CASSAZIONE PENALE – Sez. V – 7 gennaio 2013 n. 240 –
Pres. Teresi – Est. De Marzo –
Falsità in atti – proscioglimento – impugnazione –
legittimazione attiva – imputato.
Il capo della sentenza
relativo alla declaratoria di falsità è appellabile dall’imputato anche in caso
di proscioglimento, posto che l’art. 537, comma 3, cod. proc. pen., istituisce
una regola speciale rispetto a quella dettata dall’art. 593, comma 2, cod.
proc. pen..
Commento del dott. Filippo Camela
La comprensione della
vicenda da cui trae origine la pronuncia della Suprema Corte impone una breve
disamina del matrimonio concordatario, disciplinato dal diritto canonico e con
effetti anche civili (una volta adempiuto l’onere di trascrizione nel registro
degli atti dello stato civile italiano), contratto in pericolo di vita. L’atto
su cui si fonda il matrimonio è “il consenso delle parti manifestato legittimamente
tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna
potestà umana” (can. 1057, §1). La Chiesa, tuttavia, concede la possibilità di
sposarsi in articulo mortis in
presenza di un concreto e reale pericolo di decesso di uno dei contraenti. Al
riguardo, il can. 1079 dispone che in urgente pericolo di morte “l'Ordinario
del luogo può dispensare i propri sudditi, dovunque dimorino, e quanti vivono
attualmente nel suo territorio, sia dalla osservanza della forma prescritta per
la celebrazione del matrimonio, sia da tutti e singoli gli
impedimenti di
diritto ecclesiastico, pubblici e occulti”, precisando che “nei casi in cui non
sia possibile ricorrere neppure all'Ordinario del luogo, hanno uguale facoltà
di dispensare, sia il parroco sia il ministro sacro legittimamente delegato sia
il sacerdote o diacono che assiste al matrimonio”. Inoltre, il combinato
disposto dei canoni 1116 e 1121 disciplina l’ipotesi nella quale non sia
possibile recarsi dall’assistente, inteso come colui che “chiede la
manifestazione del consenso dei contraenti e la riceve in nome della Chiesa”
(can. 1108, §2), prevedendo la validità e liceità del matrimonio contratto alla
presenza dei soli testimoni.
Nella specie, veniva
celebrato un matrimonio in articulo mortis
da un parroco in presenza della sposa e dei testimoni e in assenza dello sposo
che versava in stato comatoso.
Successivamente, veniva
contestato ai protagonisti della vicenda, in concorso tra di loro, di aver
attestato falsamente che entrambi i contraenti fossero stati interrogati dal
parroco (art. 110 e 479 c.p.). Un diverso capo di imputazione riguardava,
invece, l’ufficiale di stato civile del comune il quale, dopo aver ricevuto la
richiesta di trascrizione agli effetti civili, aveva falsamente attestato
l’insussistenza di impedimenti inderogabili, nonostante che lo sposo si
trovasse in uno stato comatoso che lo avrebbe portato da lì a poco alla morte.
Si costituiva parte civile la sorella dello sposo.
Il tribunale di Como,
all’esito del giudizio, assolveva il parroco, la sposa e i testimoni poiché
aveva riconosciuto che il matrimonio era stato celebrato in ossequio ai canoni
del rito canonico in materia di matrimonio in articulo mortis e condannava, invece, l’ufficiale di stato civile.
Accertata, dunque, la falsità della trascrizione dell’atto di matrimonio, il
Tribunale di Como disponeva, ai sensi della dell’art. 537 c.p.p. la
cancellazione dello stesso.
In parziale riforma della
sentenza, la Corte di Appello di Milano assolveva anche l’ufficiale di stato
civile e confermava il capo della sentenza relativo alla pronuncia di falsità
impugnato dalla sposa. Quest’ultima, in particolare, in quanto imputato
prosciolto nel giudizio di primo grado, era stato ritenuta carente di
legittimazione ad impugnare detto provvedimento.
La vedova ricorreva così in
Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata deducendo, a tacer
d’altro e per quanto qui di interesse, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett.
b) e c), c.p.p., inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 537 c.p.p.
La quinta sezione penale,
investita della questione, ha ritenuto il motivo fondato.
In particolare, la soluzione
ermeneutica offerta dagli ermellini, conforme ad un precedente orientamento
giurisprudenziale , muove da una attenta analisi della norma di cui all’art.
537 c.p.p.. Quest’ultima, al comma 3, dispone che “la pronuncia sulla falsità è
impugnabile, anche autonomamente, con il mezzo previsto dalla legge per il capo
che contiene la decisione sull’imputazione”. Dall’interpretazione letterale
della testo della norma non è possibile desumere che la stessa limiti
l’impugnazione dell’imputato al solo capo della sentenza che contiene la
statuizione sul reato a lui contestato. Diversamente, il legislatore ha
riconosciuto la possibilità di impugnare, in maniera del tutto autonoma, la
declaratoria sulla falsità a tutti coloro che sono portatori di un interesse
secondo il principio generale contenuto all’art. 568, comma 4, c.p.p.. Tale
interesse sussiste quando l’impugnazione è diretta ad eliminare un
provvedimento pregiudizievole per la parte impugnante. Per chiarire il
concetto, il requisito in esame è soddisfatto “quando il provvedimento
richiesto comporta una situazione pratica più vantaggiosa per la predetta parte
e non soltanto un risultato teoricamente più corretto” .
Trasfusi questi elementi di
teoria nella fattispecie concreta, risulta palese che la sposa sia legittimata
ad impugnare il capo della sentenza che pronuncia sulla cancellazione della
trascrizione del matrimonio; la statuizione del giudice di primo grado ha reso,
difatti, il vincolo matrimoniale inefficace in ambito civile con conseguenze
evidentemente pregiudizievoli per l’odierna ricorrente (nulla quaestio per
quanto concerne la validità del matrimonio in ambito canonico che resta
indissolubile).
Per tali ragioni, la Suprema
Corte ha annullato il provvedimento impugnato con rinvio ad un’altra sezione
della Corte di Appello di Milano.
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