domenica 13 gennaio 2013

L'aggravante del femminicidio.


di Filippo Lombardi

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Come tutti sapete, c’è stata di recente una proposta, da parte dell’ On. Bongiorno, di inserire nel codice penale (pare tra le aggravanti previste per l’omicidio – artt. 576 e 577 c.p.) una nuova aggravante a tutela delle donne. La chiamano “aggravante del femminicidio”, termine un po’ rude secondo il mio parere, ma che rende bene l’idea: il soggetto che uccida una donna rischia, in particolari casi, di vedere la propria pena schizzare dalla reclusione all’ergastolo.
Devo ammettere che, tramite le varie ricerche del testo preciso della norma nel web, ne ho trovate di cotte e di crude, ma la spiegazione che la maggior parte delle testate online dava era la seguente: l’aggravante si applicherebbe al soggetto agente il quale uccida una donna in quanto donna. Di conseguenza, la pena risulterebbe aggravata dal motivo biasimevole, cioè l’aver ucciso una donna a causa dell’odio nei confronti del genere femminile. Avevo quindi iniziato a scrivere una bozza di commento, evidenziando come l’aggravante in parola si ponesse in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, fosse di difficile accertamento processuale, rischiasse almeno nel breve periodo di applicarsi in funzione generalpreventiva (e dunque con criteri obbiettivi, in spregio all’articolo 27 Cost.), e soprattutto non servisse, perché facilmente sostituibile attraverso il ricorso a moltissime aggravanti già esistenti, alcune delle quali aumentano già la pena da reclusione a ergastolo: motivi abietti, abuso di relazioni domestiche o di coabitazione, crudeltà, uxoricidio, ecc. L’aggravante sarebbe stata altresì inutile in quanto non considera che il dolo d’impeto o la turba psichica non fa i conti con la pena, e quest’ultima, anche se aumentata, difficilmente riesce ad avere effetto dissuasivo sull’agente.

Un paio di giorni fa, però, un amico, che ha avuto la buona sorte di interagire direttamente su Twitter con l’Avv. Bongiorno, mi ha contattato riportandomi il vero ambito applicativo dell’aggravante: a detta dello stesso Avvocato, (che ringrazio per la sua disponibilità a interagire direttamente con gli utenti del web) la circostanza si applicherebbe quando il delitto di omicidio sia compiuto (reputo: contro una donna) “per salvaguardare l’onore o col pretesto di violazione di norme sociali” . E qui cominciano i guai seri.
Se prima la norma era abbastanza problematica, ma poneva il limpido fine di arginare i delitti ai danni delle donne, ora essa è divenuta di difficile lettura, e a tratti controversa. Pur dovendo considerare possibile un’evoluzione del testo definitivo della norma, chi scrive ritiene che l’aggravante continui a porre problemi di operatività. Le ragioni sono semplici, e le si comprende scomponendo la norma in due frazioni: 1) “Tizio uccide Caia per salvaguardare l’onore”, 2) “Tizio uccide Caia col pretesto di violazione di norme sociali”.
Se il testo definitivo dell’aggravante (e mi limito a commentare l’aggravante, non a commentare la necessità di un’aggravante a tutela delle donne) sarà quello che è stato riportato all’internauta dalla proponente, entrambe le porzioni della norma pongono, ciascuna, un problema. La parte sub 1 ha il (de)merito di consentire al giudice una valutazione sul tentativo di difesa del proprio onore posto in essere dal carnefice. Il risvolto sarebbe la possibilità che la prima parte della norma consenta l’applicazione di un’attenuante (!), quella della c.d. “provocazione”, ex articolo 62 c.p. (l’aver compiuto il fatto in stato d’ira derivante dal fatto ingiusto altrui). Detto in altre parole, nel processo può venir fuori la motivazione interiore dell’uomo nel porre in essere il crimine. E tale motivazione è in grado di
oscillare tra un ambito di meritevolezza (che giustifica un’attenuazione) e un ambito di turpitudine (che giustifica l’aggravamento della pena). D’altronde, pur volendo ammettere che il motivo della difesa dell’onore possa ricadere in un ambito di non meritevolezza, si dovrebbe dire che il soggetto agente abbia ucciso col “pretesto” di difendere l’onore. Ma quando un soggetto impiega un motivo inesistente o non meritevole di tutela al fine di commettere un reato, il risultato è la sproporzione tra motivo e fatto compiuto: tale sproporzione altro non è che l’oggetto dell’aggravante dei futili motivi, di cui all’articolo 61 c.p. Questa aggravante, laddove applicata all’omicidio, innalza la pena da reclusione a ergastolo (lo troviamo scritto nell’articolo 577 del codice penale).
Circa la seconda parte della norma (“col pretesto di violazione di norme sociali”), essa esprime questa ipotesi: Tizio uccide Caia perché Caia, secondo il parere del carnefice, violava norme sociali. O meglio: Tizio uccide perché, pur sapendo che Caia non violava alcuna norma sociale, considera a proprio uso e consumo questa motivazione inesistente per compiere il reato. Anche qui il concetto di pretesto è idoneo a rientrare nell’aggravante dei futili motivi, anzi in questo caso, a differenza della prima parte della norma, la sovrapponibilità tra le due aggravanti è lampante. Mentre nella prima parte la sovrapponibilità è eventuale e deriva dall’accertamento processuale dei fatti, nella seconda parte è la stessa norma che, utilizzando il concetto di pretesto, riporta la mente dell’interprete alla nozione di pretesto nei futili motivi (l’aggravante dei futili motivi, lo ripeto, si applica quando vi è una sproporzione talmente ampia tra motivo e fatto, che il primo degrada a puro pretesto per commettere l’illecito).
Volendo schematizzare, a parere di chi scrive, la norma pone due problemi: A) Nella prima parte, può risultare sovrapponibile all’aggravante dei futili motivi o può dare adito ad una valutazione dei fatti in grado non solo di disapplicare l’aggravante ma di applicare un’attenuante; B) Nella seconda parte, il riferimento espresso al concetto di pretesto rende già prima facie applicabile al caso di specie l’aggravante dei futili motivi.
Poiché l’aggravante dei futili motivi causa già l’innalzamento della pena per l’omicidio da reclusione a ergastolo, ex art. 577 c.p., l’aggravante sarebbe superflua non solo per quanto concerne il contenuto ma anche per quanto concerne il proposito ( causare l’applicazione dell’ergastolo in luogo di pena più mite).

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