SOLUZIONE PARERE CONCORSO DI REATI (RAPINA E SEQUESTRO DI PERSONA).
Cassazione penale, sez. II, 19 maggio 2015 – 25 maggio
2015, n. 22096
Fatto
Con sentenza del 10 gennaio 2014, la Corte di appello di Napoli in riforma
della sentenza pronunciata il 17 maggio 2012 dal Tribunale della medesima città
nei confronti di C.P., D.S. V., M.G., S.E. e V. G., ha assolto perchè il fatto
non sussiste il C. dai reati di cui ai capi B1, C1, D1, E1, F1, G1, I1, Y1, per
il processo riunito capi 2) e 4) della imputazione; il D.S. dai reati di cui ai
capi B1, F1, G1; il M. dal reato di cui al capo 11; il S. dai reati di cui ai
capi H1, J1, K1, Y1, per il processo riunito capi 2) e 4) dell'imputazione; il
V. dal reato di cui al capo 2). Ha conseguentemente rideterminato le pene
rispettivamente comminate per i residui reati a C. nella misura di anni 12 e
mesi 6 di reclusione ed Euro 4.000 di multa; al D.S. nella misura di anni 8 e
mesi 6 di reclusione ed Euro 3.700 di multa; al V. nella misura di anni 4 e
mesi 6 di reclusione ed Euro 1.800 di multa; al M. nella misura di anni 6 e
mesi 10 di reclusione ed Euro 2.900 di multa - come da ordinanza di correzione
di errore materiale del 25 marzo 2014 - ed al S., ritenuta la continuazione tra
i reati di cui al presente processo con quelli di cui alla sentenza della Corte
di appello di Napoli del 16 marzo 2010, irrevocabile il 15 marzo 2011, nella
misura complessiva di anni 12 di reclusione ed Euro 3.700 di multa, come da
ordinanza di correzione di errore materiale del 25 marzo 2014.
Il procedimento, promosso per i reati di associazione per delinquere
finalizzata alla commissione di rapine ad agenzie assicurative, per varie
rapine e reati concernenti le armi, vedeva in appello circoscritto l'ambito
della devoluzione, giacchè, a seguito della rinuncia ai motivi di gravame
concernenti il merito della responsabilità da parte del C. e del D.S. ed ai
motivi di gravame in ordine alla responsabilità per reati diversi da quelli
riguardanti le armi da parte del S., il profilo della responsabilità oggetto di
giudizio si limitava alle posizioni del M. e del V.. Sul
rilievo che nei vari episodi contestati non fossero state rinvenute armi gli
imputati, anche in ragione dell'effetto estensivo della impugnazione, venivano
tutti assolti dai reati concernenti le armi, loro rispettivamente ascritti.
Veniva accolto poi il motivo di impugnazione del S. relativo alla
applicazione della continuazione rispetto ai fatti giudicati dalla medesima
Corte con sentenza del 16 marzo 2010, mentre nel resto veniva reputato corretto
il giudizio di primo grado, con la rideterminazione, per tutti, delle pene
applicate.
Avverso la sentenza di appello tutti gli imputati suddetti hanno proposto
ricorso per cassazione. Nel ricorso proposto nell'interesse di V.G. si lamenta
che i giudici dell'appello si siano nella sostanza limitati a richiamare la
motivazione posta a base della sentenza di primo grado, censurandosi il valore
probante delle individuazioni fotografiche, in quanto influenzate dalle
immagini pubblicate sui giornali. Si lamenta poi vizio di motivazione in
relazione alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche ed in merito
alla sollecitata riduzione della pena.
Nel ricorso proposto personalmente da D.S.V. viene genericamente
prospettata la violazione dell'art. 599 cod. proc.
pen. la eccessività della pena e la mancata concessione delle attenuanti
generiche.
Nel ricorso proposto nell'interesse di S.E. si lamenta nel primo motivo che
nel giudizio di primo grado sia stata respinta la eccezione difensiva relativa
al legittimo impedimento dell'imputato a presenziare alla udienza per
sopravvenuto stato detentivo in riferimento ad altro processo, sul rilievo che
l'impedimento stesso non sarebbe stato tempestivamente comunicato in quanto
avvenuto soltanto alla udienza del 17 maggio 2012, trattandosi di tesi smentita
dalle Sezioni unite di questa Corte. Si lamenta, dunque, che su tale eccezione
di nullità la Corte di appello abbia omesso di pronunciarsi. Nel secondo motivo
si censura la mancanza di motivazione in ordine all'aumento per continuazione
tra i reati oggetto del presente processo e quelli di cui alla sentenza della
Corte di appello di Napoli del 16 marzo 2010, divenuta irrevocabile il 15 marzo
2011. L'aumento sarebbe infatti eccessivo in quanto riferito ad un numero di
episodi di rapina inferiore a quelli giudicati nel presente procedimento e per
i quali la quantificazione della continuazione era di gran lunga inferiore. Non
sarebbe inoltre spiegata la ragione per la quale sia stata ritenuta più grave
la rapina di cui al capo b) mentre quella oggetto della sentenza del 16 marzo
2010 aveva fruttato un bottino maggiore: pertanto era quella condanna da
prendere a base per la determinazione del trattamento sanzionatorio. Anche a
tale riguardo mancherebbe una congrua motivazione da parte dei giudici a
quibus. Nel terzo motivo si rinnovano le censure relative alla insussistenza
del reato di cui all'art. 605 cod. pen. in
riferimento alla rapina di cui al capo I), in quanto i dipendenti della agenzia
assicurativa non furono chiusi nell'antibagno e pertanto la limitazione della
loro libertà fu limitata al tempo strettamente necessario per la consumazione
della rapina.
Anche nei confronti di M.G. si formula la stessa eccezione di mancato
riconoscimento di impedimento in primo grado per lo stato detentivo. Infatti,
si osserva nel ricorso, il M. rinunciava espressamente a partecipare alla sola
udienza del 5 novembre 2013 esprimendo invece la volontà di partecipare a tutte
le altre udienze; sicchè, la mancata traduzione dell'interessato dopo la
dichiarazione di revoca della rinuncia violerebbe il suo diritto ad intervenire
in giudizio. Nella specie, la Corte di appello, pur in assenza di una
manifestazione di volontà a rinunciare alla partecipazione alla udienza, ha
ritenuto di celebrare ugualmente l'udienza del 29 novembre 2013, in tal modo
ledendo il diritto dell'imputato a presenziare, avendo omesso la citazione del
medesimo per tutte le altre udienze. Si censura, poi, la sussistenza del
delitto di cui all'art. 605 cod. pen. in forza
delle stesse considerazioni che il medesimo difensore ha articolato nel terzo
motivo del ricorso proposto nell'interesse del S.. Tanto per il S. che per il
M., con separati motivi il medesimo difensore lamentava la mancata concessione
delle attenuanti generiche.
Nel ricorso proposto nell'interesse di C.P. si lamenta vizio di motivazione
in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed in merito ai
criteri di commisurazione della pena, in quanto i giudici dell'appello
avrebbero fatto leva esclusivamente sulle modalità di consumazione dei vari
reati addebitati all'imputato. Si lamenta, infine, che la Corte territoriale
abbia disatteso la richiesta di applicazione del vizio parziale di mente sulla
base di apprezzamenti di alcuni testi senza tener conto degli apporti difensivi
e della giovane età e delle condizioni di salute dell'imputato.
I ricorsi sono tutti palesemente inammissibili. Le doglianze prospettate
nell'interesse del V., del D.S. e del C., oltre che a profilare aspetti che
pertengono esclusivamente agli apprezzamenti del merito, come tali eccentrici
rispetto alla odierna sede di legittimità, si limitano nella sostanza a
riproporre le medesime questioni già devolute ai giudici del gravame e da
questi motivatamente disattese, senza che il relativo apporto argomentativo
abbia poi formato oggetto di una autonoma ed articolata critica impugnatoria,
specie per ciò che attiene ai criteri di determinazione del trattamento
sanzionatorio ed alla mancata concessile delle attenuanti generiche, in tal
modo incorrendo in un palese vizio di aspecificità dei motivi. La
giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata
nell'affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione
fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute
infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non
specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere
apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma
anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento
che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza
cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591
c.p.p., comma 1, lett. e), alla inammissibilità della impugnazione (Cass., Sez.
1, 30 settembre 2004, Burzotta; Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2002, Notaristefano;
Cass., Sez. 4, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4, 29 marzo 2000, Barone; Cass., Sez.
4, 18 settembre 1997, Ahmetovic).
Parimenti manifestamente destituiti di fondamento sono i ricorsi rassegnati
nell'interesse del S. e del M.. Quanto al S. va
rilevato che la prima eccezione in rito è assorbita dalla circostanza che
l'imputato stesso in udienza ha dichiarato di rinunciare a tutti i motivi di
appello - tra i quali, dunque, anche quello relativo alla eccezione di che
trattasi - tranne quelli concernenti i reati relativi alle armi, per i quali è
intervenuta assoluzione, e quelli sulla quantificazione della pena. Le censure formulate a quest'ultimo riguardo sono tutte
palesemente infondate. A proposito della determinazione dell'aumento di pena a
titolo di continuazione - che costituiva domanda impugnatoria che ha trovato
accoglimento - va infatti osservato che questa Corte non ha mancato di
puntualizzare che il giudice della cognizione che, in sede di applicazione
della continuazione, individui il reato più grave in quello al suo esame e i
reati-satellite in quelli già definitivamente giudicati, non è vincolato, nella
rideterminazione della complessiva pena, dalla misura stabilita dalla sentenza
irrevocabile relativa ai reati-satellite. (Sez.
1, n. 5832 del 17/01/2011 - dep. 16/02/2011, P.G. in proc. Razzaq, Rv. 249397);
mentre per ciò che attiene alla individuazione in concreto del più grave reato
fra reati di pari gravità edittale, ove la continuazione debba essere applicata
in sede di cognizione e non in executivis, la relativa determinazione
presuppone un accertamento di fatto - come ora pretenderebbe il ricorrente -
che non può essere devoluto alla sede di legittimità, ma doveva formare oggetto,
se del caso, di uno specifico petitum al giudice al quale era stata richiesta
l'applicazione della continuazione.
Parimenti destituita di fondamento è la insistita richiesta di esclusione
del reato di cui all'art. 605 cod. pen., in
quanto la giurisprudenza di questa Corte, sin da epoca ormai risalente è
consolidata nel ritenere che il delitto di sequestro di persona resta assorbito
dal reato di rapina aggravata a norma dell'art. 628 c.p., 2 cpv., n. 2 (reato
complesso) soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifichi e
si esaurisca col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando
invece ne preceda l'attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo
anche se finalisticamente collegato con quello successivo (rapina), ancora da
porre in esecuzione, o ne segua l'attuazione per un tempo non strettamente
necessario alla consumazione della rapina e, perciò, con carattere di condotta
delittuosa autonoma, anche se finalisticamente collegata a detto reato. Pertanto la privazione della libertà personale
costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina e rimane in esso assorbita
solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con la esecuzione della
rapina medesima, mentre nell'ipotesi in cui la privazione della libertà non
abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione
della rapina, ma si protragga oltre tale termine temporale, il reato "de
quo" concorre con il delitto di sequestro di persona, (da ultimo, in tal
senso, v. Sez. 2, n. 3604 dell'8 gennaio 2014, Palanza). La coercizione della
libertà personale, poi, che costituisce l'elemento materiale del delitto di
sequestro di persona, è strutturalmente configurata dal legislatore alla
stregua di fattispecie a forma libera, nel senso che per realizzare il fatto
tipizzato dall'ordinamento, non si richiede necessariamente l'impiego di mezzi
violenti o una coercizione di tipo fisico, bastando anche la semplice attività
di intimidazione, la quale, ove non si esaurisca nel contesto ed allo scopo della
realizzazione del delitto di rapina, ben può integrare - come nella vicenda in
esame - il concorso delle due figure criminose. La circostanza, dunque, che la
porta del locale, ove i dipendenti della agenzia vennero costretti con minaccia
ad intrattenersi anche dopo l'esaurimento della condotta criminosa, fosse stata
lasciata aperta, si rivela del tutto inconferente, proprio perchè ciò che
rileva è la perdita "coattiva" della libertà personale ed il
permanere di tale status per un tempo apprezzabile dopo l'allontanamento dei
rapinatori. Le doglianze attinenti alla dosimetria della pena ed alla mancata
concessione delle attenuanti generiche sono manifestamente infondate alla luce
della motivazione del tutto congrua offerta al riguardo dai giudici a quibus.
Quanto al M., si lamenta che l'imputato avrebbe rinunciato a comparire per
la sola udienza del 5 novembre 2013, con la conseguenza che la mancata
traduzione per l'udienza del 29 novembre 2013 avrebbe determinato una lesione
del diritto di difesa: l'assunto è del tutto inconsistente, non solo e non
tanto perchè la rinuncia non risulta specificatamente circoscritta ad una
determinata udienza, quanto e sopratutto perchè, come risulta dagli atti, lo
stesso imputato ha rinunciato espressamente a comparire per l'udienza del 29
novembre 2013, ove il difensore presente nulla ha eccepito. A proposito, poi,
delle doglianze relative alla ritenuta ipotesi di sequestro di persona si è già
detto, mentre le censure attinenti alla mancata concessione delle attenuanti generiche
sono palesemente incongrue, tenuto conto della adeguatezza motivazionale
esibita sul punto dalla sentenza impugnata.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa
delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00
ciascuno alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2015
Nessun commento:
Posta un commento