SOLUZIONE TRACCIA SULL' ELEMENTO SOGGETTIVO COME CRITERIO DISTINTIVO TRA
REATI.
Cassazione Penale sez. VI, ud. 01.04.2015 dep.
03.06.2015, n. 23678
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 15 luglio 2014 la Corte d'appello di Roma,
decidendo in sede di rinvio a seguito della sentenza della Corte di Cassazione
in data 18 marzo 2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Cassino in
data 1 agosto 2011, appellata da S. A., limitatamente alla contestazione del
reato di rapina di cui al capo sub B), commesso in (OMISSIS), e ha determinato
la relativa pena in anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa.
2. Avverso la sentenza sopra indicata ha proposto ricorso per cassazione il
difensore dell'imputato, deducendo violazioni di legge e vizi motivazionali in
relazione agli artt. 628 e 393 c.p., per
avere la Corte d'appello erroneamente escluso il reato meno grave sulla base
dell'asserita illiceità del credito vantato - quando invece nella precedente
decisione di secondo grado la Corte aveva riconosciuto che il credito dello S.
era legittimo e non riconducibile ad una cessione di stupefacente - ed aveva,
altresì, correttamente ritenuto che la violenza può essere indirizzata a
persona diversa da quella che si trova in conflitto d'interessi con l'agente,
essendo evidente, nel caso di specie, la connessione tra condotta dell'imputato
volta a far valere il preteso diritto e la pretesa violenza in danno del padre
convivente di M.F..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va dunque rigettato per le ragioni di seguito
indicate.
2. Nel caso in esame, i Giudici di merito hanno congruamente osservato in
punto di fatto che la violenta condotta posta in essere dall'imputato -
consistita nell'entrare all'interno dell'abitazione dei coniugi M.G. e T.G., spingendo
con forza la porta d'ingresso, spintonando contro il muro il M. e strappandogli
di dosso la catenina d'oro al collo, del valore di circa trecento Euro, di cui
si impossessava sottraendola alla persona offesa - non è stata rivolta verso il
presunto debitore, ossia M.F., ma verso i suoi stretti congiunti, del tutto
estranei al presunto rapporto obbligatorio, per il solo fatto di averli trovati
in casa.
Sulla base della ricostruzione dei fatti operata dal Giudice di primo
grado, inoltre, la Corte d'appello ha posto in rilievo, con adeguata e logica
motivazione, il profilo della non azionabilità in giudizio del preteso credito,
in quanto riconducibile ad una cessione di stupefacenti, anzichè ad un
asserito, e non provato, prestito per l'acquisto di un motorino.
3. Del tutto coerente, dunque, deve ritenersi la conclusione cui sono
pervenuti i Giudici di merito, nell'osservare che il diverso reato di cui
all'art. 393 c.p. avrebbe potuto configurarsi
nella sola ipotesi, non riscontrata nel caso in esame, in cui la condotta,
fondata su un credito riconosciuto dall'ordinamento giuridico, fosse stata
indirizzata nei confronti della persona ritenuta in buona fede debitrice.
Si tratta di una conclusione in linea con l'incontestato principio di
diritto che pone l'elemento di differenziazione tra il delitto di rapina e
quello di esercizio arbitrario nell'elemento soggettivo, che per il primo reato
consiste nella ragionevole opinione dell'agente di esercitare un diritto con la
coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, mentre per la
rapina si concretizza nel fine di procurare a sè o ad altri un profitto
ingiusto con la consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è
giuridicamente azionabile (v. Sez. 2, n. 43325 del 18/10/2007, dep. 22/11/2007,
Rv. 238309).
Al riguardo, peraltro, deve soggiungersi, come puntualmente rimarcato dai
Giudici di merito, che nello schema tipico del reato di ragion fattasi non
rientra certamente una violenta "esecuzione" presso terzi delle
proprie ragioni creditorie.
Nella giurisprudenza di questa Suprema Corte (da ultimo, v. Sez. 3, n.
15245 del 10/03/2015, dep. 14/04/2015, Rv. 263019; Sez. 2, n. 38517 del
23/09/2008, dep. 10/10/2008, Rv. 241460; Sez. 2, n. 43325 del 18/10/2007, dep.
22/11/2007, cit; Sez. 2, n. 8753 del 17/03/1987, dep. 28/07/1987, Rv. 176461)
si è infatti evidenziato che, anche in presenza di una ragionevole opinione di
esercitare un proprio diritto, allorchè la violenza o la minaccia si
estrinsecano in forme di tale forza intimidatoria che vanno al di là di ogni
ragionevole intento di far valere un diritto, allora la condotta risulta
finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri
dall'ingiustizia, con la ulteriore conseguenza che le modalità violente di tale
condotta vengono ad integrare gli estremi del reato di cui all'art. 628
c.p.. Pertanto, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia
dell'esercizio di un diritto, in sè non ingiusta, può diventare tale, se si
estrinseca con modalità violente che denotano soltanto la volontà di
impossessarsi comunque della cosa, e che fanno sfociare l'azione nel reato
previsto dall'art. 628 c.p., integrando tutti gli elementi costitutivi di tale
figura delittuosa.
4. Per quel che attiene ai prospettati vizi motivazionali, deve rammentarsi
che nel giudizio di legittimità deve essere accertata la coerenza logica delle
argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme
processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione
devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale
vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è
manifestamente carente di motivazione o di logica, e non già opporre alla
logica valutazione degli atti operata nel caso in esame dal giudice di merito
una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali
(S.U. 19.6.96, De Francesco). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione
quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di
merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione
di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente
più adeguate (S.U. 2.7.97 n. 6402, Dessimone).
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente ex art. 616
c.p.p. al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 1 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015
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