giovedì 12 luglio 2012

I delitti di omicidio.

 Appunti di diritto penale

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I delitti di omicidio sono disciplinati dagli articoli 575 e seguenti del codice penale e proteggono il bene vita del singolo individuo, bene giuridico considerato indisponibile e irrinunciabile. L’articolo 575 disciplina il c.d. omicidio semplice, che si fonda sulla produzione dell’evento morte di un altro uomo. La condotta può provenire da un uomo come derivare da un animale o da una cosa su cui egli ha un dovere di controllo per evitare danni a terzi. Il soggetto passivo del reato è l’individuo nato, cioè il soggetto che, da feto, è diventato persona attraverso il distacco totale dall’utero materno. Se l’uccisione avviene per particolari motivi durante il parto o subito dopo di esso, troverà applicazione l’infanticidio di cui all’art. 578 cod. pen. (si veda, infra), mentre se avviene nei confronti del concepito nascituro, troveranno applicazione le norme sull’interruzione volontaria di gravidanza ( L. 194/1978). Soggetto passivo può essere anche l’umano c.d. mostruoso, cioè con malformazioni tali da conferire sembianze distanti dal concetto di uomo secondo il sentire comune, e secondo Mantovani anche l’umanoide, persona nata dalla bioingegneria. Alcuni Autori sono invece contrari, poiché si verificherebbe l’applicazione analogica della legge penale in peius, in spregio del principio di tipicità. Tornando alla fattispecie base di omicidio ( 575 c.p.), si deve rilevare come essa costituisca l’esempio tipico del reato a forma libera, in cui è irrilevante il modo con cui l’evento è cagionato, essendo sufficiente che l’agente, con una propria condotta cosciente e volontaria ( nel senso palesato dall’art. 42 comma I ) lo produca. Irrilevante, quindi, l’errore sul nesso di causalità, il quale, secondo autorevole dottrina (Mantovani) verrebbe in rilievo solo nei casi di reati a forma vincolata. V’è da dire però che l’errore sul nesso di causalità viene in rilievo anche nei reati a forma libera, nel caso di dolo colpito a mezza via dall’errore. E’ il caso di chi reputa di aver ucciso una persona e ne occulta il cadavere per liberarsi della prova principale dell’uccisione, ma in realtà la vittima era viva e muore per soffocamento derivante dalla sepoltura nella terra. In questo caso, lungi dal reputare meritevole di considerazione la teoria del dolus generalis (dolo complessivo che parte dall’ideazione e arriva all’evento), che consentirebbe di applicare l’art. 575 c.p. sic et simpliciter in quanto “Tizio voleva uccidere, e alla fine ha ucciso”, la Giurisprudenza di Legittimità applica il concorso materiale tra tentativo di omicidio e omicidio colposo. Chi scrive, poi, ritiene che questo sia l’unico caso in cui è possibile applicare la continuazione tra reato doloso e reato colposo, perché solo il regime sanzionatorio del cumulo giuridico causerebbe il raggiungimento di una pena equa. Al contrario, applicando il regime tot crimina tot poenae, si raggiungerebbe paradossalmente una pena più bassa di quella prevista per l’omicidio.  
Si ricordi, inoltre, che il nesso di causalità va sempre valutato con l’applicazione della teoria condizionalistica sussunta sotto leggi scientifiche, e che l’evento morte deve essere valutato secondo il criterio hic et nunc, a nulla valendo il requisito della vitalità ( idoneità a sopravvivere), di talché l’agente è punito per il delitto di omicidio anche se la vittima sarebbe morta di lì a poco poiché ad esempio malata terminale. Inutile dire che si richiede che la vittima sia viva, in quanto altrimenti mancherebbe l’oggetto materiale del reato e si verificherebbe un reato impossibile. Poiché l’articolo 49 fa salva la punibilità per reato diverso da quello putativo o quello impossibile, potrebbe operare l’articolo 410 c.p. sul vilipendio di cadavere, qualora la condotta sia offensiva, oltraggiosa, dileggiante, o brutale. 

Gli articoli 576 e 577 prevedono alcune aggravanti, che consentono l’applicabilità di una pena diversa da quella base (da 21 a 24 anni), e cioè l’ergastolo, o la reclusione da 24 a 30 anni nel caso di cui all’art. 577 ult. comma. Tra le predette aggravanti, ve ne sono alcune che meritano attenzione poiché manifestano profili problematici. Nel caso in cui l’omicidio sia compiuto per eseguire o occultare un altro reato (connessione teleologica), o conseguirne il prodotto, il prezzo, il profitto o l’impunità, ci si chiede cosa avviene nel caso di rapina impropria con esito infausto (morte del soggetto passivo della rapina). Esemplificando: Tizio sottrae la moto di Caio; questi esce dal negozio dove era entrato un attimo, lasciando la moto parcheggiata e incustodita, e Tizio lo uccide per assicurare a sé la moto appena rubata. Alcuni Autori ritengono che la connessione teleologica (61 n.2) non operi, perché già operante in virtù dell’articolo 628 comma II. Chi scrive ritiene che il 628 non contempli l’ipotesi di omicidio, bensì solo le ipotesi di violenza che si traducano in percosse o lesioni, e quindi l’omicidio dovrebbe essere aggravato dall’art. 61 n.2. e posto in continuazione con il furto (624 c.p). Per quanto concerne, poi, l’omicidio come esito dello stalking, si sottolinea come l’assorbimento o il concorso materiale dipenda da se l’omicidio era stato minimamente preventivato o costituisce un esito imprevisto della condotta persecutoria. Nel primo caso, il suo disvalore può inglobare il reato di stalking, mentre nel secondo caso è aggiuntivo, e quindi concorrerà con esso. Continuando con le ipotesi aggravanti più problematiche, si aggiunga che il mezzo insidioso di cui all’art. 577 n. 2 è qualunque mezzo idoneo a costituire pericolo occulto per il soggetto passivo, cogliendolo di sorpresa. La premeditazione, di cui al medesimo articolo, n. 3, si compone di tre elementi: ideologico, cronologico, e macchinazione, e si distingue dal dolo di proposito poiché quest’ultimo non presenta tale ultimo requisito. L’elemento cronologico si sostanzia nel distacco temporale tra ideazione ed esecuzione, che deve essere idoneo a causare la riflessione e il ripensamento circa l’azione criminosa. L’elemento ideologico è strettamente connesso al primo, in quanto si sostanzia nella permanenza del proposito. La macchinazione è richiesta da dottrina e giurisprudenza maggioritaria, e consiste nella programmazione di mezzi, modalità e circostanze di luogo e tempo da usare per la perpetrazione del reato. Non è sufficiente, quindi, la mera preordinazione, che ha ad oggetto solo la predisposizione dei mezzi, e può al massimo costituire un indizio sull’esistenza della premeditazione. La premeditazione è compatibile con il vizio parziale di mente (salvo il caso in cui sia proprio il vizio di mente la causa della persistenza del proposito) e con la provocazione (specialmente quando la provocazione è frazionata e quindi permette al soggetto agente di “covare” in se stesso il risentimento, da concretizzare in seguito con l’eventuale “ultima goccia che faccia traboccare il vaso”), nonché con i motivi abietti o futili. La premeditazione è incompatibile con il dolo eventuale, poiché il soggetto programma totalmente il reato, essendo ciò incompatibile con la mera accettazione del rischio che lo stesso si concretizzi.  

Riguardo l’elemento soggettivo del delitto di omicidio, è chiaro che esso potrà essere commesso con dolo o con colpa (cosciente/incosciente), rimanendo problematica la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, specialmente nei delitti relativi alla circolazione stradale o alla trasmissione di malattie potenzialmente mortali ( es. virus HIV, che poi dia origine all’AIDS e conduca alla morte dell’infettato). Il dolo eventuale, originariamente accertato attraverso la teoria del consenso e le due formule di Frank, viene attualmente riscontrato quando il soggetto agente si rappresenta concretamente la possibilità che alla sua condotta segua la morte di un soggetto passivo e ne accetta il rischio di verificazione, subordinando, attraverso una evidente deliberazione psichica, il proprio interesse o vantaggio personale alla lesione del bene giuridico altrui. Si parlerà di colpa cosciente, invece, nel caso in cui l’agente si immagini l’evento come astratto, cioè di lontana verificazione, nel senso che esso, pur potendo generalmente accadere, non si manifesterà nella realtà esterna grazie alla capacità di intervento dell’agente, che lo scongiurerà grazie a proprie abilità (l’agente, si dice, confida nel non verificarsi dell’evento). Il controllo del giudice sarà quindi finalizzato ad accertare la ragionevolezza di tale pensiero dell’agente, anche e soprattutto alla luce delle sue condizioni personali. Il dolo eventuale è stato spesso applicato anche alle ipotesi di delitti in sede stradale commessi da soggetto totalmente o parzialmente incapace di intendere e di volere a causa di abuso di alcol o uso di stupefacenti, in virtù della fictio giuridica ex art. 92 c.p. Tale fictio, secondo chi scrive, si fonderebbe, nel caso di totale incapacità, sulla rimproverabilità di condotta non penalmente rilevante (rimprovero necessario ai fini general-preventivi), poiché sarebbe biasimevole il soggetto mentre si poneva nello stato di incapacità (mentre, ad esempio, beveva in un bar); mentre nel caso di parziale incapacità, il legislatore considererebbe l’operatività della fictio al momento dell’inizio dell’azione penalmente rilevante, riflettendo sul fatto che l’area “sana” della mente del reo debba inibire il comportamento criminoso. Sulla base di entrambi i momenti valutativi, si può giungere a riconoscere il dolo eventuale poiché il soggetto sarebbe capace di rappresentarsi l’evento morte (altrui) come concretamente possibile e dovrebbe, in conseguenza di tale rappresentazione, astenersi dal tenere comportamenti rischiosi per l’incolumitàdi terzi.  
La colpa, in generale, opera quando l’evento morte è concretizzazione del rischio che la norma precauzionale mirava ad evitare. Si deve quindi verificare: 1) che l’evento è conseguito alla condotta dell’agente, irrispettosa della regola cautelare ad hoc imposta dal legislatore; 2) che l’evento concretizzi il rischio che tale norma mirava ad evitare; 3) che l’evento non si sarebbe lo stesso verificato pur rispettando tale norma cautelare; 4) che il mancato rispetto della norma abbia almeno accresciuto le possibilità di verificazione dell’evento e, viceversa, il rispetto della norma precauzionale avrebbe in maniera seria ed apprezzabile limitato il rischio di verificazione dell’evento stesso.  
Nel caso in cui l’omicidio colposo sia compiuto attraverso il mancato rispetto delle norme sulla circolazione stradale (da soggetto capace di intendere di volere, o da soggetto incapace per uso di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti) e sulla prevenzione degli infortuni, l’art. 589 c.p. prevede aumenti di pena. L’ultimo comma prevede un’ ipotesi di cumulo giuridico (concorso formale di reati) limitato nel massimo a 15 anni, nel caso di morte di più persone o morte di almeno un soggetto cumulativamente alla lesione di almeno un soggetto, dovendosi ricavare la pena dall’elevazione fino al triplo della sanzione prevista per il reato più grave, senza superare il suddetto limite dei quindici anni. 

Per quanto concerne l’omicidio preterintenzionale, si rimanda a quanto detto nell’ articolo “Il Delitto Preterintenzionale”, con due possibili aggiunte:  
1) La Giurisprudenza, tempo addietro, considerava la morte del paziente integrante omicidio preterintenzionale qualora il medico avesse operato al di fuori del consenso valido, in quanto sarebbe possibile intravedere una volontà diretta a ledere, nel caso in cui il medico, consapevole della mancanza di consenso del paziente, si adoperi comunque chirurgicamente. Successivamente, tale tesi è stata abbandonata per eccesso di rigore formale, in quanto omette di considerare il fine primario del medico, che è quello curativo, a prescindere dalla sussistenza di un consenso valido del paziente. La morte può quindi essere addebitata secondo le regole dell’art. 589, e cioè dell’omicidio colposo, ma non in base alla sussistenza di una presunta preterintenzione.  
2) Si svolgevano, già nell’articolo prima richiamato, le considerazioni in merito a se l’articolo 584 richieda che gli atti diretti a ledere o percuotere debbano essere idonei oltre che finalisticamente orientati. Già si faceva notare come il tenore letterale dell’art. 584 c.p., nonché le riflessioni in merito alla offensività bifasica ( sulla quale anche la Corte di Cassazione ha avuto implicitamente da ridire) portano a ritenere che non sia necessario che si formi il tentativo di percosse o di lesioni. Un ulteriore argomento, fornito dalla giurisprudenza a supporto di tale interpretazione della norma richiamata, riguarda l’ammissibilità del dolo eventuale relativamente alla configurazione degli atti diretti a ledere o percuotere. Poiché si ammette il dolo eventuale, e tale forma di dolo è incompatibile col tentativo, si sta implicitamente sostenendo la non necessità dell’integrazione del tentativo in merito ai reati di base dell’omicidio preterintenzionale.  

Esistono poi ipotesi particolari, condensate nelle norme da 578 a 580, in cui il soggetto agente causa la morte del soggetto passivo in condizioni particolari (578 e 579 – rispettivamente infanticidio in condizioni di abbandono e omicidio del consenziente) o contribuisce all’auto-inflizione dell’evento morte ( 580 - istigazione o aiuto al suicidio). L’infanticidio in condizioni di abbandono è il particolare omicidio compiuto dalla madre ai danni del feto (durante il parto) o del neonato (evidentemente dopo il parto e nell’immediatezza), derivante dal turbamento psico-fisico della donna, prodotto dalla condizione di alienazione famigliare e sociale in cui ella si trova. Il turbamento non deve essere scaturito da colpe della donna e deve causare un patimento interiore che faccia rappresentare alla madre l’impossibilità di crescere il figlio appena nato, a causa di difficoltà materiali oggettive legate al suddetto fenomeno di alienazione ed emarginazione socio-famigliare. L’infanticidio deve avvenire durante il parto o subito dopo di esso. L’immediatezza può significare non solo il tempo comprensivo degli istanti immediatamente successivi al parto, ma anche un tempo maggiore, laddove sia ragionevole ritenere che tale turbamento psico-fisico sia presente e incida sulla condotta omicida successivamente posta in essere dalla madre. La Corte di Cassazione non ha mai applicato tale norma trascorsi i due giorni dal parto, mutandosi, dopo tale termine, il nomen iuris da infanticidio a omicidio semplice (575) aggravato dall’aver compiuto il fatto contro il discendente (577 n. 1).  

Per quanto concerne il reato di cui all’art. 579, omicidio del consenziente, si deve rilevare come il consenso non operi come scriminante ma come elemento del fatto tipico. Esso deve essere cosciente, volontario, serio, esplicito, non equivoco, specifico. In caso contrario, non sarà valido, e ci troveremo dinanzi ad un bivio: se l’agente era consapevole dell’invalidità del consenso, si avrà omicidio semplice, mentre se per errore si è immaginato che il consenso fosse perfetto ed efficace, dottrina e giurisprudenza si dividono sulle soluzioni da approntare. La giurisprudenza ritiene che si applichi l’art. 47 comma II, e che quindi il soggetto vada comunque punito per omicidio semplice, mentre la dottrina rileva come il dolo di omicidio del consenziente non presupponga il dolo di omicidio semplice, e quindi tale ipotesi di errore su elemento degradante della fattispecie deve essere risolto (secondo un principio di favor rei, o di giustizia sostanziale) con l’applicazione analogica dell’art. 59 ult. comma in tema di errore scusabile sulle scriminanti. Se non si vuole applicare tale analogia, la dottrina suggerisce di applicare la fattispecie di omicidio con tutti i benefici di legge, tra i quali spicca il riconoscimento dell’attenuante dell’aver agito per motivi di alto valore morale o sociale. La Giurisprudenza di Legittimità, invece, è contraria all’applicazione di tale attenuante, poiché non riconosce ancora come generalmente condivisa l’idea dell’eutanasia. 

Per ultimo, si consideri il delitto di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’art. 80 del codice penale. Tale reato è compiuto da chi, con un contributo morale o materiale spiana la strada al suicidio altrui. Il contributo morale è l’istigazione o la determinazione, fungendo, la prima, come accrescimento di un proposito lesivo già maturato dal futuro suicida, e la seconda come creazione nella mente altrui di tale proposito. Dottrina sottolinea come il legislatore punisca i due comportamenti allo stesso modo, pur essendo il primo meno grave del secondo, con evidente trattamento sanzionatorio irragionevole. Il contributo materiale, invece, si attua con la predisposizione di mezzi o rimozione di ostacoli al suicidio. Due considerazioni sono importanti. La prima inerisce al fatto che il soggetto agente (non il suicida, bensì l’istigatore, il determinatore o l’agevolatore materiale) non deve minimamente porre in essere attività esecutiva causalmente orientata a infliggere la morte. Questa attività deve spettare a colui che ha deciso di togliersi la vita, altrimenti il soggetto agente vedrà mutarsi il titolo del reato in omicidio del consenziente. Altresì, si consideri come la norma di cui si discute rappresenti perfettamente la concezione del diritto alla vita che l’ordinamento intende (purtroppo, ancora) portare avanti. Per motivi legati all’impossibilità di rieducazione del soggetto che ha tentato invano di suicidarsi (tale soggetto presenta evidentemente una disperazione interiore che gli farebbe apparire l’opera punitiva come un ulteriore tassello negativo alla sua vita, e perderebbe la fiducia nel senso della sua esistenza, come nel valore dell’ordinamento giuridico), quest’ultimo non è punito. In compenso, è punito chiunque si avvicini con illecita ingerenza nella vita altrui, a nulla valendo qualsiasi spirito solidaristico né qualunque finalità di aiuto all’altrui bisogno di farla finita con un’esistenza oramai disperata.     
     

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