sabato 16 marzo 2013

IL RISCHIO CONSENTITO NELL’ATTIVITA’ SPORTIVA


Articolo del dott. Filippo Lombardi.

Sommario:  1. La scriminante del rischio consentito. Dal momento genetico e fisiologico al momento patologico. 2. Cass. pen. 19473/2005 in tema di illecito sportivo e rischio consentito. Il momento patologico della scriminante tacita. 3. La Cassazione con la sentenza 7536/2013 conferma i consolidati orientamenti, con alcune precisazioni.

1. La scriminante del rischio consentito. Dal momento genetico e fisiologico al momento patologico.
Una questione sempre attuale è rappresentata dalla qualificazione e dai criteri operativi che reggono la “scriminante” del rischio consentito in ambito sportivo.
Gli sport si dividono in due tipologie: quelli “a violenza necessaria” (es. gli sport da combattimento come la boxe) e quelli “a violenza eventuale” (es. il calcio, la pallacanestro), in cui il comportamento dei partecipanti non è schiettamente finalizzato al contatto fisico, ma questo può verificarsi secondo l’id quod plerumque accidit. E’, in altri termini, probabile che accada.
La tematica rivela dunque un punctum pruriens, relativo alla doverosità dell’intervento sanzionatorio di tipo penale nel momento in cui un evento penalmente rilevante si verifichi durante la pratica dello sport di riferimento.

La questione è di indubbia importanza, se si considera che l’intervento di uno strumento repressivo forte come quello penale, se male applicato, potrebbe scoraggiare la pratica sportiva, da sempre considerata attività utile alla socializzazione, all’educazione al rispetto delle regole, e al benessere psico-fisico.
Appare quindi fondamentale stabilire un giusto bilanciamento tra la tutela della persona coinvolta in manifestazioni sportive e la tutela dello sport nella sua massima espressione.
Da sempre, non a caso, la giurisprudenza e la dottrina hanno partorito valutazioni tendenti a preservare la pratica sportiva da ingerenze dell’ordinamento penale. Si è fatto riferimento al concetto di attività (pur pericolosa ma) socialmente adeguata, e all’applicazione analogica delle scriminanti del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p. e dell’esercizio di un diritto di cui al successivo art. 51 c.p. Alla prima concezione, di matrice tedesca, si è replicato che essa non può trovare accoglimento in un ordinamento a legalità formale come il nostro, poiché fa riferimento alla rilevanza e all’aspettativa sociale più che agganciarsi ad un preciso riferimento normativo. Alla tesi dell’applicazione analogica del consenso dell’avente diritto, non del tutto ripudiata ma bisognosa di aggiustamenti, è stato però precisato che il limite sia da riscontrare nell’articolo 5 del codice civile. Alla tesi che intende applicare analogicamente l’articolo 51 c.p. (esercizio di un diritto), altra dottrina ha obiettato come non sia immune da critiche. Infatti, l’evento penalmente rilevante che si verifica durante una competizione sportiva può essere scriminato, in realtà, grazie ad un “cumulo” di presupposti: consenso dell’avente diritto (che vale come accettazione del rischio di danno e costituirebbe il presupposto dell’esercizio del diritto), idoneità psico-fisica alla pratica, rispetto delle regole che disciplinano lo specifico sport. Pur essendo quest’ultima una soluzione più completa e degna di attenzione, essa è applicabile solo alle competizioni sportive ufficiali, e non a quelle amatoriali. La giurisprudenza ha quindi spesso ribadito la necessità di scriminare comportamenti astrattamente punibili che ricadano nel fenomeno agonistico sportivo, pur dovendo accettare che la relativa scriminante sia una c.d. scriminante tacita, agganciata all’articolo 2 Cost. nella parte in cui tutela l’espressione della personalità di un soggetto in quanto singolo o in quanto inserito in contesti sociali allargati.
Il corollario che deriva da queste osservazioni è il seguente. Le attività sportive godono di regole proprie che fungono da vere e proprie leges artis, cioè regole precauzionali che presiedono al corretto svolgimento della competizione. Tali regole vengono create appositamente per evitare eventi lesivi o per contenerli nei limiti dell’imprescindibile (ad es. nel caso di sport necessariamente violento), e ne deriva che, qualora esse siano effettivamente rispettate, non si verificheranno eventi astrattamente punibili; o, seppure essi si verificassero, rientrerebbero nell’area del c.d. rischio consentito, con assenza di conseguenze dal punto di vista penale.
La fenomenologia che interessa in questa sede deriva, al contrario, dal momento patologico della scriminante, il quale è logicamente connesso al travalicamento del limite stesso del rischio consentito.
Si ritiene utile, per fornire una risposta adeguata sul problema, far riferimento ad una pronuncia della Suprema Corte, la sentenza n. 19473 del 2005, con la quale gli Ermellini hanno posto dei paletti interessanti.

2. Cass. pen. 19473/2005, in tema di illecito sportivo e rischio consentito. Il momento patologico della scriminante tacita.
Dopo aver reso omaggio al senso e alle finalità che lo sport esplica e persegue nell’ambito sociale, nella misura in cui esso contribuisce al benessere psico-fisico e all’educazione dei praticanti, la Corte pone l’attenzione sull’area del rischio consentito.
In prima battuta sottolinea che l’area del rischio consentito deve ritenersi coincidente coi contorni delineati dai regolamenti disciplinari dello sport di cui trattasi caso per caso. Questo è fondamentale, in quanto il potenziale praticante può, tramite la presa visione delle “regole del gioco”, formarsi una piena consapevolezza circa i pericoli a cui va incontro, e solo così può decidere di accettare la pratica di quello sport e di affrontare i relativi rischi. Al di fuori dell’alveo del rischio consentito, interviene lo strumento penale.
Il principio ricavabile da tale argomentazione è: ciò che è lecito discende dal rispetto delle regole, ciò che è illecito presuppone la loro violazione.
Questo principio è vero solo prima facie, in quanto poco dopo nella sentenza si legge che vi è un caso in cui la violazione delle regole di gioco non comporta responsabilità penale. E’ il caso della loro violazione involontaria da parte del praticante.
Cercando di fornire una reductio ad unitatem dei casi possibili, si può argomentare come segue:
1) caso di violazione involontaria della regola di gioco, che produce un evento astrattamente punito da una norma penale. In questo caso, come anche attenta dottrina sottolinea, sancire che tale violazione debba essere considerata illecito penale contribuirebbe a scoraggiare gli utenti ad intraprendere un’attività sportiva o a costituire formazioni sociali e/o federazioni a ciò devolute, per timore di interventi sanzionatori “facili”. Si verserà nel campo del mero illecito sportivo (rectius: infrazione regolamentare).
2) caso di violazione volontaria della regola di gioco, che produce un evento astrattamente punito da una norma penale. In questo caso, la Corte ammette l’intervento del diritto penale, ma rimarca la necessità di accertamento dell’elemento soggettivo. Si possono verificare quindi due casi:
- violazione volontaria con intento lesivo. In questo caso, come è facile intuire, il reato sarà doloso: l’evento sportivo è solo l’occasione in cui l’offesa è cagionata, mentre la condotta tenuta, mascherata da azione di gioco, è solo la veste esteriore, atteggiandosi come puro pretesto per ledere l’altrui incolumità per motivi estranei alla competizione.
- violazione volontaria con intento non lesivo. In questo secondo caso, il fine dell’atleta non è quello di produrre un danno all’avversario, bensì quello di evitargli un vantaggio dal punto di vista sportivo. Ad esempio, se il calciatore esegue il fallo tattico (o antisportivo) con un tackle che produce delle lesioni alle gambe dell’avversario che sfuggiva alla sua difesa, ciò non comporta automaticamente l’intento lesivo, ma può sottacere una semplice finalità connessa alla gara: evitare che la parte offesa potesse realizzare un goal.
E’ chiaro che, secondo le regole generali, potrà effettuarsi un accurato accertamento, demandato alla fase processuale, circa l’eventualità che dal punto di vista soggettivo vi sia stata una vera e propria accettazione del rischio di provocare l’evento nefasto, versandosi in tal caso nell’ambito del dolo eventuale.

3. La Cassazione con la sentenza 7536/2013 conferma i consolidati orientamenti, con alcune precisazioni.
La Suprema Corte si è pronunciata di recente su un caso di “ritorsione” verificatosi a margine di una partita di calcio femminile. Tizia e Caia sono le due giocatrici coinvolte. Tizia, durante l’intera partita, realizza molti illeciti disciplinari nei confronti di Caia, sanzionati dall’arbitro attraverso l’applicazione del regolamento calcistico. All’ennesima scorrettezza di Tizia, avvenuta nei momenti finali della partita, Caia reagisce colpendo quest’ultima al volto, e procurandole una lesione che necessiterà di sei punti di sutura.
In appello, la condotta di Caia viene scriminata in base all’articolo 52 del codice penale (legittima difesa). Secondo il giudice di gravame, infatti, Caia si è protetta dalla condotta aggressiva di Tizia, avendo come finalità quella di preservare la propria incolumità dinanzi ad un’escalation di scorrettezze della seconda.
La Suprema Corte ribalta il verdetto, facendo corretta applicazione dei principi richiamati dalla pronuncia del 2005. Secondo i Giudici, più precisamente, la condotta di Caia si atteggia come condotta di pura ritorsione, slegata dal contesto sportivo. In questi termini, si comprende come la reazione lesiva vada ben oltre l’alveo del rischio consentito, poiché, in base a quanto ammettono i Giudici, non è assolutamente lecito che Tizia si attendesse, all’atto di intraprendere la competizione, la possibilità che un’altra giocatrice reagisse in quel modo, “costruendosi” un’aggressività da manifestare non attraverso le modalità agonistiche connesse all’evento sportivo, bensì esternandola in una vera e propria vendetta personale.
Con la pronuncia in parola, però, gli Ermellini riconoscono l’applicabilità dell’attenuante della c.d. provocazione, evidentemente in quanto l’escalation di scorrettezze praticate durante il gioco dalla parte offesa, pur rimanendo confinata nell’illecito disciplinare legato all’attività sportiva de qua, può essere intesa come un fatto ingiusto idoneo a cagionare uno stato d’ira a cui può seguire la commissione del fatto tipico.    

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