Articolo del dott. Filippo Lombardi.
Sommario: 1. La
scriminante del rischio consentito. Dal momento genetico e fisiologico al
momento patologico. 2. Cass. pen.
19473/2005 in tema di illecito sportivo e rischio consentito. Il momento
patologico della scriminante tacita. 3. La
Cassazione con la sentenza 7536/2013 conferma i consolidati orientamenti, con
alcune precisazioni.
1. La scriminante del rischio consentito. Dal momento
genetico e fisiologico al momento patologico.
Una questione sempre attuale
è rappresentata dalla qualificazione e dai criteri operativi che reggono la
“scriminante” del rischio consentito in ambito sportivo.
Gli sport si dividono in due
tipologie: quelli “a violenza necessaria” (es. gli sport da combattimento come
la boxe) e quelli “a violenza
eventuale” (es. il calcio, la pallacanestro), in cui il comportamento dei
partecipanti non è schiettamente finalizzato al contatto fisico, ma questo può
verificarsi secondo l’id quod plerumque
accidit. E’, in altri termini, probabile che accada.
La tematica rivela dunque un
punctum pruriens, relativo alla
doverosità dell’intervento sanzionatorio di tipo penale nel momento in cui un
evento penalmente rilevante si verifichi durante la pratica dello sport di
riferimento.
La questione è di indubbia
importanza, se si considera che l’intervento di uno strumento repressivo forte
come quello penale, se male applicato, potrebbe scoraggiare la pratica
sportiva, da sempre considerata attività utile alla socializzazione,
all’educazione al rispetto delle regole, e al benessere psico-fisico.
Appare quindi fondamentale
stabilire un giusto bilanciamento tra la tutela della persona coinvolta in
manifestazioni sportive e la tutela dello sport nella sua massima espressione.
Da sempre, non a caso, la
giurisprudenza e la dottrina hanno partorito valutazioni tendenti a preservare
la pratica sportiva da ingerenze dell’ordinamento penale. Si è fatto
riferimento al concetto di attività (pur
pericolosa ma) socialmente adeguata, e all’applicazione analogica delle
scriminanti del consenso dell’avente
diritto di cui all’art. 50 c.p. e dell’esercizio
di un diritto di cui al successivo art. 51 c.p. Alla prima concezione, di
matrice tedesca, si è replicato che essa non può trovare accoglimento in un
ordinamento a legalità formale come il nostro, poiché fa riferimento alla
rilevanza e all’aspettativa sociale più che agganciarsi ad un preciso
riferimento normativo. Alla tesi dell’applicazione analogica del consenso
dell’avente diritto, non del tutto ripudiata ma bisognosa di aggiustamenti, è
stato però precisato che il limite sia da riscontrare nell’articolo 5 del
codice civile. Alla tesi che intende applicare analogicamente l’articolo 51
c.p. (esercizio di un diritto), altra dottrina ha obiettato come non sia immune
da critiche. Infatti, l’evento penalmente rilevante che si verifica durante una
competizione sportiva può essere scriminato, in realtà, grazie ad un “cumulo” di presupposti: consenso
dell’avente diritto (che vale come accettazione del rischio di danno e
costituirebbe il presupposto dell’esercizio del diritto), idoneità psico-fisica
alla pratica, rispetto delle regole che disciplinano lo specifico sport. Pur
essendo quest’ultima una soluzione più completa e degna di attenzione, essa è
applicabile solo alle competizioni sportive ufficiali, e non a quelle
amatoriali. La giurisprudenza ha quindi spesso ribadito la necessità di
scriminare comportamenti astrattamente punibili che ricadano nel fenomeno
agonistico sportivo, pur dovendo accettare che la relativa scriminante sia una
c.d. scriminante tacita, agganciata
all’articolo 2 Cost. nella parte in cui tutela l’espressione della personalità
di un soggetto in quanto singolo o in quanto inserito in contesti sociali
allargati.
Il corollario che deriva da
queste osservazioni è il seguente. Le attività sportive godono di regole
proprie che fungono da vere e proprie leges
artis, cioè regole precauzionali che presiedono al corretto svolgimento
della competizione. Tali regole vengono create appositamente per evitare eventi
lesivi o per contenerli nei limiti dell’imprescindibile (ad es. nel caso di
sport necessariamente violento), e ne deriva che, qualora esse siano
effettivamente rispettate, non si verificheranno eventi astrattamente punibili;
o, seppure essi si verificassero, rientrerebbero nell’area del c.d. rischio consentito, con assenza di
conseguenze dal punto di vista penale.
La fenomenologia che
interessa in questa sede deriva, al contrario, dal momento patologico della scriminante, il quale è logicamente
connesso al travalicamento del limite stesso del rischio consentito.
Si ritiene utile, per
fornire una risposta adeguata sul problema, far riferimento ad una pronuncia
della Suprema Corte, la sentenza n. 19473
del 2005, con la quale gli Ermellini hanno posto dei paletti interessanti.
2. Cass. pen.
19473/2005, in tema di illecito sportivo e rischio consentito. Il momento
patologico della scriminante tacita.
Dopo aver reso omaggio al
senso e alle finalità che lo sport esplica e persegue nell’ambito sociale,
nella misura in cui esso contribuisce al benessere psico-fisico e
all’educazione dei praticanti, la Corte pone l’attenzione sull’area del rischio
consentito.
In prima battuta sottolinea
che l’area del rischio consentito deve ritenersi coincidente coi contorni
delineati dai regolamenti disciplinari dello sport di cui trattasi caso per
caso. Questo è fondamentale, in quanto il potenziale praticante può, tramite la
presa visione delle “regole del gioco”, formarsi una piena consapevolezza circa
i pericoli a cui va incontro, e solo così può decidere di accettare la pratica
di quello sport e di affrontare i relativi rischi. Al di fuori dell’alveo del
rischio consentito, interviene lo strumento penale.
Il principio ricavabile da
tale argomentazione è: ciò che è lecito
discende dal rispetto delle regole, ciò che è illecito presuppone la loro
violazione.
Questo principio è vero solo
prima facie, in quanto poco dopo
nella sentenza si legge che vi è un caso in cui la violazione delle regole di
gioco non comporta responsabilità penale. E’ il caso della loro violazione
involontaria da parte del praticante.
Cercando di fornire una reductio ad unitatem dei casi possibili,
si può argomentare come segue:
1) caso di violazione involontaria della regola di gioco, che produce un
evento astrattamente punito da una norma penale. In questo caso, come anche
attenta dottrina sottolinea, sancire che tale violazione debba essere considerata
illecito penale contribuirebbe a scoraggiare gli utenti ad intraprendere
un’attività sportiva o a costituire formazioni sociali e/o federazioni a ciò
devolute, per timore di interventi sanzionatori “facili”. Si verserà nel campo
del mero illecito sportivo (rectius:
infrazione regolamentare).
2) caso di violazione volontaria della regola di gioco, che produce un
evento astrattamente punito da una norma penale. In questo caso, la Corte
ammette l’intervento del diritto penale, ma rimarca la necessità di
accertamento dell’elemento soggettivo. Si possono verificare quindi due casi:
- violazione volontaria con
intento lesivo. In questo caso, come è facile intuire, il reato sarà doloso:
l’evento sportivo è solo l’occasione in cui l’offesa è cagionata, mentre la
condotta tenuta, mascherata da azione di gioco, è solo la veste esteriore,
atteggiandosi come puro pretesto per ledere l’altrui incolumità per motivi
estranei alla competizione.
- violazione volontaria con
intento non lesivo. In questo secondo caso, il fine dell’atleta non è quello di
produrre un danno all’avversario, bensì quello di evitargli un vantaggio dal
punto di vista sportivo. Ad esempio, se il calciatore esegue il fallo tattico
(o antisportivo) con un tackle che
produce delle lesioni alle gambe dell’avversario che sfuggiva alla sua difesa,
ciò non comporta automaticamente l’intento lesivo, ma può sottacere una
semplice finalità connessa alla gara: evitare che la parte offesa potesse
realizzare un goal.
E’ chiaro che, secondo le
regole generali, potrà effettuarsi un accurato accertamento, demandato alla
fase processuale, circa l’eventualità che dal punto di vista soggettivo vi sia
stata una vera e propria accettazione del
rischio di provocare l’evento nefasto, versandosi in tal caso nell’ambito
del dolo eventuale.
3. La Cassazione con la sentenza 7536/2013 conferma i consolidati orientamenti, con alcune
precisazioni.
La Suprema Corte si è
pronunciata di recente su un caso di “ritorsione” verificatosi a margine di una
partita di calcio femminile. Tizia e Caia sono le due giocatrici coinvolte.
Tizia, durante l’intera partita, realizza molti illeciti disciplinari nei
confronti di Caia, sanzionati dall’arbitro attraverso l’applicazione del
regolamento calcistico. All’ennesima scorrettezza di Tizia, avvenuta nei
momenti finali della partita, Caia reagisce colpendo quest’ultima al volto, e
procurandole una lesione che necessiterà di sei punti di sutura.
In appello, la condotta di
Caia viene scriminata in base all’articolo 52 del codice penale (legittima
difesa). Secondo il giudice di gravame, infatti, Caia si è protetta dalla
condotta aggressiva di Tizia, avendo come finalità quella di preservare la
propria incolumità dinanzi ad un’escalation di scorrettezze della seconda.
La Suprema Corte ribalta il
verdetto, facendo corretta applicazione dei principi richiamati dalla pronuncia
del 2005. Secondo i Giudici, più precisamente, la condotta di Caia si atteggia
come condotta di pura ritorsione, slegata dal contesto sportivo. In questi
termini, si comprende come la reazione lesiva vada ben oltre l’alveo del
rischio consentito, poiché, in base a quanto ammettono i Giudici, non è
assolutamente lecito che Tizia si attendesse, all’atto di intraprendere la
competizione, la possibilità che un’altra giocatrice reagisse in quel modo,
“costruendosi” un’aggressività da manifestare non attraverso le modalità
agonistiche connesse all’evento sportivo, bensì esternandola in una vera e
propria vendetta personale.
Con la pronuncia in parola,
però, gli Ermellini riconoscono l’applicabilità dell’attenuante della c.d. provocazione, evidentemente in quanto l’escalation di scorrettezze praticate
durante il gioco dalla parte offesa, pur rimanendo confinata nell’illecito
disciplinare legato all’attività sportiva de
qua, può essere intesa come un fatto ingiusto idoneo a cagionare uno stato
d’ira a cui può seguire la commissione del fatto tipico.
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