giovedì 10 maggio 2012

Pratiche sessuali pericolose e risvolti penali: Il Bondage.


di Filippo Lombardi

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1. Cos’è il Bondage.
Il bondage è una pratica sessuale e/o voyeuristica, derivante dalla tradizione giapponese (dove è identificata col nome “Shibari”) e basata sulla costrizione fisica derivante dall’ uso di corde, corsetti, bavagli, e in generale oggetti che limitano o impediscono il movimento o inibiscono l’uso ordinario del corpo o dei sensi. Tale pratica si fonda sul consenso dei partecipanti a sottostare ad atti di dominazione e sottomissione. Tale rapporto, che all’apparenza può erroneamente dimostrare un dislivello tra le posizioni delle parti, è in realtà basato sul comune fine di creare un legame psico-fisico tra i partners, onde sperimentare sensazioni reciproche di piacere sessuale misto al dolore derivante dall’attività svolta dalla coppia con l’uso degli strumenti ad hoc  posseduti. La suddetta situazione di sostanziale parità tra i partecipanti è anche confermata dal patto che regge il “gioco”, cioè un vero e proprio contratto che ha luogo tra i soggetti coinvolti. Esso tende a fissare le regole alle quali gli stessi dovranno attenersi, regole tra le quali spiccano quella della cosiddetta safe word e dell’HNH (Hurt, not Harm). La prima è una parola d’ordine che ciascuno potrà/dovrà utilizzare per mettere fine alla sofferenza quando essa sembrerà raggiungere l’apice, con pericolo di provocare un danno, mentre la seconda regola (che tra l’altro giustifica la prima) è traducibile come “Provoca sensazioni dolorose, non danni”. Essa è una regola fondamentale, poiché traduce in termini teorici ciò che dovrebbe succedere dal punto di vista pratico, e cioè che i due partners si debbano infliggere dolore per amplificare il piacere sessuale, ma mai arrivare al danno organico (lesioni gravi, rotture articolari, soffocamento, morte). Il bondage può essere praticato secondo tre varianti, che sono quelle del light bondage, della suspension, e della mummification, fermo restando che la persona è legata con le mani dietro la schiena in tutti i casi citati. La prima variante è la più tenue e si incentra sull’utilizzo di corde che leghino e blocchino gli arti tra di loro, lasciando impregiudicata la parte restante del corpo. La seconda variante utilizza le corde in più parti del corpo, anche attorno alla gola, e il soggetto passivo viene appunto sospeso in aria attraverso un meccanismo di corde e ganci. L’entità del pericolo cresce, soprattutto con riguardo agli arti e all’apparato respiratorio. La mummification, invece, consiste, come dice il termine, nella mummificazione vera e propria, lasciando normalmente scoperto solo il viso.

2. Rischi connessi a tale pratica e fatti di cronaca recenti.
Come si evince da quanto già detto al paragrafo precedente, la pratica citata è una pratica sessuale estrema che si incentra proprio sul diritto/dovere di provocare sensazioni dolorose. E’ evidente che le conseguenze derivanti dall’uso scorretto delle regole esecutive sono molteplici, e non di rara verificazione. Gli esiti infausti plausibili sono certamente gli eventi connessi col blocco della circolazione sanguinea, la possibile rottura, slogatura, lussatura di ossa, il blocco della respirazione con connesso soffocamento, le lesioni o abrasioni della cute, che potranno poi essere più o meno gravi a seconda dei casi. E i danni possono diversificarsi in entità o natura, a seconda degli ulteriori ed eventuali strumenti sessuali utilizzati nel caso concreto. Si rende quindi necessario capire quale sia il fondamento di tale pratica e quali siano i limiti che essa incontra nell’ordinamento giuridico, posto che, come sarà stato certamente notato, più persone, in vari casi, sono state processate o condannate per reati connessi all’uso improprio dell’attività oggetto della nostra discussione.
Tra i fatti di cronaca che testimoniano la pericolosità di questa pratica sessuale, che si è tramutata in tragedia, è da annoverare il caso “Mulè”. Soter Mulè è un ingegnere romano di 43 anni che lo scorso 11 settembre ha provocato la morte di una studentessa, Paola Caputo, e il ferimento di un’altra ragazza, durante il gioco erotico dello Shibari. La ragazza deceduta aveva perso i sensi subito dopo essere stata legata tramite un sistema di corde che univa le due ragazze. Lo svenimento si era verificato per un semplice malore ma il peso del suo corpo aveva finito per tendere le corde attorno al collo di entrambe le vittime, e per una delle due, come già detto, sopraggiungeva la morte per asfissia. L’imprenditore, nel momento in cui si scrive, è ancora sotto indagine ma ha già visto mutare più volte il proprio capo d’accusa (rectius: addebito provvisorio): da omicidio doloso con dolo eventuale a omicidio preterintenzionale (per la configurabilità di tale accusa, vedi paragrafo 8), per poi vederlo derubricare a omicidio colposo. Il gip del Tribunale di Roma, nell’ordinanza di convalida della custodia cautelare, ha confermato proprio l’ipotesi colposa, sulla base di due elementi rilevanti: l’avere dato corso l’ingegnere romano ad una pratica che lui stesso poco conosceva, e l’aver violato una banale norma precauzionale tipica dello shibari, cioè il tenere accanto a sé un coltello per casi estremi come quello verificatosi.


3. La libertà sessuale come bene giuridico.
Il fondamento della discussa pratica di cui si discorre è certamente da ricavare dai diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 della Carta Costituzionale, che è clausola generale da cui trarre i diritti connessi alla persona che non siano espressamente trattati nelle leggi o agli articoli successivi della Costituzione stessa. Se la norma fondamentale inerente alla libertà umana è condensata nell’art. 13 Cost., non si può non rilevare come tale norma si occupi di definire più che altro il diritto alla libertà di movimento della persona, mentre il diritto posto alla base delle pratiche sessuali a cui un individuo può concedersi è quello inerente la libertà morale e di autodeterminazione in genere che, nel caso che a noi interessa, si atteggia come libertà sessuale (connessa quindi con la libertà di pensiero, di cui all’art. 21 Cost.). La libertà sessuale non è solo libertà di orientamento sessuale, ma assume anche le fattezze di libertà nei rapporti sessuali relativamente alle modalità e alle tipologie di relazione con i partners. La libertà di autodeterminazione in ambito sessuale è presa come punto di riferimento dall’ordinamento giuridico, ad esempio in tutti i reati che vedono come vittime i minori (in tal caso più che diritto all’autodeterminazione sessuale, si intravede un diritto a crescere sani nella mente e nel corpo per evitare devianze sessuali causate da eventi shockanti, subiti in fasi premature della propria vita), ma anche nelle fattispecie incriminatrici di atti sessualmente violenti verso le persone maggiorenni, come la ben nota norma che punisce lo stupro (art. 609 bis cod. pen.). Ciò significa che il diritto (cioè l’ordinamento giuridico in senso oggettivo) tutela la libertà sessuale e reprime ogni fatto idoneo a “guastarne” il godimento, o comprimerla. V’è da aggiungere che, come ogni diritto che si rispetti, anche il diritto all’autodeterminazione in ambito sessuale (un diritto assoluto poiché rivendicabile erga omnes) incontra limiti, tra i quali spicca il buon costume. Esso si atteggia come concezione di cui una comunità sociale si dota, avente ad oggetto i comportamenti sessuali generalmente accettati, ed ha a che fare con l’esteriorizzazione delle proprie preferenze e tendenze sessuali in atti che possano turbare il comune senso del pudore. Si badi bene che il pudore non deve essere visto come sterile limite moralizzante idoneo a comprimere la libertà sessuale “per il mero gusto di farlo” , bensì esso si atteggia come principio che tutela le altrui sfere soggettive rispetto all’essere costretti ad assistere ad atti o comportamenti sessualmente rilevanti, alla cui visione la persona non intende soggiacere. Facile intuire come il senso del pudore e il buon costume siano concetti variabili a seconda di epoche, contesti culturali e sociali, emancipazione raggiunta dalla società generalmente intesa, aree geografiche (il topless ad Ibiza in alta stagione da parte di una trentenne costituirà meno problemi di un topless in una comunità montana con popolazione di età media superiore ai 70 anni). Ecco perché la libertà sessuale trova ovviamente il suo apice nell’ambito privato, in luoghi o circostanze connesse alle normali esigenze di riservatezza e che non siano idonee ad infastidire altri soggetti.
Fatte queste premesse, risulta agevole inquadrare le pratiche sessuali nell’alveo dell’esercizio di un diritto riconosciuto dall’ordinamento in via implicita. Ma la questione posta alla nostra attenzione è lievemente diversa, quanto basta per porre le basi di un discorso più approfondito. Qui non si sta indagando sul diritto alla vita sessuale (per così dire) ordinaria, ma a quella che contempla comportamenti che di per sé integrerebbero reati (pratiche sessuali estreme). Legare una persona è sequestro di persona ex art. 605 c.p.; causare lesioni integra reato ex art. 582 c.p., costringere taluno a tenere o subire comportamenti è violenza privata ex art. 610 c.p. Eventualmente rivolgere frasi offensive con l’intento di amplificare il piacere sessuale rientra nell’alveo dell’art. 594 c.p., cioè l’ingiuria. La questione è quindi la seguente: in base a cosa si reputano leciti comportamenti di tal genere, che sono già di per sé dotati di rilevanza penale?

4. La “teoria tripartita” come punto di partenza nell’indagine sulla responsabilità penale.  
La risposta al quesito precedente va ricercata nella consolidata teoria tripartita del reato. Vi sono tre teorie fondamentali intorno alla natura e alla struttura del reato, e cioè quella bipartita, quella tripartita e quella quadripartita. Quella bipartita sostiene che il reato si divida in elementi soggettivi e oggettivi, ed è quella maggiormente in grado di indagare sulla composizione interna del reato come fatto umano illecito. Essa comporta come conseguenza che le cause di giustificazione (cioè quelle circostanze che rendono lecito un comportamento illecito, come ad es. la legittima difesa) siano elementi negativi del fatto, cioè elementi che eliminano di per sé il fatto tipico. La teoria tripartita, rivalutata secondo la concezione normativa della colpevolezza, dice che il reato si compone di elementi soggettivi ed elementi oggettivi (che formano la tipicità del reato), dell’antigiuridicità del fatto tipico, e della colpevolezza del soggetto, intesa quest’ultima come rimproverabilità per aver tenuto un comportamento distante dal modello di condotta legale. La teoria tripartita è quella più idonea a spiegare non solo ( qualcuno direbbe “non tanto” ) la composizione interna del reato bensì anche le fasi di indagine sulla responsabilità penale. La teoria quadripartita aggiunge a questi tre elementi citati, la punibilità. Al di là delle critiche svolte in dottrina, che non rilevano in questa sede, la teoria è idonea a spiegare non solo la composizione interna del reato, non meramente la responsabilità penale, ma il percorso della pena dalla fase normativa a quella dell’ irrogazione. In altre parole la teoria bipartita ha come protagonista il reato, quella tripartita ha come protagonista il reo, quella quadripartita ha come protagonista la pena.
à La teoria che ci interessa è quella tripartita, poiché capiamo bene che, specialmente per il discorso che stiamo affrontando, la questione principale è quella della responsabilità penale personale. La concezione tripartita ha un merito, che è il seguente: essa ci dice che quando una norma penale sta all’apparenza vietando un fatto umano, in realtà lo sta solo indicando come tendenzialmente illecito (rectius, lo sta indicando semplicemente come dotato di rilevanza penale), rimettendo la statuizione sulla responsabilità ad altri momenti, che sono il controllo sull’antigiuridicità e quello sulla colpevolezza.
L’antigiuridicità si ha quando un comportamento che è tipico (cioè richiamato come penalmente rilevante da una norma) è anche contrario ad ogni ramo dell’ordinamento giuridico, cioè non trova nell’ordinamento giuridico alcuna norma che lo renda lecito. Se succede il contrario, e cioè che il fatto seppur tipico trova una sua liceità in virtù di altre norme o principi dell’ordinamento, il soggetto che ha compiuto tale fatto non sarà punibile. Nel nostro ordinamento esistono norme, inserite nel codice penale, che scriminano i reati, alla presenza di determinati presupposti. Esse sono le c.d. cause di giustificazione. Un fatto costituente reato non sarà punito se commesso col consenso dell’avente diritto, o nell’esercizio di un diritto/adempimento di un dovere, in stato di legittima difesa o di necessità. Esiste poi un’ulteriore causa di giustificazione che coinvolge l’uso legittimo delle armi da parte dei pubblici ufficiali.
à Il discorso sulle pratiche sessuali coinvolge certamente alcune di queste cause di giustificazione, e cioè: l’esercizio di un diritto e il consenso dell’avente diritto. La prima causa di giustificazione (scriminante) la si evince da ciò che abbiamo detto precedentemente in tema di diritto alla libertà sessuale come diritto inviolabile della persona ex art. 2 Cost., mentre il consenso dell’avente diritto lo si evince da ciò che abbiamo detto in tema di bondage inteso come contratto tra due persone. Con tale contratto, le parti contrattuali acconsentono a svolgere determinati atti e a subirli. Ma la domanda che serve porre è la seguente: in quali termini e con quali limiti una persona può obbligarsi a subire atti penalmente rilevanti? Quali sono le condizioni di tale consenso?

5. Il consenso scriminante.
Il consenso, per rendere lecita una pratica sessuale estrema, e quindi pericolosa, deve possedere alcune importanti caratteristiche, e cioè, segnatamente deve essere: personale, avente ad oggetto diritti disponibili, attuale, specifico, effettivo, manifestato, libero, informato, consapevole e volontario. Esso è personale quando proviene dal soggetto su cui si riverbereranno le attività lesive altrui; quindi il soggetto deve essere il titolare del bene giuridico (libertà di movimento, integrità fisica, vita) che verrà in concreto offeso. Prima di passare a trattare della disponibilità del diritto, indichiamo brevemente il significato delle successive caratteristiche. L’attualità del consenso significa che esso deve essere precedente alle attività lesive subite, mentre l’eventuale consenso prestato dopo aver subito il danno varrà solo come scriminante morale (una sorta di perdono) ma non come scriminante giuridica. La specificità significa che il soggetto deve acconsentire a determinate modalità di lesione dei propri beni giuridici. L’effettività si ha quando il consenso è destinato a produrre effetti, cioè non è prestato per puro scherzo o con riserva mentale ( cioè atteggiamento psichico col quale una persona manifesta una volontà con l’occulto fine di escluderne gli effetti). L’effettività del consenso fa sì che si possa escludere il consenso presunto, che si avrebbe nel caso in cui un soggetto sappia che l’altra persona non l’ha autorizzato a compiere specifici atti ma ritiene che, avendo riguardo alle circostanze concrete in cui si è successivamente trovato ad agire, quella persona lo avrebbe autorizzato se in precedenza fosse stato già a conoscenza che quelle circostanze si sarebbero verificate (ci si può immaginare un contratto di bondage in cui solo alcuni atti siano stati deliberatamente accettati dalla controparte ma, evolvendo la situazione in maniera imprevedibile, uno dei due ritiene che anche la nuova situazione possa essere considerata come accettata). Il consenso è manifestato quando è portato all’attenzione e alla conoscenza della controparte, in maniera espressa o tacita (in questo caso però servono i c.d. facta concludentia, cioè atteggiamenti che inequivocabilmente manifestano il consenso, per essere gli stessi normalmente accostati a significati sociali conosciuti in maniera notoria). Il consenso è libero quando non è estorto, cioè ricavato con violenza, atteggiamenti fraudolenti o per aver tratto in errore la controparte. Infine, il consenso è informato quando la persona conosce a cosa va incontro prestandolo, quali attività potrà svolgere, quali attività potrà subire, quali sono i rischi, come eluderli, come difendersi da essi. Il consenso è consapevole nel momento in cui il soggetto è cosciente, cioè innanzitutto capace di intendere e di volere e, in secondo luogo, effettivamente edotto della portata del suo consenso, cioè degli effetti che produrrà nel futuro prossimo. Il consenso è volontario nel momento in cui deriva dalla libertà decisionale non viziata del soggetto consenziente.
Passiamo ora ad analizzare cosa significa che il consenso deve avere ad oggetto diritti disponibili. Ogni persona ha diritti connessi all’espressione del suo essere (ad. esempio il diritto all’onore e alla reputazione) e diritti strettamente connessi con il suo corpo (come sono quelli inerenti alla libertà personale di movimento, e quelli relativi all’integrità fisica e alla vita). E ogni persona, con propri comportamenti può incidere sull’esistenza o sulla consistenza di tali diritti. La questione che ci poniamo è: tutti i diritti sono sia comprimibili che sacrificabili, o esistono diritti che possano essere compressi ma non sacrificabili, o addirittura né comprimibili né sacrificabili? Nella pratica sessuale estrema rilevano gli ultimi tre diritti citati, e quindi è bene focalizzare l’attenzione su di essi. La libertà di movimento è una libertà non sacrificabile ma comprimibile in via non definitiva. Ad esempio, un soggetto non può acconsentire ad essere ridotto in schiavitù o a sottostare al volere di una persona ad infinitum. Può decidere di comprimere, cioè limitare, temporaneamente la propria libertà per dei fini corrispondenti ad un suo interesse tutelabile. Ad esempio, il lottatore che acconsente a sostenere la sfida contro il suo avversario all’interno di una gabbia sta acconsentendo alla limitazione della propria libertà ma solo in vista di un fine tutelato, cioè il praticare uno sport che gli piace e che gli fa esprimere la propria personalità. Stessa cosa, ad esempio, per il bersaglio umano di un lanciatore di coltelli che durante un’esibizione si fa legare ad un bersaglio fisso per ricevere il lancio dei coltelli stessi. Si comprende quindi come la libertà personale, intesa come libertà di movimento, può essere compressa “riservandosi” la possibilità certa di riespandersi dopo un lasso di tempo concordato. Per quanto concerne invece l’integrità fisica, bisogna fare riferimento all’articolo 5 del codice civile il quale dispone che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando:
1) causano al corpo una menomazione permanente, menomazione che non è resa necessaria dal tentativo di ottenere un miglioramento generale delle condizioni di salute (es. nel caso di necessità di amputazione di un arto in cancrena), né è finalizzata all’adempimento di un obbligo morale di solidarietà (ad esempio, donazione di un rene da padre a figlio in pericolo di vita).
2) si tratta di atti comunque contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
Il diritto alla vita è invece un diritto non disponibile. Ciò significa che una persona non può decidere della propria vita. Ciò farà storcere il naso a chi legge, poiché si obietterà che in realtà se una persona sceglie la via del suicidio può concretizzarlo tranquillamente. In effetti è così. Ma ciò non vuol dire che l’ordinamento non consideri biasimevole il suicidio, ma semplicemente che la punibilità non sarebbe comunque possibile per ovvi motivi. L’unico caso di punibilità a cui l’ordinamento potrebbe pensare, per sanzionare un comportamento di un soggetto che tenta di disporre della propria vita, è quello dell’incriminazione del tentato suicidio, poiché il soggetto agente resta in vita. A ben vedere la non punibilità ha anche in questo caso un senso, poiché la pena dovrebbe tendere alla rieducazione del reo (Art. 27 Cost.), e ci si può immaginare quanto elevata sarebbe la disponibilità di una persona che abbia tentato il suicidio a rendersi disponibile per un trattamento rieducativo. Sanzionare il tentativo di suicidio raggiungerebbe il solo risultato di inasprire l’odio della persona nei confronti della vita e dell’ordinamento giuridico stesso.
Volendo rapportare tale discorso sinora fatto alla tematica del bondage, possiamo dire che esso non può realizzare una coercizione fisica tesa a sopprimere per un tempo illimitato la libertà di movimento; non deve poter causare menomazioni permanenti; non deve “attentare” alla vita. In più, deve esserci il consenso del partner che subirà i trattamenti pericolosi, e tale consenso dovrà avere le caratteristiche prima indicate. Poi servirà l’idoneità psicofisica, ciò vuol dire che la pratica specifica non deve essere in grado, per le sue caratteristiche particolari, di compromettere la salute dei partecipanti, a causa di stati patologici preesistenti. L’ultimo presupposto da rispettare, evincibile dalla natura contrattuale di tale pratica, è il rispetto delle regole pattuite. Resta da analizzare quali siano le situazioni problematiche che, intervenendo durante l’esecuzione del bondage, possono arrivare a fondare una responsabilità penale di taluno dei partecipanti.

6. Patologie da cui deriva la morte.
Potrebbe ben accadere: 1) che il soggetto che si appresta a subire l’uso delle corde abbia celato proprie malattie sussistenti al momento dell’accordo, o 2) non sia a conoscenza di proprie malattie destinate a manifestarsi per la prima volta proprio durante l’esecuzione della pratica.
à ipotesi sub 1)
- se la patologia era riconoscibile/riconosciuta dall’altra parte utilizzando la normale diligenza richiesta all’ homo eiusdem condicionis et professionis, essa risponderà per colpa o dolo del danno cagionato. E più precisamente: di dolo eventuale quando si è rappresentato l’alta probabilità che la malattia avrebbe causato l’evento ed ha accettato il rischio di verificazione dello stesso, deliberatamente subordinando il bene giuridico altrui (vita o integrità fisica) al proprio interesse alla pratica sessuale (si veda Sentenza “Thyssen”); di colpa incosciente quando non ha riconosciuto l’esistenza della patologia pericolosa ma poteva farlo o, pur avendo riconosciuto la patologia, non riteneva che potesse portare al danno durante la pratica; di colpa cosciente quando ha riconosciuto l’esistenza di tale patologia, ha compreso che poteva portare a conseguenze lesive ma ha ritenuto che esse non si sarebbero verificate, grazie alle sue abilità nell’esecuzione della pratica o grazie a precauzioni particolari che avrebbe preso durante tale pratica (precauzioni che poi in realtà non ha preso, o che si sono rivelate insufficienti).
- se la patologia non era riconoscibile, opererà il caso fortuito ex art. 45 c.p., poiché il fattore che ha causato l’evento era sin dall’inizio imprevedibile, e ha reso altrettanto imprevedibile ed eccezionale anche l’evento stesso.

à ipotesi sub 2)
- se la patologia sopravviene per la prima volta durante l’esecuzione del bondage, ipotesi sub 2), non può applicarsi l’articolo 41 del codice penale, che elimina la responsabilità penale nel caso di verificazione di cause successive autonomamente idonee a cagionare l’evento, poiché normalmente tale principio viene applicato solo quando la causa successiva non sia minimamente riallacciabile al comportamento del soggetto agente. Nel caso concreto la causa successiva sarebbe strettamente connessa al comportamento del soggetto agente, poiché senza tale suo atto non si sarebbe verificata. Ecco che quindi il nesso di causalità, tra la condotta del partecipante e la patologia in cui è incorso il partner, non viene meno. E’ troppo severo però addebitare in tal modo la responsabilità penale, dato che il danno si verifica per causa assolutamente imponderabile. Verrà in rilievo il caso fortuito ex art. 45 c.p., che esclude la punibilità (per alcuni esclude la colpevolezza, per altri il fatto tipico), basandosi sul fatto che la condotta di un soggetto, seppur avvenuta, era destinata a rimanere nell’alveo della liceità se non fosse stato per un fattore imprevedibile che avrebbe spostato di lì a poco la linea degli eventi verso risultati straordinari e imprevedibili.
à ipotesi sub 1) e sub 2)
V’è anche da dire che, al di là di se la patologia si manifesti per la prima volta durante l’esecuzione della pratica o sia stata occultata dalla vittima, il soggetto sarà punito lo stesso (per colpa) nel caso in cui gli si sarebbe potuto chiedere di interrompere immediatamente la pratica, poiché palese che la continuazione avrebbe portato ad esiti infausti. Si immagini la differenza tra una cardiopatia che affiora in un attacco di cuore in seguito a mummificazione, la quale potrebbe portare alla morte in pochi secondi senza lasciare al partner alcuna possibilità di interrompere la pratica, e degli attacchi d’asma che segnalano una carenza respiratoria a cui può velocemente porsi rimedio liberando il soggetto o prestando il dovuto soccorso. L’ipotesi dell’omissione di soccorso aggravata dalla morte (art. 593 ult. comma c.p.) dovrebbe essere scartata (seguendo la tesi di alcuni) poiché l’obbligo di agire scaturirebbe dalla precedente azione pericolosa, che è già di per sé un fatto commissivo rilevante penalmente. Quindi si dovrebbe optare comunque per l’addebito di omicidio colposo di tipo commissivo. Per chi ritiene che la precedente azione pericolosa sia una fonte dell’obbligo di agire ( teoria del trifoglio), potrà ben aversi l’addebito per omissione di soccorso nella sua forma aggravata dalla morte del soggetto non assistito.

7. Il soggetto è sano ma avviene una lesione grave (o gravissima) o la morte, per causa diversa da quella patologica.
Innanzitutto è bene sottolineare che in una pratica sessuale estrema destinata per sua natura all’inflizione del dolore non potranno essere rimproverabili i soggetti responsabili di sole percosse o lesioni lievissime o lievi, a meno che esse non siano espressamente escluse dal patto (e questa è pura fantasia, poiché chi si concede ad una tale esecuzione sa benissimo che il rischio di tali risultati infausti c’è eccome), quindi bisogna focalizzare l’attenzione sulle lesioni gravi o gravissime e sulla morte. Come al solito bisogna cercare di immaginare le situazioni tipiche che potrebbero verificarsi.
1) Errore di esecuzione da parte del soggetto non legato. Nel caso in cui l’attività di legatura, di sollevamento per la sospensione, di mummificazione, o qualsiasi altra attività finalizzata alla pratica, venga effettuata in assenza di un sistema di precauzioni, o in malo modo dal soggetto “libero”, vi sarà la punibilità per colpa (nel momento in cui si intraveda la negligenza o l’imperizia) o per dolo (nel caso in cui sia acclarata l’intenzione di ledere o uccidere).
2) Errore comportamentale del soggetto non libero. Se a violare le norme comportamentali  di base sia il soggetto destinatario della legatura, il suo partner non risponderà dell’evento salvo il caso in cui fosse a conoscenza della impulsività, inesperienza, o di atteggiamenti della personalità dell’altro che avrebbero potuto inficiare l’atto.
3) Vizi strutturali inerenti agli strumenti acquistati e da utilizzare nella pratica. Nel caso in cui i materiali utilizzati rivelino vizi strutturali, a rispondere dell’evento potrà essere il soggetto che li ha forniti. Se il vizio era riconoscibile, risponderà anche il soggetto che lo ha riconosciuto o che poteva riconoscerlo. L’elemento soggettivo (dolo o colpa) andrà vagliato secondo i normali canoni.

8. Bondage e omicidio preterintenzionale.
In questa sede, muovendo da quanto già anticipato nel paragrafo 2, ci si interroga sulla astratta configurabilità dell’omicidio preterintenzionale scaturito da una pratica sessuale estrema come quella del bondage. L’omicidio preterintenzionale si ha quando il soggetto agente compie atti diretti a percuotere o ledere, finendo per causare la morte del soggetto passivo. Le parole “diretti a” equivalgono alla locuzione usata dal legislatore nell’art. 56 (Delitto Tentato) “diretti in modo non equivoco a”, locuzione che sottintende il finalismo, cioè l’univocità del fine criminoso. Nel bondage il fine è quello di ricercare il piacere sessuale reciproco provocando dolore nella “vittima”, ma è da scartare a priori che la volontà sia quella di ledere. La lesione può essere solo un esito infausto, ma non potrà mai atteggiarsi come lesione voluta per provocare piacere sessuale. L’unico tipo di lesione voluta può solo afferire ad una vera e propria intenzione criminosa slegata dal gioco erotico. In altre parole, per quanto concerne il rapporto tra lesioni e morte:
- se il soggetto libero dalle corde si attiene alle regole del gioco erotico, non vi saranno mai atti diretti a ledere, e di conseguenza, qualora si verifichi la morte, potrà esserci solo l’addebito per colpa e mai l’addebito per omicidio preterintenzionale.
- se tale soggetto usa il gioco erotico come pretesto per poter compiere un delitto di lesioni, e quindi agisce al di fuori delle regole del gioco attivandosi per causare tali danni, potrà essergli mosso l’addebito di omicidio preterintenzionale qualora scaturisca la morte.
- se il soggetto usa il gioco erotico come pretesto per poter compiere il delitto di omicidio, e quindi il suo fine non è ledere bensì direttamente uccidere, l’addebito sarà quello di omicidio doloso.
Spostandoci ora sul piano del rapporto tra percosse e morte, possiamo dire che tale atto, cioè l’atto del percuotere può essere certamente parte integrante della pratica sessuale, proprio perché la regola “Infliggi sofferenza, ma non danneggiare!” può essere proprio tradotta nel senso che non auspicabili siano proprio le lesioni ma ben accette siano le percosse. Quindi si può ammettere che la volontà di percuotere, nella pratica del bondage, possa sussistere, ma ci si deve interrogare su se tale volontà di percuotere può dare vita all’accusa di omicidio preterintenzionale qualora agli atti diretti a percuotere segua la morte. L’omicidio preterintenzionale presuppone che gli atti siano diretti a compiere alternativamente dei reati, cioè il reato di percosse e il reato di lesioni. Appunto, la volontà deve essere prima di tutto quella di compiere un reato. Ma se ammettiamo che la volontà di percuotere può essere animata dal fine di provocare piacere sessuale, a difettare sarà proprio la volontà di commettere un delitto di percosse! E venendo meno tale presupposto, è da escludere che l’omicidio eventualmente conseguente sia preterintenzionale. Sarà perciò anch’esso da addebitare per colpa. Se invece il soggetto agente percuote in maniera avulsa dal gioco erotico, e cioè varcando i limiti di proporzione e le modalità pattuite valgono le considerazioni già fatte per le lesioni. In tal caso, quindi, potrà essere addebitabile il delitto preterintenzionale. 
 

9. Per un tentativo di astrazione di quanto detto.       
La questione della responsabilità penale conseguente all’attività di bondage dovrebbe essere risolta come segue, nel complesso tentativo di dettare regole generali e con la convinzione di dover avere riguardo ai casi concreti per essere più precisi:
- I presupposti della liceità dell’attività sono dati dal consenso a subire pratiche sessuali estreme, consenso che deve presentare i caratteri detti in precedenza e da cui si deve evincere quali fatti il soggetto consenziente è disposto a tollerare.
- Tutti gli eventi che esorbitano da tale consenso danno origine a rilevanza penale ( ragionevolmente ci si immagina solo gli eventi di sequestro di persona, lesioni gravi o gravissime, e morte).
- La rilevanza penale si trasforma in responsabilità del soggetto non danneggiato, nel momento in cui si dimostri che lo stesso ha agito al di fuori delle regole precedentemente pattuite, o, in generale, con imprudenza, negligenza o intenzione criminosa. L’intenzione criminosa potrà essere fatta valere anche se l’evento si è verificato nel rispetto delle regole, qualora fosse obbiettivamente superfluo (un danno “gratuito”).

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