giovedì 29 dicembre 2011

Sul bene giuridico nei reati di ingiuria e diffamazione.

di Filippo Lombardi

I reati di ingiuria e di diffamazione sono previsti e puniti dagli articoli 594 e 595 del codice penale vigente, e proteggono il bene giuridico dell’onore. Sono due reati molto particolari, poiché l’applicazione della norma dipende in misura rilevante dalla lesività dell’azione del soggetto agente. La questione che si vuole evidenziare è quindi: cos’è effettivamente l’onore? L’onore suole definirsi secondo due vesti.

1) Onore in senso soggettivo, inteso come sentimento che la persona prova nei propri confronti, teso a preservare la propria dignità morale. A ben vedere, la definizione, data da gran parte della dottrina, è ridondante poiché il concetto di dignità morale è tautologico. La dignità, infatti, altro non è che il valore morale di una persona, ovvero l’insieme di tutti quei caratteri connaturati al proprio io, che hanno a che fare con concezioni etiche-morali che la persona ha sviluppato dentro di sé negli anni di vita e che ci tiene a vedere riconosciute e rispettate come caratteri inscindibili della propria personalità. Ecco perché abolirei dalla definizione l’aggettivo morale.

2) Onore in senso oggettivo, inteso come “ciò che gli altri pensano di me”, e va a ricomprendere tutti quei sentimenti collettivi come la stima e il riconoscimento dell’altro, sentimenti che vanno a confluire nel concetto di reputazione, cioè il modo in cui gli altri considerano il soggetto passivo del reato, a livello morale, personale, lavorativo, ecc.

Le due facce del concetto di onore sono state analizzate ancor più nello specifico poiché, dopo l’opera definitoria, sorgeva un problema di riscontro. Si parla di onore, di dignità, di reputazione. Ma si sa che il principio di frammentarietà del diritto penale comporta che solo alcuni beni giuridici vengano tutelati, e nel corso degli anni la concezione costituzionalmente orientata di bene giuridico aveva offerto il lasciapassare ai fini della tutela solo a beni giuridici che fossero emersi dalla Costituzione. Dove troviamo il bene giuridico dell’onore, o almeno le sue scissioni in diritto al rispetto della dignità e diritto al rispetto della reputazione?
La dottrina si sforzava perciò di riscontrare la presenza di detti concetti nella nostra fonte suprema del diritto attraverso un’opera di interpretazione implicita (mi sentirei di dire teleologica), e ne venivano fuori alcune interessanti teorie che lo scrivente vuole non solo presentare ma di cui intende (quantomeno cercare di) svelare i punti deboli:

- Concezione normativa dell’onore. Essa fa leva sull’articolo 3 Cost. e si fonda sul riconoscimento della parità sociale, che comporterebbe una pari dignità tra i consociati, e perciò un divieto di ergersi a giudici degli altri. Questa teoria è “esteticamente piacevole” e funzionale a risolvere vuoti di tutela come nel caso di chi non ha ancora una reputazione ben definita. Applicando la teoria citata, si fornirà tutela al soggetto passivo anche in questi casi particolari. Ma qual è il punto debole di questa teoria? Non fa i conti col bene giuridico. La teoria in questione infatti non preserva nulla. Essa ci dice “tu, consociato, non giudicare!” ma non “mette sul piatto” il bene giuridico. Dov’è il bene giuridico tutelato? E’ nascosto dietro al principio di uguaglianza? Mi pare alquanto forzato dirlo. Il principio di uguaglianza è una cosa, l’onore è un’altra cosa. La teoria, perciò, rimane solo un buon ausilio per i casi problematici a cui ho fatto riferimento, ma non può considerarsi onnicomprensiva, altrimenti si finirebbe per presumere in maniera generale l’esistenza dell’onore col ricorso alla parità sociale.

- Concezione solidaristica e tripartizione del concetto di onore. Tendo qui a sottolineare che alla teoria in questione non è mai stato dato un nome specifico, e che il nome qui presente è solo un tentativo di concettualizzazione dato dallo scrivente. Questa teoria rintraccia l’onore nella capacità della persona di essere funzionale alla società e di essere in grado di convivere civilmente coi consociati secondo le normali aspettative sociali normativizzate dall’ordinamento giuridico. Non c’è bisogno di svelarne il punto debole, perché andando avanti con la teorizzazione che parte della dottrina ha offerto, ci si rende conto che il concetto di onore deve per forza essere tripartito. L’onore rileverebbe come onore soggettivo (interiore), onore oggettivo (esteriore), onore presunto dalla collettività (questa presunzione deriverebbe dal riconnettere la capacità di cui sopra ad ogni soggetto aprioristicamente). Questa concezione è più sincera della teoria precedente, perché ammette espressamente che la tutela di beni giuridici che si riconnettono ai sentimenti (sentimento della persona nei confronti di se stessa e sentimento dei consociati nei confronti della persona) può essere approntata solo attraverso un’opera di astrazione e presunzione concettuale.
E, a conti fatti, qual è il problema di fondo a cui porge il fianco l’opera di presunzione del concetto di onore (e quindi di dignità, di reputazione, di stima, di considerazione ecc)? Che si trasforma un reato che si suole definire di danno, in un reato di pericolo presunto, o comunque in un reato con bene giuridico presunto. Perché  presunto? Perché abbracciando le teorie finora offerte (che, voglio sottolineare, sono quelle operative e riconosciute dalla giurisprudenza dominante, ma che forse nessuno si è mai sognato di mettere in discussione) si prescinderà dal controllo dell’esistenza del bene giuridico. Si finirà per dire, eventualmente, dinanzi ad un’affermazione ingiuriosa o diffamatoria (mi si perdonerà per il linguaggio non proprio elevato) “Beh, non sappiamo se c’è un onore effettivamente esistente, ma diamo comunque una tutela, presumendo che il bene esista, non si sa mai”. Si passa così da reato di danno a reato di pericolo, o quantomeno si mette in luce una sorta di intermittenza della natura di questi due reati a seconda dei casi, una impossibilità di analisi concettuale dei due reati a trecentosessanta gradi. I reati riveleranno la loro costruzione interna, a seconda dei casi.
Col tempo poi si è sviluppata una ulteriore caratteristica dell’onore, o meglio una conseguenza implicita della presunzione dell’onore, che facilita la creazione di nuovi diritti quesiti. La definizione di onore comporta, infatti il diritto alla reale rappresentazione della propria personalità. Su questo, nulla da dire, è evidentemente una estrinsecazione letterale di quanto ammesso precedentemente attraverso le attività definitorie del concetto di onore. Se ognuno è qualcosa, e ci tiene a considerarsi ed essere considerato tale, la conseguenza è che la sua personalità debba essere trattata con le pinze, non violata, e ben raffigurata all’esterno, nei rapporti sociali.
Alle teorie  sinora esposte, preme allo scrivente tentare di fornirne una ulteriore.

- Combinato disposto tra gli artt. 2 e 32 Cost. Se proprio non si vuole considerare l’onore come un qualcosa di calato dall’alto (come succede abbracciando la prima teoria esposta) ma come qualcosa che sfocia dall’interno della persona, si può tentare di prendere in considerazione l’art. 32 Cost., norma che è longa manus dell’art. 2 Cost. che fa riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo. Il nesso tra i due articoli è profondo. Nell’articolo 32 si legge che nessuno può essere sottoposto contro la propria volontà a trattamenti terapeutici o sanitari, se ciò non è reso obbligatorio dalla legge. Ma al contempo si pone alla legge il limite del rispetto della persona umana. Questo rispetto della persona umana non può appartenere solo all’articolo 32, ma deve essere considerato come assolutamente pervasivo dell’intero impianto costituzionale. E dato che non si può ritenere che la legge debba avere come limite ogni bene giuridico della persona, si può con un po’ di buon senso ritenere che il limite effettivo lo si ritrovi proprio nella dignità della persona, come valore aulico e imprescindibile, un valore totalizzante. Se l’etica dominante reputa lecita l’eutanasia passiva (cioè l’omissione avente ad oggetto l’alimentazione forzata, c.d. accanimento terapeutico) vuol dire che dal punto di vista etico si vuole far prevalere la volontà decisionale della persona, la libertà di autodeterminazione. E da cosa sarebbe retta una eventuale decisione di lasciarsi morire? Dal fatto che al giorno d’oggi non è più rilevante il mero diritto alla vita, ma ciò che ogni uomo ricerca è il diritto alla vita dignitosa. E cosa significa vivere dignitosamente? Cosa pensiamo quando riflettiamo sul contenuto del concetto di vita dignitosa? Semplice: sia una vita in cui possiamo esprimere ciò che siamo e come ci sentiamo dentro e cosa vogliamo, sia una vita in cui possiamo essere funzionali alla società e alla realtà circostante, in cui possiamo apportare all’esterno qualcosa di noi stessi. Il cerchio quindi si chiude. Dove vanno ad incastrarsi l’espressione di cosa siamo e la funzionalizzazione del nostro essere? Nell’onore soggettivo (interno) e nell’onore oggettivo (esterno).
Un ultimo ragionamento, spostandoci sul piano tecnico e di punibilità del reo. Abbiamo dinanzi a noi finora due casi possibili: 1) caso in cui il soggetto passivo ha un onore (o una reputazione) mediamente riscontrabile e dimostrabile, il quale viene leso; 2) caso in cui il soggetto passivo non ha un onore (o una reputazione) ben formata. Nel primo caso la punibilità è evidente. Nel secondo caso la si presuppone evidente tramite il ricorso alla concezione normativa di onore. Ma a ben vedere vorrei porre una terza situazione. Il caso in cui un soggetto ha una reputazione, forte, (tendenzialmente) indubbia, dimostrata, evidente, estesa, ampiamente riconosciuta, e contro lo stesso vengano rivolte frasi ingiuriose o diffamatorie. La giurisprudenza, applicando la concezione normativa sopra esposta, ritiene che la punibilità non sia esclusa. Lo scrivente invece auspicherebbe che venga fatta un’analisi caso per caso, e che il discrimine debba porsi tra espressioni argomentate ed espressioni non argomentate. Se ad un soggetto con reputazione forte vengono rivolte delle espressioni  che si concretizzino in singoli aggettivi, epiteti, apposizioni, assolutamente inconcepibili e di contenuto talmente opposto al contenuto della sua reputazione, tale da configurarsi come risibili, suggerirei l’applicazione dell’art. 49 co. 2 del codice penale, per l’inidoneità dell’azione a ledere il bene giuridico tutelato dalle norme. L’inidoneità lascerebbe il posto alla idoneità nel caso specifico in cui l’espressione teoricamente ingiuriosa sia argomentata attraverso la spiegazione del motivo dell’uso dell’espressione stessa. In quel caso l’azione risulterebbe in grado di fornire prove concrete all’applicazione dell’epiteto o della qualifica degradante al soggetto passivo, e quindi in grado di scalfire il suo scudo protettivo ( cioè la dignità e la reputazione di cui una persona gode).

[ FONTE. La digressione su questa tematica è una riflessione personale derivata dalla piacevole lettura rivisitata delle pagine da 91 a 105, del libro Fiandaca – Musco “Diritto penale, Parte speciale – I delitti contro la persona”, terza edizione, Zanichelli Editore. ]

1 commento:

  1. A proposito di ingiuria...nel 2008 ho ricevuto una email con frasi ingiuriose da parte di una terza persona, dopo aver presentato denuncia, è stata mandata a processo ma nel mese di giugno 2012 è stata assolta dal Giudice di Pace in quanto questo reato non è contemplato dal codice penale in base ad una sentenza della Corte di Cassazione Penale del 2010

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