CASSAZIONE PENALE – Sez. IV – 14 gennaio 2013 n. 1716
– Pres. Sirena – Est. Romis – (Cassa Corte di Appello di Milano)
Responsabilità professionale medica – Reati omissivi
impropri – Colpa.
In tema di responsabilità
professionale medica, nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte ad una
sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa
quando non vi si proceda, mantenendosi nell'erronea posizione diagnostica
iniziale. E ciò vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della
diagnosi differenziale sia già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi
si debba ricorrere nell'immediato futuro a seguito di una prevedibile
modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già
esistente.
Nesso di causalità – Certezza processuale –
Accertamento.
L’esistenza del nesso
causale deve essere accertata in termini di certezza processuale la quale non
può non essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il
giudice dispone per le sue valutazioni probatorie; pertanto, la certezza intesa
in questa accezione deve essere raggiunta attraverso la valutazione di tutte le
circostanze del caso concreto sottoposte all’esame del magistrato secondo un
procedimento logico che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta
omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Commento del dott. Filippo Camela
Sommario: 1. Considerazioni
introduttive sul tema della causalità. 2. La teoria condizionalistica. 3.
I rilievi critici alla teoria della condicio sine qua non. 4. Superamento
delle critiche e integrazione della teoria condizionalistica con il criterio
della sussunzione sotto leggi scientifiche. 5. L’evoluzione della giurisprudenza
di legittimità sul coefficiente di probabilità: la rivoluzione copernicana
operata dalla sentenza Franzese. 6. L’accertamento del nesso di
causalità nei reati omissivi colposi. 7. Conclusioni.
1. Considerazioni introduttive sul tema della
causalità
La causalità penale
rappresenta un elemento costitutivo del reato in tutte quelle fattispecie
incriminatici che prevedono un evento naturalistico (ad esempio, “la morte di
un uomo” nel delitto di omicidio). Essa, in particolare, individua il nesso
(dal latino nectere, cioè legare) che
lega la condotta, quale atto umano (dal latino ago agere, cioè elemento agente, fatto causante), e l’evento (dal
latino evenire, quel che vien fuori).
Tale collegamento consente, nell’ambito di un diritto penale ispirato ai
principi di materialità (art. 25, comma 2, Cost.) e di personalità della
responsabilità penale (art. 27, comma 1, Cost.), l’imputazione di un evento
lesivo al soggetto che ha contribuito, con la propria condotta, alla
verificazione del risultato dannoso. Il rapporto di causalità, dunque, funge da
criterio di imputazione oggettiva del fatto all’agente.
La disciplina generale della
causalità penale si rinviene agli artt. 40 (“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato,
non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si
ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”) e 41 c.p. (“Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche
se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto
di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute
escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a
determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente
commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita.
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o
simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”).
2. La teoria condizionalistica.
A ben vedere, tuttavia, la
disciplina codicistica non è in grado di fornire una adeguata risposta alla
seguente domanda: qual è il criterio che consente di stabilire che un dato
evento è il risultato di una data azione?
La soluzione al quesito
posto ha indotto la dottrina penalistica italiana ad elaborare una serie di
teorie per l’accertamento del nesso di causalità. Tra le teorie principali si
segnalano quella condizionalistica, quella della causalità adeguata e quella
della causalità umana.
Considerato che le ultime
due teorie nascono come correttivi alla prima teoria nella sfera dei delitti
c.d. aggravati dall’evento ci soffermeremo, per quanto qui di interesse,
soltanto sulla teoria c.d. condizionalistica.
La comprensione di questa
teoria è ancorata al concetto di causa che spesso si utilizza nel senso comune
e rispecchia una domanda che spesso ci poniamo nella vita reale: che cosa
sarebbe successo se non avessi agito in quel determinato modo? Un grande
penalista tedesco, Karl Engisch, sottolineava che “ pentimento, risentimento, rimprovero si manifestano sempre nelle
frasi: se io non avessi fatto questo o quest’altro, l’evento X non sarebbe
accaduto; se tu non avessi agito come hai agito, l’evento X non si sarebbe
verificato”.
Tale concezione, trasportata
sul terreno giuridico, viene denominata condizionalistica o della condicio sine qua non poiché ritiene che ogni evento è la
conseguenza di molti fattori causali che sono tutti egualmente necessari perché
l’evento si verifichi. Ne consegue che è causa ogni condizione dell’evento,
ogni antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. In
particolare, l’accertamento del nesso di causalità avviene attraverso il
giudizio ipotetico controfattuale (contrario ai fatti) condotto con il c.d.
procedimento di eliminazione mentale. L’interprete deve, con altre parole, alla
stregua di un valutazione ex post,
verificare se una volta eliminato il fattore condizionante (il comportamento
umano) l’evento viene meno. Alla luce di tale criterio, un’azione è condicio sine qua non di un evento se
senza di essa l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva) ovvero
un’azione non è causa dell’evento se senza di essa l’evento si sarebbe
ugualmente verificato (formula negativa).
Un riscontro pratico della
teoria in esame si ha, ad esempio, nell’ipotesi in cui Tizio pugnala Caio il
quale decede in quanto colpito in un organo vitale. È di tutta evidenza che la
condotta di Tizio è condicio sine qua non
dell’evento morte poiché se eliminata mentalmente l’evento viene meno.
3. I rilievi critici alla teoria della condicio sine qua non .
Al di fuori dell’esempio
riportato, la teoria condizionalistica, così come originariamente formulata,
prestava il fianco ad una serie di critiche nei casi pratici più complessi.
Si è eccepito, innanzitutto,
che la teoria della condicio sine qua non
condurrebbe, se portata alle estreme conseguenze, a considerare causali
anche i remoti antecedenti dell’evento delittuoso (c.d. “regresso
all’infinito”); di talchè, tornando all’esempio di prima, i genitori di Tizio
potrebbero essere ritenuti responsabili dell’omicidio di Caio per aver
procreato l’omicida e creato, quindi, una condizione indispensabile
dell’evento.
La teoria condizionalistica
presentava ulteriori inconvenienti nell’ipotesi in cui un evento sarebbe stato
ugualmente prodotto da un’altra causa intervenuta nello stesso momento (c.d.
“causalità alternativa ipotetica”) ovvero nel caso di concorso di più
condizioni, ciascuna della quali in grado da sola di produrre il risultato
(“c.d. causalità addizionale”).
Si contestava, infine, la
“limitata efficacia euristica” della teoria condizionalistica. La dottrina ,
in particolare, manifestava forti
perplessità in tutte quelle ipotesi nelle quali non era possibile spiegare, in
assenza di leggi causali, il perché dell’evento. Secondo questa critica,
necessitava sapere in anticipo se una determinata azione rientrasse o meno nel
novero di quegli accadimenti in grado di produrre eventi del tipo di quello
verificatosi in concreto.
4. Superamento delle critiche e integrazione della
teoria condizionalistica con il criterio della sussunzione sotto leggi
scientifiche.
Le considerazioni critiche
mosse da parte della dottrina sono state superate attraverso puntuali precisazioni
a ciascuna di esse.
La tesi del c.d. “regresso
infinito” e alle conseguenze abnormi che la stessa avrebbe evidenziato è stata
ridimensionata dai fautori della teoria condizionalistica i quali hanno
osservato che l’accertamento del nesso causale verte esclusivamente su quegli
antecedenti (comportamenti umani) riconducibili al coefficiente soggettivo del
dolo o, quantomeno, della colpa.
Nell’ipotesi di “causalità
alternativa”, l’accertamento del nesso di causalità prende come parametro di
riferimento (oltre alla condotta) l’evento in concreto verificatosi. Nel caso,
ad esempio, di un incendio provocato da un soggetto non è possibile obiettare
che quel genere di evento si sarebbe ugualmente verificato per cause naturali.
Infine, è stata confutata
anche la tesi dell’inapplicabilità della teoria della condicio sine qua non nel caso di “causalità addizionale”. Occorre,
al riguardo, puntualizzare che “hanno
efficacia causale quelle condizioni dell’evento che, cumulativamente
considerate, ne costituiscono un presupposto necessario e che lo sarebbero
alternativamente se l’altra condizione mancasse”[1].
Pertanto, se Tizio e Caio immettono, in maniera indipendente dall’altro, una
eguale dose di veleno nel bicchiere di Sempronio cagionandone la morte, vanno
ritenuti responsabili di omicidio entrambi gli agenti.
Non vi è dubbio che la
critica che ha suscitato maggiore imbarazzo ai fautori della teoria
condizionalistica è stata quella della “limitata efficacia euristica”. Le
fondate perplessità suscitate da quest’ultima ponevano il problema di
individuare i metodi e i percorsi logici da seguire per poter affermare che da
un determinato antecedente derivi un determinato conseguente.
I limiti così evidenziati
della teoria condizionalistica condussero dottrina e giurisprudenza ad
individuare gradualmente alcuni correttivi alla stessa.
In una prima fase, la
giurisprudenza di merito e di legittimità hanno accolto il c.d. “metodo
individualizzante”. Secondo quest’ultimo, l’accertamento del rapporto di
causalità si svolge tra accadimenti singoli e concreti indipendentemente da una
loro eventuale riproducibilità in futuro. Tale metodo è stato, a sua volta,
oggetto di numerose critiche. Si contestava, in particolare, che il giudice si
comporterebbe come uno “storico” al cui “fiuto” o “intuizione”, in assenza di
una legge causale in grado di spiegare il perché e il come l’evento sia
conseguenza di una determinata azione, è rimesso di scoprire le connessioni
causali tra i singoli fatti oggetti di giudizio.
In una seconda fase, la
giurisprudenza è approdata al metodo “generalizzante”. Tale metodo consente di
ritenere validi, in assenza di leggi scientifiche, i risultati di una
generalizzazione in senso comune (c.d. massime di esperienza). Non si dubita
che siffatto criterio, per mezzo del quale la determinazione del nesso causale
non è più affidato alla discrezionalità, risponde ad esigenze di garanzia.
La terza fase trae le sue
origine da una nota pronuncia di legittimità collocata alla fine degli anni 90[2]
la quale, nel ripudiare definitivamente il metodo individualizzante, ha
adottato definitivamente il metodo generalizzante della “sussunzione sotto
leggi scientifiche”. Secondo questo modello, un antecedente è condizione
necessaria dell’evento soltanto qualora rientri nel novero di quegli
antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge
dotata di validità scientifica (c.d. legge generale di copertura), portano ad
aventi del tipo di quello verificatosi in concreto.
La legge scientifica di
copertura può essere “universale” o “statistica”. Rientra nella prima categoria
la legge in grado di affermare che la verificazione di un evento è
invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento. Rientra
nelle seconda categoria, invece, la legge che attesta che la verificazione di
un evento è accompagnata dal prodursi di un altro evento in una certa
percentuale di casi. Se da un lato è evidente che una legge scientifica
universale è in grado di soddisfare al massimo le esigenze di certezza e di
rigore scientifico è altrettanto palese che la limitatezza delle conoscenza
umane raramente consente di fare affidamento su leggi di questo tipo.
Considerato, inoltre, che il giudice non è uno scienziato ed è chiamato ad
accertare un fatto di reato il quale, a sua volta, potrebbe rimandare ad un
numero considerevole di antecedenti, sarebbe irrealistico pretendere un
accertamento fondato sulla certezza assoluta. Ecco allora che in sede
giudiziale è possibile accontentarsi di un accertamento a carattere
probabilistico.
5. L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità
sul coefficiente di probabilità: la rivoluzione copernicana
operata dalla sentenza Franzese.
Preso atto, dunque, che il
giudice può fare ricorso a leggi generali scientifiche statistiche, la domanda
che si pone è la seguente: qual è il grado di probabilità minimo per fondare
l’accertamento del nesso di causalità?
La soluzione al quesito
posto ha segnato in maniera indelebile il solco di una lunga e memorabile
evoluzione giurisprudenziale che si è registrata, in particolare, nell’ambito
della colpa professionale medica.
Un primo indirizzo
giurisprudenziale riteneva che “quando è
in gioco la vita umana anche sole poche probabilità di successo…sono
sufficienti”[3]. Successivamente, è
stato osservato che “il rapporto di
causalità sussiste anche quando l'opera del sanitario, se correttamente e
tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto
serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente
sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata”[4]
(nella specie, venne considerata rilevante una possibilità di successo del
30%). Tale parametro, tuttavia, non pareva ancora in grado di esprimere una
certezza sul piano processuale. La Suprema Corte , difatti, giunse a sostenere che “è necessario che l'esistenza del nesso
causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta …
almeno con un grado tale da fondare su basi solide un'affermazione di
responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera
verosimiglianza”[5]. All’inizio
dell’anno 2000 la prevalente giurisprudenza di legittimità ha posto l'accento
sulle "serie e rilevanti (o
apprezzabili) possibilità di successo", sull' "alto grado di possibilità”[6].
Alla fine dell’anno 2000, la Suprema Corte
ha effettuato talune puntualizzazioni. In particolare, e' stato invero rilevato
che “il problema del significato da
attribuire alla espressione “con alto grado di probabilità” ... non può essere
risolto se non attribuendo all'espressione il valore, il significato, appunto,
che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si
ispira, e che non può non attribuirgli il diritto"; ed e' stato quindi
affermato che per la scienza non v'e' alcun dubbio che dire “alto grado di
probabilità”, “altissima percentuale”, “numero sufficientemente alto di casi”,
voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione
sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio
controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enuncia una connessione tra eventi in una
percentuale vicina a cento”[7] realizzandosi così
quella probabilità vicina alla certezza.
L’evoluzione
giurisprudenziale è in seguito pervenuta alla distinzione tra “probabilità
statistica” e “probabilità logica”. La prima, ricavata dall’osservazione di
fenomeni ripetuti nel tempo, indica il grado di frequenza con cui la
connessione tra certi antecedenti e conseguenti si verifica nella realtà
esterna. La seconda, invece, indica il grado di fondatezza logica o di
credibilità dell’impiego della legge statistica nel caso concreto. Un
orientamento all’interno della sezione quarta penale della Suprema Corte ha
sostenuto che la pur necessaria ricerca delle cosiddette "leggi di copertura",
universali o statistiche, non può da sola “condurre ad affermare la
sussistenza del nesso di causalità sulla base di un giudizio di probabilità
statistica, essendo invece necessaria la formulazione di un giudizio di
probabilità logica, inteso come quello che sia caratterizzato da elevata
credibilità razionale”[8]. In sintesi, alla luce di quanto fin qui
esposto, la giurisprudenza risultava divisa in ordine alla percentuale di
validità statistica. Un primo orientamento affermava l’esistenza del rapporto
di causalità in presenza di “serie ed apprezzabili probabilità”che l’evento
fosse conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento riteneva, invece, che
per accertare il nesso di causalità fosse necessaria la prova che un diverso comportamento
dell'agente avrebbe impedito l'evento con un elevato grado di probabilità
"prossimo alla certezza", e cioè in una percentuale di casi
"quasi prossima a cento".
In tale contesto sono state
chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite della Suprema Corte le quali, con una
sentenza storica[9]
definita da parte della dottrina (tonini) come una sorta di “rivoluzione
copernicana”, ha fissato una serie di principi di diritto. Tra questi, oltre a
quanto già detto e per quanto in questa sede motivo di specifico interesse, le
Sezioni Unite hanno affermato che “non é
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso
dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria
sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità
nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza
disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì
escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è
stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto o elevato grado di
credibilità razionale o probabilità logica”. Alla luce di tale soluzione
ermeneutica, i coefficienti di probabilità anche non “prossimi ad 1” possono, in un contesto
caratterizzato dal raggiungimento della prova dell’insussistenza di altri
fattori causali, condurre ad un accertamento sull’esistenza del nesso
eziologico; specularmente, in presenza di un quadro probatorio che evidenzia la
presenza di altri fattori causali, coefficienti di probabilità statistica di
per sé elevatissimi restano inidonei a giustificare il riconoscimento del
rapporto di causalità.
6. L’accertamento del nesso di causalità nei reati
omissivi colposi.
L’evoluzione della
giurisprudenza sull’accertamento del nesso di causalità narrata nel paragrafo
che precede si è formata prevalentemente in materia di colpa professionale
medica. Si rende, pertanto, necessario, effettuare una breve disamina sul
rapporto di causalità nell’ambito dei reati omissivi.
I reati omissivi si
distinguono in reati omissivi propri e impropri. I primi rappresentano
fattispecie tipizzate dal legislatore che non presentano tra gli elementi
costitutivi del reato un evento. La fattispecie di reato è integrata, dunque,
dal mancato compimento di un’azione che la legge penale comanda di realizzare
(ad es. l’omissione di soccorso). I secondi, invece, nascono dal combinato
disposto della c.d. clausola di equivalenza contenuta all’art. 40, comma 2,
c.p. (“non impedire un evento, che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”) con una
fattispecie commissiva di reato che dà vita ad una fattispecie omissiva per via
di interpretazione giudiziale. Ciò premesso, soltanto questi ultimi, stante la presenza
dell’elemento costitutivo dell’evento, rilevano ai fini nel nesso causale.
Senza addentrarci troppo
nello specifico sulla struttura dei reati omissivi impropri, anche denominati
commissivi mediante omissione, si elencano i seguenti requisiti ai fini della
loro configurabilità: 1) la sussistenza di un obbligo giuridico di agire; 2) la
violazione di tale obbligo; 3) la verificazione dell’evento; 4) il rapporto
causale fra l’omissione e l’evento.
Ai fini della presente
trattazione, la nostra attenzione è
focalizzata soltanto sull’ultimo punto.
In particolare, anche se
oggi viene riconosciuta una sostanziale idoneità del processo di spiegazione
causale sia nelle fattispecie commissive sia in quelle omissive, è necessario
tenere conto di alcuni profili problematici in ordine a queste ultime. Posto che, in prima facie, in caso di comportamento omissivo la verifica del
nesso di causalità avviene attraverso le stesse regole applicabili in caso di
comportamento commissivo (teoria condizionalistica integrata attraverso il
criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche), il giudice deve,
tuttavia, porre mentalmente due condizioni entrambe ipotetiche: deve, da un
lato, supporre un fatto che non si è verificato (la condotta doverosa,
prescritta nella regola cautelare violata, che il soggetto avrebbe dovuto
tenere) e, dall’altro, supporre le conseguenze che ci sarebbero state ma che di
fatto non si sono realizzate. Il giudice, con altre parole, deve valutare, alla
luce di un giudizio doppiamente ipotetico, se l’azione doverosa sarebbe stata
in grado di impedire quel tipo di evento in concreto verificatosi (teoria della
concretizzazione del rischio). Quanto affermato trova conferma in una pronuncia
della Suprema Corte secondo la quale l’elemento discretivo tra fattispecie
commissive e omissive sull’accertamento del nesso causale “attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di
fare ricorso … ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico anziché
fondato sui dati della realtà; infatti, nel caso di comportamento omissivo, è
solo con riferimento alle regole cautelari inosservate che può formularsi un
concreto rimprovero nei confronti del soggetto e verificarsi, con giudizio
controfattuale ipotetico, la sussistenza del nesso di causalità” [10].
In sintesi, nei delitti omissivi colposi il giudice è chiamato a verificare,
alla luce dei criteri suesposti, se l’inosservanza della regola cautelare di
condotta costituisca la causa dell’evento. A tal fine, è necessaria la c.d.
concretizzazione del rischio o dello scopo di protezione della norma, quale
criterio di collegamento tra causa ed evento. Ne consegue che la responsabilità
penale colposa è circoscritta a quei soli eventi lesivi del bene giuridico
tutelato che la norma cautelare, violata dal soggetto, mirava ad evitare.
7. Conclusioni
La vicenda portata
all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla condotta di un medico al
quale era stato contestato il delitto di cui all’art. 590 c.p. per aver
cagionato ad un paziente, nel corso di un intervento chirurgico, lesioni gravi
da cui era derivata l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni per un
periodo di quarantadue giorni nonché postumi neurologici permanenti del
linguaggio e della capacità di movimento complessiva. Si contestava, in
particolare, al medico di aver agito con imprudenza, imperizia e negligenza
nell’osservanza e nell’applicazione e nell’adozione delle regole generali
dell’arte medica e con colpa specifica ravvisabile nella violazione di arte
medica e medico – chirurgica consistita nell’imprudenza nella scelta dei
provvedimenti attuati nel corso dell’intervento chirurgico. All’esito del
giudizio di primo grado, il Tribunale di Milano dichiarava l’imputato colpevole
del reato a lui ascritto.
Proposto rituale gravame,
anche la Corte
di Appello di Milano confermava l’impugnata decisione. Il medico ricorreva per
Cassazione adducendo, tra l’altro, il vizio di motivazione in ordine al
rapporto di causalità tra la sua condotta e le lesioni riportate dal paziente.
La sezione quarta penale ha
ritenuto fondate le doglianze relative alla ritenuta sussistenza del nesso
causale. In particolare, la Suprema Corte ,
pur qualificando colposa la condotta del ricorrente poiché lo stesso, in
presenza di una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, aveva
mantenuta ferma l’erronea posizione diagnostica iniziale, ha ritenuto non
provato il nesso causale tra la condotta del professionista e le lesioni
riportate dal paziente. Dopo aver ripercorso, nel corpo motivazione della decisione,
l’iter giurisprudenziale sul tema della causalità già affrontato in questa sede
(vedi par. 5) fino ad arrivare alla nota sentenza “Franzese”, ha dimostrato di recepire i principi di diritto in essa
fissati. Tra questi, è stato ribadito che “non
é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso
dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria
sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la
validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e
dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che
abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti
giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva
del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto o elevato
grado di credibilità razionale o probabilità logica”. Alla luce di questo
principio, la Suprema Corte
non ha ritenuto condivisibile quanto affermato nella decisione impugnata atteso
che la stessa si è fondata su indicazioni peritali sulla ricostruzione del
nesso di causalità formulate secondo quei criteri meramente probabilistici
ritenuti di per sé non sufficienti dalle Sezioni Unite del 2002.
Per queste ragioni, la Suprema Corte ha annullato la
sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di
Milano.
[1] FIANDACA-MUSCO,
Diritto Penale, Parte Generale, 2008, 227
[2] Cass. Pen., sez. VI, 6 dicembre 1990 n. 4793
[3] Cass. Pen., sez. IV, 12 maggio 1983 n. 4320
[4] Cass. Pen., sez. IV, 17 gennaio 1992 n.371
[5] Cass. Pen., sez. IV, 16 novembre 1993 n. 10437
[6] Cass. Pen., sez. IV, 01 febbraio 2000 n. 1126 (e'
stata apprezzata, a tali fini, una percentuale del 75% di probabilità di
sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e
cure tempestive)
[7] Cass. Pen., sez. IV, 28 settembre 2000 n.1688;
Cass. Pen., sez. IV, 29 novembre 2000 n. 2139
[8] Cass. Pen., sez. IV, 23 gennaio 2002 n. 22568
[9] Cass. Pen., S.U., 10 luglio 2002, 30328
[10] Cass. Pen., sez. IV, 27 gennaio 2006 n. 3380
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