giovedì 23 dicembre 2010

La responsabilità penale per fatti commessi nell’esercizio di attività sportive.

Cassazione penale, sez. IV, 28 aprile 2010, n. 20595.

Nella sentenza indicata in epigrafe la Cassazione affronta il problema di verificare, nell’ambito di sport (per esempio il calcio e il rugby) che pur non avendo come finalità il prevalere fisico o della forza del contendente (il pugilato) espongono al rischio di contatti fisici dai quali può derivare una conseguenza negativa sulla salute dei contendenti, l’esistenza dei presupposti per l’addebito soggettivo di tali eventi.
Il caso è quello di Tizio che, nel corso di un incontro di calcio del campionato dilettanti, interveniva fallosamente sul giocatore avversario Caio che, a sua volta lo colpiva con un calcio al braccio sinistro. Ricoverato presso l’ospedale di Parma Tizio veniva trovato affetto da una frattura all’ulna, guaribile in tre mesi circa.
In particolare la Corte d’appello ricostruiva l’incidente ritenendo che, al momento del calcio Tizio fosse già caduto a terra e che Caio avesse imprudentemente cercato di colpire la palla malgrado  il rischio di colpire l’avversario già caduto a terra.
Pur escludendo la volontarietà dell'atto, la Corte di merito ha ritenuto che l'intervento di Caio fuoriuscisse dall'area del rischio consentito e che dunque fosse ravvisabile il reato di lesioni colpose con la conseguente condanna al risarcimento dei danni in favore del giocatore infortunato.
Decidendo sul ricorso dell’imputato, che lamentava violazione di legge nella sentenza della Corte d’appello perché non aveva considerato la scriminante non codificata riconducibile al c.d. “rischio consentito”, la Corte di Cassazione, confermando la decisione impugnata, ha chiarito in primo luogo proprio la nozione di rischio consentito e la possibilità di trasporla agli incidenti verificatisi nell’esercizio di attività sportive.
Al di là delle attività vietate tout court - perchè ritenute socialmente non utili (o di utilità non così rilevante da consentire l'assunzione del rischio) - le attività pericolose vengono consentite con un bilanciamento di interessi idoneo a conseguire un equilibrio tra rischio assunto e benefici conseguibili e una valorizzazione dell'obbligo di osservanza delle cautele correlato all'importanza dei beni in discussione (un rischio elevatissimo sarà consentito solo per salvaguardare beni fondamentali: si pensi ai vigili del fuoco che, a rischio della loro vita e qualche volta senza osservare le più elementari regole di prudenza, intervengono per salvare vite umane esponendo se stessi al rischio di perdere la vita).
La regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l'eventuale superamento del rischio consentito: superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore.
Rischio consentito non significa, infatti, esonero dall'obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente "consentito" per quella parte del rischio che non può essere eliminato. Insomma l'osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili - ma non prevenibili - solo se l'agente abbia rigorosamente rispettato le regole cautelari anche se non è stato possibile evitare il verificarsi dell'evento.
Non è necessario che l'attività pericolosa sia consentita normativamente; la sua utilità sociale può derivare anche dal riconoscimento tacito dell'uso da parte della comunità. Alcune attività pericolose sono addirittura obbligatorie o necessitate (si pensi alle attività di contrasto dei disastri o della criminalità, ma anche all'attività medico chirurgica d'urgenza).
Esistono anche attività pericolose, e ciò non ostante consentite, che soddisfano esclusivamente esigenze di carattere sociale, ludico o commerciale: alcuni sport (per es. il calcio o il rugby) pur non avendo come finalità il prevalere fisico o della forza del contendente (come avviene invece nel pugilato o nelle varie forme di lotta), espongono al rischio di contatti fisici dai quali può derivare una conseguenza negativa sulla salute dei contendenti.
Queste attività sono ovviamente consentite dall'ordinamento e si pone dunque il problema di individuare le regole cautelari la cui mancata osservanza consente di addebitare per colpa, ai soggetti tenuti al loro rispetto, l'evento verificatosi tenendo però conto della circostanza - che in qualche modo diversifica le attività sportive in esame da quelle pericolose in genere - che in queste attività sportive la contrapposizione, anche fisica, è connaturata al gioco e che dunque chi vi partecipa acconsente preventivamente anche a subire azioni che potrebbero ledere la sua integrità fisica.
La giurisprudenza di legittimità, negli ultimi anni, ha esaminato alcuni casi di lesioni provocate nel corso di contrasti violenti nell'esercizio delle attività sportive enucleando alcuni principi, in gran parte condivisibili anche se non sembra esservi sempre perfetta coincidenza nell'individuazione dei limiti tra penalmente irrilevante, reato colposo e reato doloso. A quanto risulta i precedenti sono costituiti da Cass., sez. 5, 13 febbraio 2009 n. 17923, Spada, rv. 243611; 4 luglio 2008 n. 44306, Maccherani, rv. 241687; sez. 5, 6 giugno 2006 n. 38143, Castenetto, n.m.; Cass., sez. 5, 20 gennaio 2005 n. 19473, Favotto, rv. 231534; 2 giugno 2000 n. 8910, Rotella, rv. 216716; 2 dicembre 1999 n. 1951, Rolla, rv.216436; sez. 4, 12 novembre 1999 n. 2765, Bernava, rv. 217643).
Da questo percorso giurisprudenziale si è tratta, in dottrina, la conclusione che la Corte di Cassazione abbia operato una distinzione del grado della colpa facendo rientrare nella copertura del rischio solo la colpa lieve da inquadrare nella c.d. "colpa incosciente" ma non la colpa grave e quella cosciente. Sembra comunque condivisibile l'opinione secondo cui le regole ricordate sono applicabili anche nelle competizioni non ufficiali "trattandosi di attività che, comunque, si riconosce di apprezzabile, e riconosciuta, rilevanza sociale, tale ritenuta e tutelata dall'ordinamento statuale".
La responsabilità penale per fatti commessi nell'esercizio di attività sportive.
I casi dei quali stiamo parlando integrano tutti fatti tipici penalmente sanzionati (percosse, lesioni o addirittura omicidio).
L'unico aspetto che può valere ad escluderne la rilevanza penale non può dunque che riguardare l'antigiuridicità tenendo conto che si tratta di attività non solo consentite ma favorite dall'ordinamento per la riconosciuta utilità sociale che le contraddistingue.
Che cosa rende dunque (penalmente) lecita una condotta rientrante nella fattispecie tipica di un reato? La risposta più frequente è quella che inquadra il tema nelle cause di giustificazione; in particolare sono state sostenute le tesi che individuano la causa di giustificazione nel consenso dell'avente diritto, nell'esercizio di un diritto, in una causa di giustificazione non codificata.
Va però premesso che il problema si pone esclusivamente se l'agente abbia cagionato un danno all'avversario in conseguenza di un'azione posta in essere in violazione della pertinente disciplina sportiva non nel caso in cui abbia rispettato le regole sportive a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (è stato fatto l'esempio del calciatore che, senza alcuna necessità, sferri un calcio fortissimo al pallone malgrado l'avversario si trovi in posizione di pericolo) e questa soluzione è condivisa anche dalla giurisprudenza civile di legittimità (v. Cass., sez. 3, 8 agosto 2002 n. 12012). Si è affermato in dottrina che, al di fuori di queste ipotesi, nel caso di danno provocato senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo.
La soluzione maggiormente condivisa è quella che individua in generale, nel caso di danni provocati nell'esercizio dell'attività sportiva, un'esimente non codificata, che esclude la punibilità di fatti che costituirebbero ordinariamente reato, fondata sull'analogia da ritenere consentita perchè in bonam partem. E la giustificazione di questa impostazione si fonda proprio sul rischio consentito: chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti - sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari.
Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperta dall'esimente, ciò a cui il giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono analoghi problemi nel caso di colpi "proibiti").
Abbiamo visto che la giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere esente da responsabilità il contendente che cagioni un danno nello svolgimento del gioco anche se, in ipotesi, abbia volontariamente violato la norma regolamentare purchè la finalità dell'azione fosse rivolta al conseguimento del risultato sportivo (per es. nel calcio il difensore spinge volontariamente l'avversario per impedirgli di intercettare il pallone; in questo caso soccorre soltanto il regolamento della disciplina e il calciatore potrà essere soggetto alle conseguenze previste dall'ordinamento sportivo, e non alla responsabilità penale se l'avversario subisce lesioni, perchè la condotta dell'agente era finalizzata allo svolgimento del gioco).
Dunque si può pervenire a questa prima conclusione: il colpo lesivo inferto volontariamente non è coperto dall'esimente in questione se estraneo alle finalità del gioco, il che si verifica, per es., quando l'azione lesiva sia posta in essere al di fuori dell'azione di gioco (si può fare l'esempio del calcio inferto ad un avversario in una zona del campo estranea all'azione); parimenti l'esimente non si applica in tutti i casi in cui la condotta violenta non sia finalizzata all'azione di gioco.
Ad analoga conclusione può però pervenirsi anche nel caso in cui l'azione violenta - pur finalizzata all'azione di gioco - sia non solo contraria alla disciplina sportiva ma addirittura estranea alle finalità del gioco: il calciatore che, sia pure in un'azione di contrasto, sferra volontariamente una gomitata sul viso dell'avversario non compie un'azione di gioco (come nel caso in cui contrasti irregolarmente il possesso della palla) ma pone in essere una condotta estranea al gioco.
In entrambi questi casi (colpo inferto volontariamente al di fuori dell'azione di gioco; colpo inferto volontariamente nell'azione di gioco ma per finalità estranee all'azione) il fatto non può che essere addebitato a titolo di dolo. In queste ipotesi l'attività sportiva è infatti estranea all'evento e costituisce soltanto un'occasione del suo verificarsi. L'agente non persegue una finalità di contrasto dell'avversario nell'azione di gioco ma lede volontariamente l'incolumità dell'avversario.
Non va però confuso il fatto violento coscientemente diretto a colpire l'avversario con la cosciente violazione della regola sportiva di comportamento. Se questa violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo; non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto).
Insomma è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario (si vedano, in questo senso, le condivisibili argomentazioni contenute nella citata sentenza Spada).
Ma se l'evento lesivo non è voluto, e neppure preventivamente accettato dal giocatore, può configurarsi una responsabilità per colpa nei casi in cui si sia in presenza della mera violazione della norma del regolamento di gioco? La risposta in linea di massima deve essere negativa: se l'azione è finalizzata allo sviluppo del gioco la violazione della regola disciplinare, anche se volontaria, non è sufficiente a concretizzare una responsabilità per colpa proprio in base al principio del rischio consentito: ogni giocatore sa, e accetta preventivamente, che egli e i suoi avversari possono violare le regole del gioco creando il rischio di eventi dannosi.
Che cosa può dunque ritenersi non coperto dalla scriminante e configurare una responsabilità per colpa? Deve anzitutto ritenersi estranea alla copertura del rischio consentito la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata (per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto) o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario (per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa).
In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza).

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