martedì 26 giugno 2012

Vigili urbani? No, Polizia locale!


di Rodolfo Murra 

Questa storia, davvero, non me la posso tenere. Attiene alla tracotanza, alla miopia, alla ignoranza ed alla pochezza intellettuale di taluni personaggi che, purtroppo, fanno parte della Pubblica amministrazione e che contribuiscono – con il loro contegno – ad incrementare nei cittadini l’idea che nei suoi ruoli non militano, come invece dovrebbe essere, i “migliori”.
Ci vuole una premessa, doverosa, per spiegare quanto ho da dire.
L’Acea Distribuzione s.p.a. sta tentando di costruire una cabina elettrica primaria a servizio di un grosso impianto produttivo. Si tratta di un’opera di interesse pubblico che viene realizzata in virtù di una autorizzazione c.d. unica, rilasciata dalla Provincia. Un’autorizzazione definita “unica” perché, ai sensi di una complessa normativa di settore, in virtù di questa la cabina può essere sia costruita sia essere messa in esercizio. Negli anni scorsi, un lungo lavoro di interpretazione della legislazione, compiuto dal Dipartimento dell’Urbanistica e dall’Avvocatura civica, ha permesso di chiarire ai vari Municipi che quel titolo provinciale valeva anche sotto il profilo edilizio.
Un istruttore di polizia municipale, fatto accesso sul cantiere, ha qualificato “senza titolo” la costruzione della cabina elettrica e trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica nonché all’Ufficio tecnico del Municipio. Il dirigente di quest’ultimo ha automaticamente emesso un ordine di sospensione dei lavori che l’Acea, sgomenta, è stata costretta ad impugnare dinanzi al TAR. L’ordine di demolizione dei lavori ritenuti abusivi ha una efficacia temporale, per legge, di 45 giorni cosicchè, quando si è andati a discutere l’istanza cautelare dinanzi al TAR tale ordine aveva perduto i propri effetti, non essendo stato seguito da alcun provvedimento che intimava la rimessione in pristino.
A seguito di questa improvvida iniziativa di controllo, L’Acea, società al 51% di proprietà del Comune di Roma, ha chiesto ed ottenuto una conferenza di servizi, tenutasi presso il Dipartimento dei LL.PP. di Roma Capitale il 7 gennaio 2012. Assenti i rappresentanti della Polizia municipale, in quella sede si chiarivano gli aspetti “controversi” dell’intervento repressivo compiuto dal Municipio e si addiveniva alla redazione di un verbale che avrebbe dovuto tranquillizzare la stessa Acea sulla piena legittimità della prosecuzione dei lavori, rimasti nel frattempo a lungo fermi. Invece, successivamente, come fulmine a ciel sereno, il Dirigente del Municipio con una propria missiva (e non con un provvedimento formale) assumeva che l’ordine di sospensione dei lavori originario continuava a mantenere la propria efficacia tenuto conto poi che dei fatti era stata interessata la Procura della Repubblica (la quale, comunque, non aveva adottato alcuna iniziativa, men che mai di natura cautelare).
Ho preso quindi carta e penna, in ciò sollecitato anche dall’Acea che continuava a manifestare le proprie perplessità per il contegno sia dell’Ufficio tecnico municipale sia del gruppo locale di Polizia municipale, ed ho chiarito che: a) l’ordine di sospensione dei lavori in origine emesso aveva perduto qualsivoglia efficacia, perché questo dice la legge; b) l’intervento dei “vigili urbani” (secondo i quali i lavori dell’Acea erano senza titolo) era riconducibile verosimilmente ad una non perfetta conoscenza della normativa di settore; c) se il dirigente tecnico intendeva continuare a fermare la ripresa dei lavori si sarebbe dovuto assumere la responsabilità di adottare un nuovo ordine formale; d) il ritardo nella costruzione della cabina elettrica avrebbe potuto configurare una colpa imputabile personalmente a chi continuava ad ostacolare la ripresa delle opere. L’Acea, a questo punto, chiedeva la convocazione di una nuova conferenza dei servizi, che è stata indetta pochi giorni or sono presso la sua sede di Piazzale Ostiense.
Questa la premessa.
Ora, invece, i fatti rilevanti. Mi sono recato all’appuntamento della Conferenza dei servizi con i miei tirocinanti (uno dei quali spagnolo). Ci siamo messi in fila, in quel momento formata già da una decina di persone, alla reception della sede di Piazzale Ostiense. Dietro di me sono arrivate, insieme, 4 persone: due tecnici del Municipio (che ho riconosciuto) e due agenti della Polizia municipale, in borghese. Questi ultimi due, evidentemente non desiderosi di mettersi in fila onde di ottenere il “passi”, hanno superato le persone in coda ed hanno mostrato all’addetta il loro distintivo (la “placca” dorata, in dotazione alla polizia giudiziaria), ottenendo di superare senza alcun’altra formalità i tornelli di ingresso. Un paio di soggetti che erano in coda, non accorgendosi dell’esibizione del tesserino, hanno protestato circa il fatto che due persone non avevano fatto la fila (siamo in Italia, ed il sospetto di favoritismi è sempre dietro l’angolo). Uno dei due agenti (il superiore gerarchico dell’altro) sentita la protesta tornava indietro e faceva capire, in modo piuttosto plateale, a chi si lagnava, le ragioni della “preferenza” ottenuta. Tuttavia questo desiderio di passar subito avanti a tutti si rilevava assolutamente inutile, atteso che i due agenti rimanevano, poi, in attesa – appena oltre il varco rappresentato dai tornelli – di esser raggiunti dai due tecnici con i quali erano arrivati alla sede dell’Acea i quali (non godendo di alcun “privilegio”) erano stati costretti (come il resto della gente “normale”) ad espletare le formalità di riconoscimento per ottenere il “passi”.
Il mio tirocinante spagnolo, vista l’intera scena, mi ha domandato come mai i “vigili” – visto che comunque erano rimasti in attesa per aspettare gli altri funzionari che erano arrivati con loro – non avevano ritenuto di non farsi notare entrando, in modo normale e senza dar nell’occhio, come invece era concretamente avvenuto. Ho spiegato che il vero agente di polizia conosce la regola in forza della quale meno fa capire, mentre è in servizio, di essere un tutore dell’ordine, e meglio è per tutti. Ma esistono, tuttavia, agenti che assumono invece atteggiamenti plateali, mostrando volutamente il loro status anche quando non ce n’è bisogno.
Saliti al sesto piano dove si teneva la conferenza dei servizi, ci siamo ritrovati tutti lì: funzionari dell’Acea, tecnici comunali, dirigenti della Provincia, gli agenti di polizia municipale, io dell’Avvocatura, esponenti dell’Ufficio legale interno all’Acea stessa, un ingegnere del Dipartimento dei lavori pubblici.
La conferenza si è svolta nel medesimo modo col quale si dipanò quella del 7 gennaio, con l’aggiunta che, stavolta, c’era stata la mia lettera, perentoria e non contestabile, di cui ho detto. L’Acea chiedeva con insistenza l’emissione di un atto che la legittimasse a riprendere i lavori. Quando è stata data la parola a me, mi sono limitato a ribadire che non v’era necessità di alcun “via libera” e che l’Acea avrebbe ben potuto – non sussistendo alcun impedimento giuridico – proseguire nella realizzazione della cabina senza essere autorizzata da nessuno, avendo già in mano un titolo legittimo ed esecutivo. I tecnici municipali, condividendo la mia opinione, si limitavano a loro volta a chiedere certezza documentale sull’avvenuto inizio dei lavori, cosa che veniva dimostrata in quello stesso momento con la produzione di atti inequivocabili in questo senso dei quali si prendeva immediatamente atto.
Passata la parola ai rappresentanti della Polizia municipale, i quali avevano in bella vista la mia lettera che ho sopra citato, il più maturo di loro esordiva dicendo di essere meravigliato del fatto che l’Avvocatura civica li avesse “insultati”. Sentito quell’esordio, ho strabuzzato gli occhi, mi sono voltato verso i miei praticanti, e sono intervenuto domandando dove si annidavano gli insulti che avevano, a loro dire, integrato l’offesa. Mi immaginavo che i graduati non avessero digerito il fatto che in quella missiva avessi definito incompetente il loro collega che aveva redatto il rapporto originario, inviato alla Procura, per un inesistente abuso edilizio; potevo pensare che non avessero gradito la lezione giuridica che avevo dato, sempre con quella lettera, al dirigente tecnico che continuava, ottusamente, a ritenere l’ultrattività di un ordine di sospensione lavori vecchio di sei mesi; avrei – insomma – potuto credere tutto, ma non certo quello che sentii poco dopo.
Infatti, chiuso il mio intervento interrogativo, il più giovane dei due agenti ha così detto: “non è possibile che la nostra Avvocatura ci definisca ‘vigili urbani’ in una lettera ufficiale. Da anni non ci chiamiamo più così, posto che il Corpo è stato più volte riformato negli ultimi decenni ed oggi ci chiamiamo ‘Polizia locale’ di Roma Capitale”. Insomma, secondo costui io avrei offeso il Corpo per aver appellato “vigili urbani” i suoi appartenenti.
Sulla conferenza è sceso il silenzio. Il tecnico del Dipartimento dei Lavori Pubblici che sedeva vicino a me mi ha immediatamente guardato con lo sguardo corrucciato, incredulo; i dirigenti della Provincia si scrutavano tra di loro, sorridendo; la collega dell’Ufficio legale dell’Acea non sapeva se scoppiare in una risata fragorosa o se mettersi a piangere. Io stesso ero indeciso se replicare, magari facendo riferimento alla penosa scena cui avevo assistito alla reception poco prima.
Ho preferito, allora, rispondere così: “Lei allude ad una mia mancanza di rispetto per il Corpo dei Vigili urbani? Ebbene sappia che quando ancora Lei non era nato, mio padre faceva il vigile urbano, indossando con onore e orgoglio la divisa. Era il tempo in cui i vigili urbani portavano la mano destra tesa alla visiera del berretto per salutare i turisti ed i cittadini, in cui si multavano i pedoni quando questi attraversavano la strada non sulle strisce pedonali, e non erano soliti taglieggiare i commercianti, come invece avviene purtroppo oggi con insolita frequenza, o piuttosto chiudere un occhio su abusi edilizi ben più evidenti, in cambio di qualche illecita ricompensa. Era l’epoca dei comandanti Tobia ed Andreotti, dove non esistevano mele marce e dove non venivano assunti coloro che avevano precedenti penali”.
Il tizio stava per rispondermi, ma il suo superiore, messagli la mano destra sul braccio, gli impedì di replicare, dicendo sottovoce “non facciamo polemica qui”.
Insomma, a fronte di un vero e proprio abuso, dinanzi ad un grossolano ed imperdonabile errore di sostanza sull’interpretazione di un complesso di norme, non paghi di aver costretto una decina di persone ad occuparsi delle loro fesserie, questi due erano arrivati lì non trovando di meglio che lamentarsi di una questione meramente e bassamente formale!
Ecco, carissimi (due) esponenti della “Polizia locale”, finiamola qui. Al di là degli appellativi, più o meno formalmente corretti, quel che conta è il rispetto che uno si merita, la professionalità che mette nel proprio lavoro quotidiano, l’onestà che dimostra sempre e dovunque, l’autorevolezza che infonde nei propri interlocutori, la discrezione che ispira le proprie azioni, nel perseguimento dell’interesse collettivo.
Non volevo, sinceramente, rendere pubblico questo episodio: ma, leggendo l’articolo di oggi (sabato di Pasqua, 7 aprile 2012) a firma di Davide Cesario sul Messaggero, che parla – meritoriamente – di alcuni “vigili urbani” di Roma, mi sono sentito meno ignorante per non sapere che, costoro, invece, oggi vanno chiamati “agenti di Polizia locale di Roma Capitale”. Senza contare che tuttora, i tre milioni di romani che vivono la nostra capitale, continuano imperterriti a chiamare “vigili urbani” i nostrani “pizzardoni”, indipendentemente dalla loro formale definizione di uomini della “Polizia locale”. E preferirebbero che, al di là del nome, costoro continuino a comportarsi come persone per bene.
Viviamo un’epoca di degrado, alla quale non sono estranei ovviamente taluni appartenenti a qualsiasi categoria: la stragrande maggioranza dei “vigili urbani” romani continuano a svolgere umilmente e con dedizione il loro lavoro quotidiano, tentando di migliorare la nostra tremenda quotidianità. Ma sarebbe giunto il momento di distinguere tra coloro che, appunto, meritano, e quelli che, invece, demeritano.

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