SOLUZIONE
Cassazione penale, sez. V, 11 novembre 2014 – 16
gennaio 2015, n. 2283
FATTO
1.
Il Tribunale di Arezzo, con sentenza riformata, limitatamente alla pena, dalla
Corte di appello di Firenze in data 4/10/2013, ha ritenuto C.S. responsabile,
nei confronti della ex- convivente D.S., di atti persecutori (art. 612 bis
c.p., capo A), di violazione delle prescrizioni dettate dal giudice civile in
ordine all'affidamento della prole (art. 388 cod. pen., capo B), di violenza
privata (art. 610 c.p., capo C) e violazione di domicilio (capo D); per
l'effetto, lo ha condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione
con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena
subordinato al versamento, a favore della parte civile, di una restante somma
dovuta a titolo di provvisionale.
Alla
base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa e di
numerosi testi, anche di appartenenti al Servizio Sociale, nonchè
documentazione varia.
2.
Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse
dell'imputato, l'avv. Nadia Frese, con sei motivi, tutti incentrati sulla
violazione di legge e il vizio di motivazione.
Col
primo lamenta - in ordine al delitto di atti persecutori - che non sia stata
fornita risposta alle critiche mosse dalla difesa alla sentenza di primo grado,
laddove si addebitava al Tribunale di non aver tenuto conto del motivo che
aveva indotto l'imputato a ricercare, ripetutamente, la donna: quello di conservare
i rapporti col figlio minore, ingiustamente ostacolati dalla madre. Per questo
motivo difetterebbe l'elemento soggettivo del reato.
Col
secondo contesta l'autonoma sussistenza dei reati di cui agli artt. 612 bis,
610 e 614 c.p., che devono ritenersi assorbiti - a giudizio della difesa - in
quello dell'art. 388 c.p..
Col
terzo contesta, sotto altro profilo, la sussistenza della violazione di
domicilio, in quanto - sostiene - l'abitazione di D. era preceduta da un'area
non recintata. Pertanto, l'accesso a quest'area non può costituire reato. Nello
stesso motivo contesta la sussistenza del reato di violenza privata, in quanto
- sostiene - "manca una specifica condotta direttamente produttiva di una
situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di determinazione ed
azione) del soggetto passivo".
Col
quarto sostiene l'assorbimento del reato di cui all'art. 610 c.p., in quello di
cui all'art. 612 bis c.p., "rappresentando una delle modalità esecutive
della più grave condotta di cui all'art. 612 bis c.p.".
Col
quinto lamenta assenza di motivazione in ordine alle attenuanti generiche,
richieste dalla difesa e negate dal giudice; in ordine alla commisurazione
della pena, incomprensibilmente applicata in misura assai superiore ai minimi
edittali; in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione,
pure richiesto dalla difesa e non disposto in sentenza.
Col
sesto lamenta che - in violazione di legge - sia stata subordinata la
sospensione condizionale della pena al pagamento di una provvisionale prima del
passaggio in giudicato della sentenza (entro due mesi).
DIRITTO
E'
fondato il sesto motivo di ricorso; sono inammissibili - per le ragioni di
seguito esposte - tutti gli altri.
1.
Il primo motivo è inammissibile per genericità. Con consolidato orientamento,
questa Corte ha avuto modo di precisare che "è inammissibile il ricorso
per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già
discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi
considerare non specifici.
La
mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per
la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di
correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle
poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le
esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di
aspecificità...." (Cass., sez. 4, n. 5191 del 29/3/2000, Rv. 216473. Da
ultimo, Cass., n. 28011 del 15/2/2013).
In
particolare il giudice di merito ha evidenziato come il quadro delineato dalla
persona offesa e dai numerosi testi esaminati deponga inequivocabilmente per un
atteggiamento vessatorio e violento dell'imputato nei confronti della ex
convivente, a cagione della sua natura possessiva e prevaricatrice,
manifestatasi con una quantità enorme di telefonate, dai toni offensivi e
volgari; con la pretesa di sottomettere la donna alla propria volontà, specie
nella gestione del figlio comune; con la sistematica inosservanza delle
prescrizioni imposte dal giudice civile a tutela dei diritti dei genitori e
degli interessi del minore. Il tutto generato dalla pretesa del C. di tenere la
donna legata a sè nonostante la contrarietà di quest'ultima alla prosecuzione
del rapporto, con la conseguenza di prostrare psicologicamente la ex-convivente
e costringerla a ricorrere alle cure di uno specialista della mente. Per
contro, solo assertiva e scollegata dal risultato istruttorio si è rivelata,
per i giudicanti, la tesi difensiva - secondo cui tutto ha avuto origine e si
spiega con l'ostinazione della D. di impedire la frequentazione del C. col
figlio - posto che di una simile evenienza non sussiste alcuna prova o indizio:
nemmeno le dichiarazioni dell'imputato, che, sebbene presente a tutte le
udienze dibattimentali, si è ben guardato dall'esporla dialetticamente e
motivatamente. Di conseguenza, il motivo di ricorso, siccome inutilmente
ripetitivo della tesi sostenuta nel giudizio, va disatteso, non essendo
suffragato da argomenti idonei a incidere, anche in termini meramente
dubitativi, sul compendio degli elementi che hanno portato la Corte
territoriale all'affermazione della penale responsabilità per il reato di cui
all'art. 612 bis c.p..
2.
Il secondo motivo è manifestamente infondato. L'art. 388 c.p., è posto a
presidio dell'autorità delle decisioni giudiziarie, mentre gli artt. 612 e 612
bis, sono volti a tutelare la libertà morale della persona offesa e l'art. 614
c.p., l'inviolabilità del domicilio. Nè per l'oggetto giuridico nè per la
struttura delle fattispecie è dato comprendere, quindi, come e perchè il reato
di cui all'art. 388 c.p., comprenda e assorba tutti gli altri (nessuna
congruente argomentazione è stata sviluppata, in proposito, dalla ricorrente).
3.
E' solo assertiva l'affermazione che l'abitazione di D. fosse preceduta da
un'area non recintata, entro cui era possibile entrare senza violare il
domicilio di chi vi abitava. La sentenza impugnata, come quella di primo grado,
sono esplicite nel dire, invece, che C. si introdusse abusivamente, in più
occasioni, in un'area di esclusiva pertinenza della D. e talvolta addirittura
in casa, senza il consenso di chi vi abitava (circostanza confermata dalla zia
della D.). Tali circostanze non sono nemmeno prese in considerazione dalla
ricorrente, che ignora addirittura le argomentate riflessioni del giudicante.
4.
Non è corretto affermare l'assorbimento del delitto di violenza privata in
quello di cui all'art. 612 bis c.p., sebbene siano entrambi inseriti nella
sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, giacchè il suddetto bene
giuridico presenta profili diversi, che esigono tutele diverse. Il delitto
previsto dall'art. 612 bis c.p., tende alla protezione del singolo cittadino da
comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità
personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, ovvero costringendo a
modificare comportamenti ed abitudini di vita (per questo, può dirsi che è
rivolto alla tutela della persona nel suo insieme, piuttosto che della sola
libertà morale). Nella sua struttura è reato abituale e, sebbene la norma
faccia riferimento solo a molestie e minacce, quali fonti di responsabilità,
deve ritenersi reato a condotta libera, in quanto le minacce e le molestie
costituiscono esemplificazione dei comportamenti che possono determinare gli
stati patologici sopra considerati, costituenti evento del reato.
La
violenza privata è volta alla tutela della libertà morale, nel suo aspetto di
libertà individuale; vale a dire come possibilità di determinarsi
spontaneamente, secondo motivi propri (libertà di autodeterminazione), e di
agire di conseguenza (libertà di azione).
Quindi,
tende ad impedire che un soggetto faccia, ometta o tolleri qualcosa perchè
costrettovi, con violenza o minaccia, da altri, indipendentemente dalla
induzione di uno stato morboso o dalla modificazione delle abitudini di vita.
In
altri termini, mentre l'art. 610 c.p., protegge il processo di formazione e di
attuazione della volontà personale, l'art. 612 bis, è volto - al pari dell'art.
612 c.p. - alla tutela della tranquillità psichica, ritenuta, con pieno
fondamento, condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione
della volontà suddetta. Pertanto, l'oggetto giuridico di categoria (la libertà
morale) esige, per la sua salvaguardia, la protezione di entrambe le
sottospecie di beni sopra rassegnati, potendo essere aggredito nell'una o
nell'altra manifestazione, oppure in entrambe. Quando quest'ultima situazione
si verifica, non vi sono ragioni, quindi, per escludere il concorso di norme,
siccome rivolte a tutelare aspetti diversi dello stesso bene.
Alla
luce di tali criteri, nessuna censura merita la sentenza impugnata, che ha
ritenuto sussistenti entrambi i reati. La violenza privata è stata ritenuta
sussistente perchè, in più occasioni, C. costrinse la donna - con violenza
verbale e minacce esplicite e contravvenendo alle prescrizioni dettate dal
giudice civile - a consegnargli il figlio contro la sua volontà. Si tratta di
qualcosa di diverso dalla induzione dello stato di ansia e di timore, preso in
considerazione dall'art. 612 bis, che ha indotto la donna a ricorrere alle cure
di uno specialista e ad "adeguare il proprio vivere quotidiano a moduli
che cercassero di escludere interferenze da parte del C." (pag. 4 della
sentenza di primo grado).
5.
Manifestamente infondato è il quinto motivo di ricorso, con il quale il
ricorrente lamenta l'entità della pena infintagli. Ed invero, la concreta
modulazione della pena appartiene al novero dei poteri discrezionali del
giudice di merito, il cui esercizio si sottrae al sindacato in sede di
legittimità ove sorretto da idonea motivazione; nel caso specifico, la
motivazione addotta, fondata sulla gravità della condotta reiterarla nel tempo
e sulle conseguenze da essa derivate, oltre che sui precedenti penali (che non
hanno impedito, comunque, alla Corte d'appello di ridurre la pena applicata dal
primo giudice), vale a giustificare la modulazione del trattamento
sanzionatorio, in misura, peraltro, moderatamente superiore al minimo edittale.
Parimenti inammissibile è la censura relativa alla mancata concessione del
beneficio della non menzione, posto che nell'atto d'appello (recante la data
del 7/11/2011) non ne era stata fatta richiesta.
6.
E' fondata, infine, la doglianza relativa alla sospensione condizionale della
pena subordinata al pagamento, entro due mesi dal deposito della motivazione
della sentenza d'appello, di quanto stabilito a titolo di provvisionale. Questo
Collegio aderisce infatti all'orientamento, maggioritario nella giurisprudenza
di questa Corte, secondo cui il beneficio della sospensione condizionale della
pena non può essere subordinato al pagamento della provvisionale riconosciuta
alla parte civile da effettuarsi anteriormente al passaggio in giudicato della
sentenza (da ultimo, Cass., n. 29888 del 2013). Di conseguenza, la sentenza va
annullata nella sola parte in cui subordina la concessione del beneficio al
pagamento della provvisionale nei ristretti termini stabiliti in sentenza,
invece che entro due mesi dal passaggio in giudicato della sentenza d'appello.
Il
rigetto dei motivi di ricorso concernenti l'affermazione di responsabilità per
i reati contestati comporta che il ricorrente va condannato al pagamento delle
spese di rappresentanza sostenute nel grado dalla parte civile, che si
liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla
senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla subordinazione del
beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento della
provvisionale entro il termine di due mesi dal deposito della sentenza di
appello. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione
delle spese di parte civile liquidate in complessivi Euro 1.200, oltre
accessori di legge.
Così
deciso in Roma, il 11 novembre 2014.
Depositato
in Cancelleria il 16 gennaio 2015
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