo difetterebbe l'elemento soggettivo del reato.
Col secondo contesta l'autonoma sussistenza dei reati di cui agli artt. 612 bis, 610 e 614 c.p., che devono ritenersi assorbiti - a giudizio della difesa - in quello dell'art. 388 c.p..
Col terzo contesta, sotto altro profilo, la sussistenza della violazione di domicilio, in quanto - sostiene - l'abitazione di D. era preceduta da un'area non recintata. Pertanto, l'accesso a quest'area non può costituire reato. Nello stesso motivo contesta la sussistenza del reato di violenza privata, in quanto - sostiene - "manca una specifica condotta direttamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di determinazione ed azione) del soggetto passivo".
Col quarto sostiene l'assorbimento del reato di cui all'art. 610 c.p., in quello di cui all'art. 612 bis c.p., "rappresentando una delle modalità esecutive della più grave condotta di cui all'art. 612 bis c.p.".
Col quinto lamenta assenza di motivazione in ordine alle attenuanti generiche, richieste dalla difesa e negate dal giudice; in ordine alla commisurazione della pena, incomprensibilmente applicata in misura assai superiore ai minimi edittali; in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione, pure richiesto dalla difesa e non disposto in sentenza.
Col sesto lamenta che - in violazione di legge - sia stata subordinata la sospensione condizionale della pena al pagamento di una provvisionale prima del passaggio in giudicato della sentenza (entro due mesi).
DIRITTO
E' fondato il sesto motivo di ricorso; sono inammissibili - per le ragioni di seguito esposte - tutti gli altri.
1. Il primo motivo è inammissibile per genericità. Con consolidato orientamento, questa Corte ha avuto modo di precisare che "è inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità...." (Cass., sez. 4, n. 5191 del 29/3/2000, Rv. 216473. Da ultimo, Cass., n. 28011 del 15/2/2013).
In particolare il giudice di merito ha evidenziato come il quadro delineato dalla persona offesa e dai numerosi testi esaminati deponga inequivocabilmente per un atteggiamento vessatorio e violento dell'imputato nei confronti della ex convivente, a cagione della sua natura possessiva e prevaricatrice, manifestatasi con una quantità enorme di telefonate, dai toni offensivi e volgari; con la pretesa di sottomettere la donna alla propria volontà, specie nella gestione del figlio comune; con la sistematica inosservanza delle prescrizioni imposte dal giudice civile a tutela dei diritti dei genitori e degli interessi del minore. Il tutto generato dalla pretesa del C. di tenere la donna legata a sè nonostante la contrarietà di quest'ultima alla prosecuzione del rapporto, con la conseguenza di prostrare psicologicamente la ex-convivente e costringerla a ricorrere alle cure di uno specialista della mente. Per contro, solo assertiva e scollegata dal risultato istruttorio si è rivelata, per i giudicanti, la tesi difensiva - secondo cui tutto ha avuto origine e si spiega con l'ostinazione della D. di impedire la frequentazione del C. col figlio - posto che di una simile evenienza non sussiste alcuna prova o indizio: nemmeno le dichiarazioni dell'imputato, che, sebbene presente a tutte le udienze dibattimentali, si è ben guardato dall'esporla dialetticamente e motivatamente. Di conseguenza, il motivo di ricorso, siccome inutilmente ripetitivo della tesi sostenuta nel giudizio, va disatteso, non essendo suffragato da argomenti idonei a incidere, anche in termini meramente dubitativi, sul compendio degli elementi che hanno portato la Corte territoriale all'affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all'art. 612 bis c.p..
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato. L'art. 388 c.p., è posto a presidio dell'autorità delle decisioni giudiziarie, mentre gli artt. 612 e 612 bis, sono volti a tutelare la libertà morale della persona offesa e l'art. 614 c.p., l'inviolabilità del domicilio. Nè per l'oggetto giuridico nè per la struttura delle fattispecie è dato comprendere, quindi, come e perchè il reato di cui all'art. 388 c.p., comprenda e assorba tutti gli altri (nessuna congruente argomentazione è stata sviluppata, in proposito, dalla ricorrente).
3. E' solo assertiva l'affermazione che l'abitazione di D. fosse preceduta da un'area non recintata, entro cui era possibile entrare senza violare il domicilio di chi vi abitava. La sentenza impugnata, come quella di primo grado, sono esplicite nel dire, invece, che C. si introdusse abusivamente, in più occasioni, in un'area di esclusiva pertinenza della D. e talvolta addirittura in casa, senza il consenso di chi vi abitava (circostanza confermata dalla zia della D.). Tali circostanze non sono nemmeno prese in considerazione dalla ricorrente, che ignora addirittura le argomentate riflessioni del giudicante.
4. Non è corretto affermare l'assorbimento del delitto di violenza privata in quello di cui all'art. 612 bis c.p., sebbene siano entrambi inseriti nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, giacchè il suddetto bene giuridico presenta profili diversi, che esigono tutele diverse. Il delitto previsto dall'art. 612 bis c.p., tende alla protezione del singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, ovvero costringendo a modificare comportamenti ed abitudini di vita (per questo, può dirsi che è rivolto alla tutela della persona nel suo insieme, piuttosto che della sola libertà morale). Nella sua struttura è reato abituale e, sebbene la norma faccia riferimento solo a molestie e minacce, quali fonti di responsabilità, deve ritenersi reato a condotta libera, in quanto le minacce e le molestie costituiscono esemplificazione dei comportamenti che possono determinare gli stati patologici sopra considerati, costituenti evento del reato.
La violenza privata è volta alla tutela della libertà morale, nel suo aspetto di libertà individuale; vale a dire come possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri (libertà di autodeterminazione), e di agire di conseguenza (libertà di azione).
Quindi, tende ad impedire che un soggetto faccia, ometta o tolleri qualcosa perchè costrettovi, con violenza o minaccia, da altri, indipendentemente dalla induzione di uno stato morboso o dalla modificazione delle abitudini di vita.
In altri termini, mentre l'art. 610 c.p., protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, l'art. 612 bis, è volto - al pari dell'art. 612 c.p. - alla tutela della tranquillità psichica, ritenuta, con pieno fondamento, condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della volontà suddetta. Pertanto, l'oggetto giuridico di categoria (la libertà morale) esige, per la sua salvaguardia, la protezione di entrambe le sottospecie di beni sopra rassegnati, potendo essere aggredito nell'una o nell'altra manifestazione, oppure in entrambe. Quando quest'ultima situazione si verifica, non vi sono ragioni, quindi, per escludere il concorso di norme, siccome rivolte a tutelare aspetti diversi dello stesso bene.
Alla luce di tali criteri, nessuna censura merita la sentenza impugnata, che ha ritenuto sussistenti entrambi i reati. La violenza privata è stata ritenuta sussistente perchè, in più occasioni, C. costrinse la donna - con violenza verbale e minacce esplicite e contravvenendo alle prescrizioni dettate dal giudice civile - a consegnargli il figlio contro la sua volontà. Si tratta di qualcosa di diverso dalla induzione dello stato di ansia e di timore, preso in considerazione dall'art. 612 bis, che ha indotto la donna a ricorrere alle cure di uno specialista e ad "adeguare il proprio vivere quotidiano a moduli che cercassero di escludere interferenze da parte del C." (pag. 4 della sentenza di primo grado).
5. Manifestamente infondato è il quinto motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta l'entità della pena infintagli. Ed invero, la concreta modulazione della pena appartiene al novero dei poteri discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio si sottrae al sindacato in sede di legittimità ove sorretto da idonea motivazione; nel caso specifico, la motivazione addotta, fondata sulla gravità della condotta reiterarla nel tempo e sulle conseguenze da essa derivate, oltre che sui precedenti penali (che non hanno impedito, comunque, alla Corte d'appello di ridurre la pena applicata dal primo giudice), vale a giustificare la modulazione del trattamento sanzionatorio, in misura, peraltro, moderatamente superiore al minimo edittale. Parimenti inammissibile è la censura relativa alla mancata concessione del beneficio della non menzione, posto che nell'atto d'appello (recante la data del 7/11/2011) non ne era stata fatta richiesta.
6. E' fondata, infine, la doglianza relativa alla sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento, entro due mesi dal deposito della motivazione della sentenza d'appello, di quanto stabilito a titolo di provvisionale. Questo Collegio aderisce infatti all'orientamento, maggioritario nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere subordinato al pagamento della provvisionale riconosciuta alla parte civile da effettuarsi anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza (da ultimo, Cass., n. 29888 del 2013). Di conseguenza, la sentenza va annullata nella sola parte in cui subordina la concessione del beneficio al pagamento della provvisionale nei ristretti termini stabiliti in sentenza, invece che entro due mesi dal passaggio in giudicato della sentenza d'appello.
Il rigetto dei motivi di ricorso concernenti l'affermazione di responsabilità per i reati contestati comporta che il ricorrente va condannato al pagamento delle spese di rappresentanza sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale entro il termine di due mesi dal deposito della sentenza di appello. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di parte civile liquidate in complessivi Euro 1.200, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2015

Nessun commento:

Posta un commento