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Cassazione
penale, sez. IV, 9 aprile 2013, n. 16237.
IL CASO (traccia possibile parere)
Il medico chirurgo Tizio eseguiva, nella clinica privata Beta, un intervento di ernia discale recidivante, nel corso del quale venivano lese la vena e l'arteria iliaca. L’esecutore dell'atto chirurgico, disponeva il ricovero presso nosocomio attrezzato per un urgente intervento vascolare riparatorio, ma senza esito giacchè, nonostante la tempestiva operazione in laparotomia, la paziente veniva meno a seguito della grave emorragia. Imputato e processato per omicidio colposo, il Tribunale affermava la responsabilità di Tizio in relazione alla condotta commissiva afferente all'erronea esecuzione dell'intervento di ernia discale. Si assume che sia stata violata la regola precauzionale, enunciata in letteratura, di non agire in profondità superiore a 3 centimetri; e di non procedere ad una pulizia radicale del disco erniario, per evitare la complicanza connessa alla lesione dei vasi che corrono nella zona dell'intervento. E' stata invece espressamente esclusa l'esistenza degli altri contestati o ipotizzati profili di colpa, afferenti alla mancata esecuzione di un intervento in laparotomia per suturare il vaso lesionato; ed alla mancata predisposizione di equipe chirurgica e di attrezzatura idonea, al fine di fronteggiare eventuali complicanze del genere di quella verificatasi. Tale valutazione è stata condivisa dalla Corte d'appello per ciò che attiene al profilo di colpa commissiva. La stessa Corte ha peraltro ritenuto che il sanitario sia in colpa anche per non aver preventivato la complicanza e per non aver organizzato l'esecuzione dell'intervento in una clinica attrezzata per far fronte alla possibile lesione di vasi sanguigni. Tizio si rivolge al vostro studio legale chiedendo parere motivato in merito ad un eventuale ricorso in Cassazione avverso la suddetta sentenza della Corte d’appello.
MASSIMA
In
tema di responsabilità medica, l'art. 3 della legge 8 novembre 2012,
n. 189 esclude la rilevanza della colpa lieve a quelle condotte che
abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche
virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica.
(Nella specie, la S.C. ha osservato che la norma ha dato luogo ad una
"abolitio criminis" parziale degli artt. 589 e 590 cod.
pen., avendo ristretto l'area del penalmente rilevante individuata da
questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due
sottofattispecie, una che conserva natura penale e l'altra divenuta
penalmente irrilevante).
SENTENZA
Fatto
1.
Il Tribunale di Roma ha affermato la responsabilità dell'imputato in
epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di L.A.. La
sentenza è stata riformata dalla Corte d'appello solo per ciò che
attiene alla pena, essendosi sostituita la sanzione detentiva con
quella pecuniaria.
L'imputazione
attiene all'esecuzione, in una clinica privata, di intervento di
ernia discale recidivante, nel corso del quale venivano lese la vena
e l'arteria iliaca. L'imputato, esecutore dell'atto chirurgico,
disponeva il ricovero presso nosocomio attrezzato per un urgente
intervento vascolare riparatorio, ma senza esito giacchè, nonostante
la tempestiva operazione in laparotomia, la paziente veniva meno a
seguito della grave emorragia.
Il
Tribunale ha affermato la responsabilità in relazione alla condotta
commissiva afferente all'erronea esecuzione dell'intervento di ernia
discale. Si assume che sia stata violata la regola precauzionale,
enunciata in letteratura, di non agire in profondità superiore a 3
centimetri; e di non procedere ad una pulizia radicale del disco
erniario, per evitare la complicanza connessa alla lesione dei vasi
che corrono nella zona dell'intervento.
E'
stata invece espressamente esclusa l'esistenza degli altri contestati
o ipotizzati profili di colpa, afferenti alla mancata esecuzione di
un intervento in laparotomia per suturare il vaso lesionato; ed alla
mancata predisposizione di equipe chirurgica e di attrezzatura
idonea, al fine di fronteggiare eventuali complicanze del genere di
quella verificatasi.
Tale
valutazione è stata condivisa dalla Corte d'appello per ciò che
attiene al profilo di colpa commissiva. La stessa Corte ha peraltro
ritenuto che il sanitario sia in colpa anche per non aver
preventivato la complicanza e per non aver organizzato l'esecuzione
dell'intervento in una clinica attrezzata per far fronte alla
possibile lesione di vasi sanguigni.
2.
Ricorre per cassazione l'imputato deducendo diversi motivi.
2.1
Con il primo si prospetta travisamento della prova in ordine
all'asserita regola precauzionale di non introdurre lo strumento
chirurgico ad una profondità superiore a 3 centimetri. Il testo
scientifico evocato sinteticamente dalla pronunzia impugnata è in
realtà di ben altro tenore: si afferma, infatti, che il rischio può
essere talvolta ridotto se la penetrazione all'interno dello spazio
intersomatico è limitata a meno di 3 centimetri. Dunque,
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, la regola
cautelare è tutt'altro che rigida.
D'altra
parte, non esiste un metodo per misurare la profondità di
penetrazione dello strumento. Le argomentate deduzioni della difesa
non sono state per nulla esaminate dal giudice.
2.2
Con il secondo motivo si deduce mancanza della motivazione in ordine
alla natura della colpa ascritta all'imputato. Non si è chiarito se
si tratti di imperizia o imprudenza. Si è trascurato di considerare
le caratteristiche dell'operazione: recidiva di ernia discale, che
comporta un inevitabile aumento del rischio chirurgico.
Tale
decisiva questione non è stata minimamente esaminata e si è omesso
di considerare che l'intervento chirurgico in questione è
caratterizzato da un delicato equilibrio: agire in profondità per
asportare il materiale discale e prestare attenzione a non lacerare i
vasi che corrono a breve distanza. Nel caso in esame si sarebbe
dovuta quindi considerare l'esistenza di una misura di rischio
consentito. Infine, si è omesso di mettere a confronto la tesi
scientifica che ha fondato il rimprovero colposo con le altre
prospettate dal consulente della difesa.
2.3
Con il terzo motivo si lamenta violazione dell'effetto devolutivo
dell'impugnazione. La Corte ha ritenuto la responsabilità in ordine
alla presunta inadeguatezza della struttura sanitaria prescelta per
l'esecuzione dell'intervento, in relazione ai rischi ad esso
connessi. Invece il primo giudice aveva espressamente escluso tale
profilo di colpa, che non era stato peraltro neppure formalmente
contestato, essendosi considerato che la complicanza vascolare è
molto rara. Sul punto non vi era stata alcuna impugnazione e si era
quindi formato il giudicato.
2.4
Con il quarto motivo si prospetta vizio della motivazione quanto al
profilo di colpa afferente all'indicata questione dell'adeguatezza
della struttura sanitaria. Il primo giudice ha ampiamente argomentato
al riguardo, aderendo alle valutazioni espresse sia dal consulente
dell'accusa pubblica che da quello della parte civile. La Corte
d'appello ha ribaltato tale ponderazione senza sottoporla a revisione
critica.
2.5
Ha fatto seguito la presentazione di motivi aggiunti in forma di
deposito di atti richiamati nel ricorso.
2.6
Infine, con motivo nuovo si è esposto che, per effetto della
L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3,
è stata operata una parziale abolizione della fattispecie di
omicidio colposo, essendo stata esclusa la rilevanza della colpa
lieve nel caso in cui il sanitario si attenga alle linee guida ed
alle buone pratiche terapeutiche. Il caso oggetto del processo,
d'altra parte, riconduce alla nuova disciplina. Si tratta di
stabilire se esista una buona pratica chirurgica che imponga di non
introdurre l'ago a non più di 3 centimetri e se, con riguardo alle
accreditate linee guida, vi sia colpa non lieve.
3.
Il ricorso è fondato alla luce del motivo nuovo (p.2.6).
Va
tuttavia preliminarmente esaminato il terzo motivo, dal quale dipende
l'ampiezza del tema demandato a questa Corte suprema, afferente, nel
suo complesso, all'esistenza di condotta colposa.
La
questione sollevata è fondata. Dall'esame della sentenza del
Tribunale, infatti, emerge che con apprezzabile chiarezza il
dispositivo reca l'affermazione di responsabilità esclusivamente con
riguardo alla condotta commissiva che ha determinato la rottura dei
vasi e la conseguente emorragia. Non solo. Nella parte motiva si
argomenta che il profilo di colpa afferente all'inadeguatezza della
struttura prescelta per l'esecuzione dell'intervento non è stato
esplicitato nel capo d'imputazione. Esso è emerso nel corso del
giudizio, ma il P.M. non ha ritenuto di elevare contestazione al
riguardo. Tale valutazione dell'accusa pubblica viene condivisa. Si
argomenta che la clinica in cui l'atto chirurgico fu eseguito non era
attrezzata per un intervento in laparatomia, non erano stati
allertati i sevizi di chirurgia vascolare, nè erano stati
predisposti gli apparati occorrenti. Tuttavia è emerso che simili
cautele, sebbene astrattamente auspicabili, non sono previste per
l'intervento di ernia discale, anche a cagione della rarità delle
complicanze. Al riguardo tutti gli esperti hanno convenuto. Si
aggiunge che pure il profilo di colpa omissiva afferente alla
mancata, immediata esecuzione di un intervento riparatore in
laparotomia va escluso. Residua, in conseguenza, il solo profilo di
colpa commissiva afferente alla ridetta lesione dei vasi sanguigni.
La
pronunzia non è stata impugnata nè dall'accusa pubblica nè da
quella privata. Ne discende che, sia che si voglia riguardare le cose
sotto il profilo dell'immutabilità della contestazione, sia che si
voglia tenere in conto l'effetto devolutivo dell'impugnazione, non vi
è dubbio che al giudice d'appello fosse stato demandato il solo tema
della colpa commissiva di cui si parla. Ne discende che la pronunzia
impugnata va censurata quanto alle enunciazioni afferenti agli altri
profili di colpa; e che l'unico tema oggetto di discussione nella
presente sede di legittimità riguarda la colpa commissiva afferente
alla lesione dei vasi.
4.
Come si è accennato, correttamente il motivo nuovo chiama in causa
l'innovazione introdotta con la L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3.
La nuova normativa prevede che l'esercente una professione sanitaria
che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee
guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve. L'innovazione è pertinente al
caso in esame poichè, come esposto nella sentenza impugnata, larga
parte della discussione sulla colpa si è incentrata proprio
sull'esistenza e sul contenuto di linee guida in ordine
all'esecuzione dell'intervento in questione, nonchè sulla loro
osservanza da parte del C.. Si tratta, allora, di comprendere quale
sia la portata della riforma e quali ne siano gli effetti nel caso
concreto.
Non
può essere del tutto condiviso il pur argomentato punto di vista del
Procuratore generale requirente, che ha rimarcato le imperfezioni, le
incongruenze nonchè l'apparente contraddittorietà della legge. Si è
considerato che non è facile comprendere come possa configurarsi
colpa nel caso in cui vi sia stata l'osservanza delle linee guida e
delle buone pratiche terapeutiche; e se ne è desunto che si è in
presenza di una novità di modesto rilievo.
Non
vi è dubbio che l'intervento normativo, se sottoposto a critica
serrata, mostrerebbe molti aspetti critici. Si è in effetti in
presenza, per quel che qui interessa, di una disciplina in più punti
laconica, incompleta; che non corrisponde appieno alle istanze
maturate nell'ambito del lungo dibattito dottrinale e della vivace,
tormentata giurisprudenza in tema di responsabilità medica. E'
mancata l'occasione per una disciplina compiuta della relazione
terapeutica e delle sue patologie. Tuttavia, piuttosto che attardarsi
nelle censure, conviene tentare, costruttivamente, di cogliere e
valorizzare il senso delle innovazioni.
Orbene,
già ad una prima lettura risulta chiaro che due sono i tratti di
nuova emersione. Da un lato la distinzione tra colpa lieve e colpa
grave, per la prima volta normativamente introdotta nell'ambito della
disciplina penale dell'imputazione soggettiva.
Dall'altro,
la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche
terapeutiche, purchè corroborate dal sapere scientifico.
Si
tratta di novità di non poco conto. La colpa penale, sia pure in un
contesto limitato, assume ora una duplice configurazione. E d'altra
parte viene abbozzato, in ambito applicativo, un indirizzo sia per il
terapeuta che per il giudice, nel segno della documentata aderenza al
più accreditato sapere scientifico e tecnologico.
Come
si è accennato, tali nuovi tratti della disciplina legale non
nascono dal nulla. Al contrario, essi germinano sul terreno di
controverse letture della colpa professionale, maturate sia in ambito
teorico che giurisprudenziale. Non meno importante, poi, è la
temperie di politica del diritto che sta sullo sfondo: le istanze
difensive della professione, le attese delle vittime, i problemi
afferenti all'allocazione dei costi, il contemperamento tra esigenze
terapeutiche e limitatezza dei bilanci pubblici. Ne discende che, pur
volendo porre le cose nel modo più semplice e breve, rifuggendo da
inutili complicazioni, il senso della nuova disciplina sfuggirebbe se
essa non fosse collocata in una prospettiva storica, particolarmente
per ciò che attiene allo sviluppo della giurisprudenza in tema di
colpa dell'esercente le professioni sanitarie. Tale pur sommaria
analisi è funzionale alla complessiva lettura del sistema, alla
comprensione dell'esatta portata della riforma ed all'armonizzazione
del nuovo con il preesistente.
5.
La storia della responsabilità medica appare complessa, sfumata e
ricca di insegnamenti. Essa costituisce, tra l'altro, il topos per lo
studio della colpa grave ora normativamente introdotta
nell'ordinamento penale. La più antica giurisprudenza di legittimità
in tema di colpa nell'esercizio della professione medica si
caratterizza per la particolare larghezza: si afferma che la
responsabilità penale può configurarsi solo nei casi di colpa grave
e cioè di macroscopica violazione delle più elementari regole
dell'arte. Nelle pronunzie risalenti si legge che la malattia può
manifestarsi talvolta in modo non chiaro, con sintomi equivoci che
possono determinare un errore di apprezzamento, e che sovente non
esistono criteri diagnostici e di cura sicuri. La colpa grave
rilevante nell'ambito della professione medica si riscontra
nell'errore inescusabile, che trova origine o nella mancata
applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla
professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia
tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto
operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire
correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza,
che non devono mai difettare in chi esercita la professione
sanitaria. Dovendo la colpa del medico essere valutata dal giudice
con larghezza di vedute e comprensione, sia perchè la scienza medica
non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo
di cure, sia perchè nell'arte medica l'errore di apprezzamento è
sempre possibile, l'esclusione della colpa professionale trova un
limite nella condotta del professionista incompatibile col minimo di
cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi
sia abilitato all'esercizio della professione medica. Insomma, in
questa ormai remota giurisprudenza l'esclusione della colpa è la
regola e l'imputazione colposa è l'eccezione che si configura solo
nelle situazioni più plateali ed estreme.
Il
supporto normativo di tale orientamento è stato solitamente
individuato nell'art. 2236 cod. civ., letto come strumento per
limitare la responsabilità ai soli casi di errore macroscopico. In
dottrina il rilievo in ambito penale di tale norma è stato
ricondotto ad un'esigenza di coerenza interna dell'ordinamento
giuridico, cioè alla necessità di evitare che comportamenti che non
concretizzano neppure un illecito civile assumano rilevanza nel più
rigoroso ambito penale. Tale connessione tra le due normative,
tuttavia, è stata sottoposta in ambito teorico ad importanti
precisazioni, che la giurisprudenza ha spesso trascurato: le
prestazioni richieste devono presentare speciali difficoltà
tecniche, ed inoltre la limitazione dell'addebito ai soli casi di
colpa grave riguarda l'ambito della perizia e non, invece, quelli
della prudenza e della diligenza. In tale visione si ritiene che la
valutazione della colpa medica debba essere compiuta con speciale
cautela nei soli casi in cui si richiedano interventi particolarmente
delicati e complessi e che coinvolgano l'aspetto più squisitamente
scientifico dell'arte medica.
La
questione della compatibilità tra l'indirizzo "benevolo"
della giurisprudenza ed il principio d'uguaglianza è stata posta,
nell'anno 1973, all'attenzione della Corte costituzionale (sent. 28
novembre 1973, n. 166) che ha sostanzialmente recepito le linee
dell'indicata dottrina, affermando che dagli artt. 589, 42 e 43 c.p.
e dall'art. 2236 cod. civ. è ricavabile una particolare disciplina
in tema di responsabilità degli esercenti professioni intellettuali,
finalizzata a fronteggiare due opposte esigenze: non mortificare
l'iniziativa del professionista col timore d'ingiuste rappresaglie in
caso d'insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non
ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.
Tale
particolare regime, che implica esenzione o limitazione di
responsabilità, perè, è stato ritenuto applicabile ai soli casi in
cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di
speciale difficoltà e riguarda l'ambito della perizia e non quello
della diligenza e della prudenza. Considerato che la deroga alla
disciplina generale della responsabilità per colpa ha un'adeguata
ragion d'essere ed è contenuta entro il circoscritto tema della
perizia, la Corte ha ritenuto che non vi sia lesione del principio
d'eguaglianza.
L'orientamento
indulgente della giurisprudenza ha finito col coprire anche casi di
grave leggerezza ed ha determinato una situazione di privilegio per
la categoria, che è parsa ad alcuni giuristi anche in contrasto col
principio costituzionale d'uguaglianza. Si è pure ritenuto che tanta
comprensione verso comportamenti spesso gravemente censurabili fosse
espressione della deteriore visone paternalistica della medicina.
Per
effetto di tali critiche le cose sono ad un certo punto mutate.
Fattasi
strada una visione relazionale del rapporto tra sanitario e paziente,
a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo, si è affermata e
consolidata una giurisprudenza radicalmente contrapposta, che esclude
qualsiasi rilievo, nell'ambito penale, dell'art. 2236 del codice
civile; ed impone di valutare la colpa professionale sempre e
comunque sulla base delle regole generali in tema di colpa contenute
nell'art. 43 cod. pen. Si è considerato che la norma civile riguarda
il risarcimento del danno, quando la prestazione professionale
comporta la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà,
e non può essere applicata all'ambito penale nè in via estensiva,
data la completezza e l'omogeneità della disciplina penale della
colpa, nè in via analogica, vietata per il carattere eccezionale
della disposizione rispetto ai principi in materia. La gravità della
colpa potrà avere eventualmente rilievo solo ai fini della
graduazione della pena. Con tale approdo, occorre annotare, l'istanza
di coerenza interna dell'intero ordinamento è stata sacrificata a
quella di uniforme applicazione dell'imputazione colposa in ambito
penale.
6.
Tuttavia la questione della ponderazione in ordine alla gravità
della colpa non si è esaurita. Espunto l'art. 2236 dal novero delle
norme applicabili nell'ordinamento penale, esso vi è rientrato per
il criterio di razionalità del giudizio che esprime. Questa Suprema
Corte ha così affermato (Sez. 4, n. 39592 del 21 giugno 2007, Buggè,
Rv. 237875) che la norma civilistica può trovare considerazione
anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso
specifico sottoposto al suo esame impone la soluzione di problemi di
specifica difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel
campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice può
attenersi nel valutare l'addebito di imperizia sia quando si versa in
una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione
di problemi tecnici di speciale difficoltà.
Questa
rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo
perchè recupera le ragioni profonde che stanno alla base del
tradizionale criterio normativo di attenuazione dell'imputazione
soggettiva, ma anche perchè, in un breve passaggio, la sentenza pone
in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare
una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato
le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità
tecnico-scientifiche; e dall'altro (aspetto mai prima enucleato
esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad
operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata
dall'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose
facili. Quest'ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla
considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le
valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta
esigibilità della condotta astrattamente doverosa.
Il
principio enunciato da tale sentenza è stato recentemente ribadito e
chiarito più volte. In una pronunzia (Sez. 4, n. 16328 del 5 aprile
2011, Montalto, rv. 251941) si è posta in luce la connessione tra
colpa grave ed urgenza terapeutica; e si è rimarcato che una attenta
e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di
cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà
della diagnosi, sovente accresciuta dall'urgenza; e di distinguere
tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto,
non si adopera per fronteggiare adeguatamente l'urgenza o tiene
comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua
specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in
emergenza. E' stata quindi confermata la sentenza assolutoria di
merito che aveva compiuto una ponderazione basata sull'ambiguità
della sintomatologia e dell'esito degli esami ematochimici, nonchè
sulla necessità di avviare con prontezza il paziente alla struttura
sanitaria che, nella situazione data, appariva ragionevolmente dotata
delle competenze ed attrezzature più adeguate in relazione alla
prospettata patologia neurologica.
In
altra sentenza (Sez. 4, n. 4391/12 del 22 novembre 2011, Di Lella,
rv. 251941) si è affermato che il rimprovero personale che fonda la
colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente
soggettivo, richiede di ponderare le difficoltà con cui il
professionista ha dovuto confrontarsi; di considerare che le condotte
che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o sotto una
campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto
in cui si sono manifestate. Da questo punto di vista, si è concluso,
l'art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una
regola logica ed esperienziale che sta nell'ordine stesso delle cose.
In
breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell'esercente una
professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà
tecnico-scientifica dell'intervento richiestogli ed al contesto in
cui esso si è svolto. Il principio è stato enunciato in un caso in
cui si discuteva della responsabilità dello psichiatra di una casa
di cura in cui era da tempo ricoverato un degente affetto da una
grave patologia psichiatrica e che era precipitato al suolo, perdendo
la vita, a causa della sua condizione, verosimilmente per la
realizzazione di proposito suicidiario. Si è affermato che vi sono
contesti, come quello psichiatrico, nei quali esiste una
ineliminabile misura di rischio consentito; e che la linea di confine
tra il lecito e l'illecito è spesso incerta, sicchè la valutazione
della colpa non può prescindere dalla considerazione di tale
contingenza. La psichiatria mostra patologie che non di rado sono
difficilmente controllabili completamente. Tale situazione è in gran
parte connessa all'abbandono di deprecate pratiche di isolamento e
segregazione. In breve, si cura e si protegge il paziente con terapie
rispettose della sua dignità che, tuttavia, non possono eliminare
del tutto il rischio di condotte inconsulte. Il rischio è
insuperabile ma è accettato dalla scienza medica e dalla società:
esso
è dunque "consentito". Di tale situazione occorre
consapevolmente prendere atto nel valutare la colpa: l'esistenza di
una posizione di garanzia non basta di certo, da sola, a fondare
l'imputazione, dovendosi esperire il giudizio di rimprovero personale
che concretizza la colpevolezza, tenendo adeguatamente conto dei
margini d'incertezza connessi all'individuazione dell'area di rischio
socialmente accettato.
7.
Gli spunti giurisprudenziali di cui si è dato conto si collocano
prevalentemente sul versante soggettivo della colpa. Si tenta di
valorizzare, sul piano del rimprovero personale, le categorie di
rischio e le contingenze che rendono ardua la perfetta osservanza
delle leges artis.
La
nuova legge non incide su tale approccio, che resta dunque parte
dell'attuale ordinamento normativo della colpa penale e fornirà nel
prosieguo dell'esposizione qualche ulteriore utile indicazione
proprio attorno ai problemi connessi all'interpretazione della
riforma. La legge aggiunge a tale stato dell'arte qualcosa di nuovo.
Il
primo dato importante è costituito dalla valorizzazione delle linee
guida e delle affidabili pratiche terapeutiche, quando esse siano
confortate dal consenso della comunità scientifica.
Come
è noto, le linee guida costituiscono sapere scientifico e
tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma
condensata, in modo che possa costituire un'utile guida per orientare
agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni
terapeutiche. Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le
determinazioni; e di sottrarle all'incontrollato soggettivismo del
terapeuta. I vantaggi di tale sistematizzata opera di orientamento
sono tanto noti quanto evidenti.
Tali
regole, come sarà meglio chiarito nel prosieguo, non danno luogo a
norme propriamente cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di
colpa specifica. Esse, tuttavia hanno a che fare con le forti istanze
di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Tale
enunciazione, assai utile alla comprensione del sistema e delle
implicazioni di fondo connesse alla riforma, ha bisogno di un breve
chiarimento.
Occorre
partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità
di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di
rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle
cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo
fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla
sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che
caratterizza la colpa specifica, contrariamente a quanto si potrebbe
a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile
espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività.
La
fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, è per
la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo
proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno
parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia.
Questo
stato delle cose traspare se guardiamo alla storia dell'istituto. Con
la rivoluzione francese si afferma la signoria della legge come
antidoto contro i privilegi dell'antico regime; e nello stesso
contesto storico, nel codice napoleonico, la colpa cessa di essere
generica imprudenza e diventa anche violazione di leggi, regolamenti,
ordini. Questa stessa normativa noi ritroviamo nei codici preunitari,
nel codice Zanardelli e, infine, nel codice Rocco:
nulla
è sostanzialmente mutato nelle moderne definizioni legali della
colpa. Come la signoria della legge era l'antidoto contro radicati
privilegi, la specificazione della norma cautelare era ed è ancora
l'antidoto più forte contro l'imponderabile soggettivismo del
giudice ed è quindi garanzia di legalità, imparzialità,
prevedibilità delle valutazioni giuridiche.
Naturalmente,
la fiducia che noi possiamo avere nella colpa specifica non può
essere illimitata. Anche a questo proposito la storia è maestra.
Essa ci mostra che per tutto l'ottocento e fino alla metà dello
scorso secolo, prima che alcuni giuristi svelassero le sottili
connessioni che si nascondono dietro questa fattispecie un pò oscura
e misteriosa, la colpa specifica è stata intesa in guisa deteriore,
essendo fondata sul disvalore d'azione, sulla violazione della regola
cautelare. L'evento è stato visto come condizione obiettiva di
punibilità e questo ha messo in ombra i valori costituzionali ai
quali noi ora ci ispiriamo. La riflessione teorica ci ha spiegato che
la colpa specifica non si radica nella sola violazione di una
prescrizione ma implica anche la comprensione, con l'aiuto del sapere
scientifico, dei molteplici intrecci causali che connettono la
condotta all'evento. Noi, ora, parliamo tranquillamente di nesso di
prevenzione, di nesso di rischio, di evitabilità in concreto
dell'evento, di causalità della colpa. Queste sintetiche
espressioni, con il loro carico di sofisticata teoria, valgono da
sole a farci intendere quanto importante e sovente intricata sia la
connessione tra l'evento illecito e la violazione della prescrizione
cautelare: nell'evento, si afferma in breve ed efficacemente, si deve
essere concretizzato il rischio che la cautela intendeva evitare.
Quest'ordine
concettuale è penetrato nella giurisprudenza di legittimità e
costituisce un'importante parte della teoria della colpa.
Sebbene
la colpa specifica costituisca la forma più evoluta e determinata
d'imputazione, della colpa generica, pur con il suo inevitabile
carico di preoccupante vaghezza, non è proprio possibile fare a
meno. Essa è parte vitale ma per certi versi inquietante
dell'illecito colposo. Con la colpa generica dobbiamo in qualche modo
fare i conti, perchè è illusorio pensare che ogni contesto
rischioso possa trovare il suo compiuto governo in regole
precostituite e ben fondate, aggiornate, appaganti rispetto alle
esigenze di tutela. Qui si annida un grande pericolo: il giudice
prima definisce le prescrizioni o l'area di rischio consentito e poi
ne riscontra la possibile violazione, con una innaturale
sovrapposizione di ruoli che non è sufficientemente controbilanciata
dalla terzietà. Di tale pericolo occorre avere consapevolezza.
Rispetto
a tale quadro d'insieme l'ambito della responsabilità medica
presenta alcune peculiarità interessanti. Intanto, a parte la
recente innovazione, si registra nel complesso un sostanziale vuoto
normativo che enfatizza il ruolo della giurisprudenza. Al contempo,
si è in presenza di un'attività davvero difficile e rischiosa che
merita una speciale considerazione. Infine, l'attività medica non è
di regola governata da prescrizioni aventi propriamente natura di
regole cautelari, ma è fortemente orientata dal sapere scientifico e
dalle consolidate strategie tecniche, che svolgono un importante
ruolo nel conferire oggettività e determinatezza ai doveri del
professionista e possono al contempo orientare le pur difficili
valutazioni cui il giudice di merito è chiamato.
Per
queste ragioni l'ambito del rischio terapeutico promette di far
maturare la colpa sia sul versante della determinatezza che su quello
del rimprovero soggettivo. Se ci si chiede dove il giudice,
consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni
cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della
quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie
valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la
scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili,
affidabili. Traspare, così, quale interessante rilievo abbiano le
linee guida nel conferire determinatezza a fattispecie di colpa
generica come quelle di cui ci si occupa.
L'indicazione
è semplice, lineare, ma non altrettanto lo è l'itinerario per il
conseguimento della scientificità del giudizio.
Infatti,
l'acquisizione al processo di informazioni scientifiche adeguatamente
attendibili non è sempre agevole, tanto più quando si entra in
ambiti complessi, controversi, caratterizzati da sapere in divenire.
Il tema deve essere qui brevemente accennato per il rilievo che la
questione della qualità delle informazioni scientifiche ha
nell'ambito dell'applicazione delle linee guida.
Questa
Suprema Corte (Sez. 4, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini, Rv.
248943) ha già avuto modo di porre in luce i pericoli che incombono
in questo campo: la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli
interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le
negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità
scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni
scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei
dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari
connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche.
Tale
situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere
un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma
deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato
suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico.
Si
è pure posto in luce che il primo e più indiscusso strumento per
determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche
che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento
in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di
giudizio dell'esperto. Tuttavia, ciò può non bastare. Infatti non
si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di
vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più
ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze
accreditate. Pertanto, per valutare l'attendibilità di una tesi
occorre esaminare gli studi che la sorreggono; l'ampiezza, la
rigorosità, l'oggettività delle ricerche; il grado di consenso che
l'elaborazione teorica raccoglie nella comunità scientifica.
Inoltre,
è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa,
l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per
le quali si muove. Insomma, dopo aver valutato l'affidabilità
metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare
le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile
ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili
informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente
allo specifico caso esaminato.
Naturalmente,
il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze
per esperire un'indagine siffatta: le informazioni relative alle
differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere
veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, come si è accennato,
non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro personale
seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario
degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al
giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni
scientifiche del problema, vi sia conoscenza scientifica in grado di
guidare affidabilmente l'Indagine. Di tale indagine il giudice è
infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le
informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale
spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti,
dell'apprezzamento compiuto. Si tratta di indagine afferente alla
sfera del fatto e dunque rimessa alla valutazione del giudice di
merito; mentre il controllo di legittimità attiene solo alla
razionalità ed alla rigorosità dell'apprezzamento compiuto.
Alla
stregua di quanto precede risulta chiarito e nobilmente enfatizzato
il ruolo di peritus peritorum tradizionalmente conferito al giudice.
Nessuna rivendicazione di potere e di supremazia.
Piuttosto,
l'indicazione di un metodo. Il giudice, con l'aiuto degli esperti,
individua il sapere accreditato che può orientare la decisione e ne
fa uso oculato, metabolizzando la complessità e pervenendo ad una
spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque,
conforme a ragione ed umanamente plausibile: il più alto ed
impegnativo compito conferitogli dalla professione di tecnico del
giudizio. Il perito non è più (non avrebbe mai dovuto esserlo)
l'arbitro che decide il processo, ma l'esperto che espone al giudice
il quadro del sapere scientifico nell'ambito cui il giudizio si
interessa, spiegando quale sia lo stato del dibattito nel caso in cui
vi sia incertezza sull'affidabilità degli enunciati della scienza o
della tecnologia. Tutto ciò ha a che fare con i temi della legalità,
della determinatezza e della colpevolezza. Si vuoi dire che
l'ontologica "terzietà" del sapere scientifico accreditato
è lo strumento a disposizione del giudice e della parti per
conferire oggettività e concretezza al precetto ed al giudizio di
rimprovero personale.
Tale
ordine di idee trova puntuale applicazione nell'ambito di cui ci si
occupa: il legislatore ha evidentemente colto l'importanza del sapere
scientifico e tecnologico consolidatosi in forma agevolmente
disponibile in ambito applicativo ed ha al contempo richiesto il
sicuro, condiviso accreditamento delle direttive codificate.
Questo
stato delle cose consente una provvisoria conclusione: il giudizio
sull'imputazione soggettiva, nella responsabilità medica, non da
corpo alla colpa specifica in senso proprio, ma le istanze di
determinatezza cui si è fatto cenno sopra possono essere soddisfatte
attraverso lo strumento diffuso del sapere scientifico, anche nelle
sue forme codificate costituite, tra l'altro, dalle linee guida. Il
giudice, tuttavia, nei casi dubbi, dovrà prestare particolare
attenzione all'accreditamento scientifico delle regole di
comportamento che hanno guidato l'azione del terapeuta.
8.
Diverse sono le ragioni per le quali le direttive di cui si discute
non sono in grado di offrire standard legali precostituiti;
non
divengono, cioè, regole cautelari secondo il classico modello della
colpa specifica: da un lato la varietà ed il diverso grado di
qualificazione delle linee guida; dall'altro, soprattutto, la loro
natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della
prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica.
Tali
aspetti richiedono un chiarimento.
La
generica definizione sopra proposta delle linee guida non rende conto
del multiforme, eterogeneo universo che da corpo alla categoria:
diverse fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità
specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo
adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti
provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti,
altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni
sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle
metodiche influenza anche l'impostazione delle direttive:
alcune
hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente
orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e
sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di
pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e
terapeutiche differenti.
Tali
diversità rendono subito chiaro che, come si è accennato, per il
terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno
strumento di precostituita, ontologica affidabilità. Si ripresenta
nell'ambito della scienza applicata lo stesso rilevante problema che
attiene all'utilizzazione della conoscenza generalizzante di cui si è
già fatto cenno a proposito del metodo dell'indagine scientifica nel
processo penale. Dunque, anche nell'ambito delle linee guida non è
per nulla privo di interesse valutare le caratteristiche del soggetto
o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il
grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano
altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonchè
l'ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla
direttiva. A tale riguardo è sufficiente rammentare sinteticamente
che si è con ragione diffuso un orientamento che rapporta la qualità
scientifica delle indagini e delle "istruzioni" che se ne
traggono alle prove oggettive che le corroborano.
Il
legislatore ha evidentemente inteso la delicatezza del problema e ne
ha indicata la soluzione, rapportando le linee guida e le pratiche
terapeutiene all'accreditamento presso la comunità scientifica. Il
terapeuta, dunque, potrà invocare il nuovo, favorevole parametro di
valutazione della sua condotta professionale solo se si sia attenuto
a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute.
Si
tratta di una prima, importante enunciazione normativa. La legge
propone un modello di terapeuta attento al sapere scientifico,
rispettoso delle direttive formatesi alla stregua di solide prove di
affidabilità diagnostica e di efficacia terapeutica, immune da
tentazioni personalistiche. Tale responsabile, qualificato approccio
alla difficile professione giustifica, nella valutazione del
legislatore, l'attribuzione di rilievo penale alle sole condotte
connotate da colpa non lieve. Naturalmente, quelle stesse accreditate
direttive costituiranno, al contempo, la guida per il giudizio sulla
colpa. Si tratta di una conclusione che, come si vede, pone in
sintonia il legislatore con i più recenti approdi della
giurisprudenza di questa Corte in tema di prova scientifica.
9.
Tale prima indagine sull'attendibilità delle linee guida non
esaurisce l'itinerario che conduce all'individuazione dell'approccio
terapeutico appropriato. Sono infatti in questione la natura, la
struttura e lo scopo delle direttive. Si entra qui in un ambito che
riguarda la conformazione delle linee guida e che tocca da vicino la
comprensione del significato della novella di cui ci si occupa.
Una
prima lettura della norma induce a cogliervi una contraddizione:
un
terapeuta che rispetta le linee guida e che è al contempo in colpa.
La contraddizione è in realtà solo apparente. Per risolverla
occorre considerare che, come si è sopra esposto, le linee guida, a
differenza dei protocolli e delle cheek list, non indicano una
analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo
direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse,
dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma
rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico.
Potrà
ben accadere, dunque, che il professionista debba modellare le
direttive, adattandole alle contingenze che momento per momento gli
si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e che, in
alcuni casi, si trovi a dovervi addirittura derogare radicalmente. Il
legislatore ha evidentemente tenuto conto di tale situazione,
disciplinando l'evenienza di un terapeuta rispettoso delle
"istruzioni per l'uso" e tuttavia in colpa.
10.
Tale ricostruzione del ruolo non meccanicistico delle linee guida si
rinviene nella giurisprudenza di questa Suprema Corte. Da essa, nel
complesso, emerge che l'osservanza o l'inosservanza delle guida
terapeutica indizia soltanto la presenza o l'assenza di colpa, ma non
implica l'automatica esclusione o affermazione dell'imputazione
soggettiva. Le linee guida, in effetti, sono utilizzate
frequentemente, con esiti tuttavia variabili sulla sorte del
processo.
Il
tema è stato recentemente colto riassuntivamente (Cass. 4, 11 luglio
2012, n. 35922, Ingrassia), anche attraverso la lettura della
giurisprudenza più recente. Si è considerato che le linee guida
hanno un rilievo probatorio indubbio ma non esaustivo. Esse non
possono fornire, infatti, indicazioni di valore assoluto: non si può
pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che
ritenga, attese le particolarità del caso clinico, di dover
coltivare una soluzione atipica. D'altra parte, le raccomandazioni
possono essere controverse oppure non più rispondenti ai progressi
nelle more verificatisi nella cura della patologia. E' evidente che i
suggerimenti codificati contengono indicazioni generali riferibili al
caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre
tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze
peculiari che caratterizzano ciascun concreto caso clinico. In ogni
caso, i documenti devono essere in linea con il sapere scientifico
accreditato e non possono essere improntati all'esclusivo
soddisfacimento di esigenze di economia gestionale, trascurando le
reali esigenze di cura.
11.
La considerazione delle caratteristiche delle linee guida aiuta a
comprendere la portata della nuova normativa ed risolverne
l'apparente contraddittorietà.
Potrà
ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito
diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie
suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri
correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel
concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente
proprio all'adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed
alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso
clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente
rimproverabile, in ambito penale, solo quando l'errore sia non lieve.
Non
solo. Potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia
trattata le linee guida indichino una determina strategia, le già
evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di
discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la
linea d'azione ordinaria. Una tale eventualità può essere
agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di
patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi
connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni
anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche
in tale ambito trova applicazione la nuova normativa.
Nella
logica della novella il professionista che inquadri correttamente il
caso nelle sue linee generali con riguardo ad una patologia e che,
tuttavia, non persegua correttamente l'adeguamento delle direttive
allo specifico contesto, o non scorga la necessità di disattendere
del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia
che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d'insieme, sarà
censurabile, in ambito penale, solo quando l'acritica applicazione
della strategia ordinaria riveli un errore non lieve.
Evidentemente
il legislatore ha divisato di avere speciale riguardo per la
complessità e difficoltà dell'ars medica che, non di rado, si trova
di fronte a casi peculiari e complessi nei quali interagiscono
sottilmente e magari imponderabilmente diversi rischi o, comunque,
specifiche rilevanti contingenze. In tali casi la valutazione ex ante
della condotta terapeutica, tipica del giudizio sulla colpa, dovrà
essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al
professionista: il terapeuta complessivamente avveduto ed informato,
attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l'errore
sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole.
In
conclusione, alla stregua della nuova legge, le linee guida
accreditate operano come direttiva scientifica per l'esercente le
professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo
protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro
giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori
gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle
peculiarità contingenti. Tale disciplina, naturalmente, trova il suo
terreno d'elezione nell'ambito dell'imperizia.
12.
La protezione offerta non è però illimitata. Si vuoi dire che, alla
stregua della logica della norma, la regola d'imputazione soggettiva
della sola colpa non lieve non interviene in tutte le situazioni In
cui, nel corso del trattamento, vi sia stata, in qualche frangente,
l'attuazione di una direttiva corroborata. Al contrario, occorre
individuare la causa dell'evento, il rischio che in esso si è
concretizzato. Si richiede altresì di comprendere se la gestione di
quello specifico rischio sia governata da linee guida qualificate, se
il professionista si sia ad esse attenuto, se infine, nonostante tale
complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia stato alcun
errore e, nell'affermativa, se esso sia rimarchevole o meno.
Naturalmente, si tratterà pure di valutare se una condotta
terapeutica appropriata avrebbe avuto qualche qualificata probabilità
di evitare l'evento, ma in ciò non vi è nulla di nuovo rispetto
agli ordinari criteri di accertamento della colpa.
In
conclusione, il paradigma di accertamento e valutazione della colpa
che si è sinteticamente tratteggiato seguendo la ratio della riforma
non è sempre pertinente: l'indagine sulla correttezza della condotta
medica potrà esulare dall'ambito segnato da accreditate direttive
scientifiche. Ciò potrà senz'altro accadere quando tali direttive
manchino o quando la questione di cui si discute nel processo
concerna comunque un aspetto del trattamento che esuli dal tema
dell'aderenza alle ridette linee guida.
13.
Resta, infine, da esaminare il tema più nuovo ed oscuro introdotto
dalla nuova disciplina, quello della distinzione tra colpa lieve e
colpa grave.
E'
intanto da escludere senz'altro che si sia configurata un'esimente.
Infatti, non si è in presenza di una giustificazione che trovi la
sua base in istanze germinate in altre parti dell'ordinamento
giuridico. Nè può pensarsi ad una scusante, cioè ad una causa di
esclusione della colpevolezza.
Il
legislatore ha evidentemente utilizzato lo strumento costituito dal
modellamento della colpa che, come si è visto, si rinviene nella
tradizione penalistica italiana proprio in tema di responsabilità
medica; e che si riscontra pure in molti ordinamenti stranieri. Si è
quindi scelto di distinguere colpa lieve e colpa grave.
La
nuova normativa non ha definito le due figure, nè ha tratteggiato la
linea di confine tra esse; e d'altra parte non vi sono elementi per
ritenere che si sia voluto far riferimento a categorie estranee alla
tradizione penalistica nazionale, quale si esprime nella già evocata
giurisprudenza.
L'assenza
di una definizione legale complica senza dubbio le cose.
L'esperienza
giuridica insegna che, quando una categoria giuridica si scompone in
distinte configurazioni, l'interprete si trova solitamente ad
affrontare complesse questioni che riguardano il tratteggio dell'area
di ciascuna figura e la collocazione nell'uno o nell'altro
contenitore concettuale di comportamenti che si trovano in una
sfumata zona grigia sita ai margini del metaforico segno di confine.
Tale compito si annunzia particolarmente arduo in un ambito come
quello di cui ora ci si occupa. Intanto, si è al cospetto del lato
soggettivo del reato, quello che per sua natura maggiormente sfugge
all'umana comprensione, che assai spesso non mostra clamorosi segni
di sè e chiede al giudice l'immane compito di scorgere e ponderare
segni, indizi impalpabili dai quali inferire l'atteggiamento
interiore. La difficoltà diviene massima nell'ambito della colpa,
figura soggettiva d'impronta marcatamente normativa, priva di
contenuto psicologico: qui, in fin dei conti, tutto si risolve nella
valutazione che il giudicante esprime. Dunque, il peso
dell'apprezzamento tecnicamente "discrezionale" è massimo.
Naturalmente,
il giudizio sulla gravità della colpa non è per nulla estraneo
all'esperienza giuridica penalistica. Esso è imposto dall'art. 133
cod. pen. che prevede che la misura della pena debba essere
commisurata anche al grado della colpa, ma non fornisce alcuna
indicazione sui criteri che debbono presiedere a tale delicata
valutazione. La graduabilità della colpa si desume altresì
dall'art. 43 c.p. e art. 61 c.p., n. 3 che configurano la colpa
cosciente come un grado particolare e non come una figura autonoma di
colpa. La materia è scarsamente approfondita sia in dottrina che in
giurisprudenza, soprattutto a causa dell'opinione diffusa che il
giudizio sulla colpa e sulla graduazione della pena sfugga ad una
analisi razionale fondata su basi logiche e sia alimentato
prevalentemente da valutazioni su base intuitiva, che riguardano
elementi emotivi, la personalità dell'agente e l'atteggiamento nei
confronti degli interessi in gioco. Ciò nonostante nella riflessione
dottrinale si rinvengono utili e sostanzialmente concordi
indicazioni.
Si
osserva che, poichè la colpa costituisce la violazione di un dovere
obiettivo di diligenza, un primo parametro attinente al profilo
oggettivo della diligenza riguarda la misura della divergenza tra la
condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla
base della norma cautelare cui ci si doveva attenere.
Occorrerà
cioè considerare di quanto ci si è discostati da tale regola. Così,
ad esempio, occorrerà analizzare di quanto si è superato il limite
di velocità consentito; o in che misura si è disattesa una regola
generica di prudenza. Occorrerà altresì considerare quanto fosse
prevedibile in concreto la realizzazione dell'evento, quanto fosse in
concreto evitabile la sua realizzazione.
Vi
è poi nel grado della colpa un profilo soggettivo che riguarda
l'agente in concreto. Si tratta cioè di determinare la misura del
rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni
dell'agente. Quanto più adeguato il soggetto all'osservanza della
regola e quanto maggiore e fondato l'affidamento dei terzi, tanto
maggiore il grado della colpa. Il quantum di esigibilità
dell'osservanza delle regole cautelari costituisce fattore importante
per la graduazione della colpa. Ad esempio, per restare al nostro
campo, l'inosservanza di un norma terapeutica ha un maggiore
disvalore per un insigne specialista che per comune medico generico.
Per
contro il rimprovero sarà meno forte quando l'agente si sia trovato
in una situazione di particolare difficoltà per ragioni quali, ad
esempio, un leggero malessere, uno shock emotivo o un'improvvisa
stanchezza.
Altro
elemento di rilievo sul piano soggettivo è quello della motivazione
della condotta. Come si è già accennato, un trattamento terapeutico
sbrigativo e non appropriato è meno grave se compiuto per una
ragione d'urgenza. Infine, un profilo soggettivo è costituito dalla
consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi,
dalla previsione dell'evento. Si tratta della colpa cosciente, che
rappresenta la forma più prossima al dolo.
Peraltro,
non sempre ed anzi di rado la valutazione della colpa è fondata su
un unico indicatore. Ben spesso coesistono fattori differenti e di
segno contrario. In tale caso si ritiene che il giudice debba
procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un
criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che
viene compiuto in tema di concorso di circostanze. L'analisi
comparativa diviene ancora più complessa quando si presenti il
concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima.
Nella
giurisprudenza non si rinvengono indicazioni analitiche circa i
fattori di graduazione della colpa, ma solo riferimenti impliciti o
appena accennati alla distanza tra la condotta tenuta e quella
pretesa, alla misura della prevedibilità dell'evento.
14.
La valutazione di cui si parla, normalmente altamente
"discrezionale", assume ora, nell'ambito della
responsabilità medica, un peso diverso, estremo. Essa segna l'essere
o il non essere del reato. Dunque, non si tratta più di graduare, ma
di tentare di definire con qualche precisione il cruciale confine che
determina l'estensione dell'illecito. Si tratta di sfuggire, per
quanto possibile, alla tentazione di ricorrere a sinonimi, ad
artifici retorici, ad itinerari argomentativi circolari, tautologici;
ed occorre provare ad aggiungere, per quanto possibile, qualcosa di
definito, oggettivo e pertinente a ciò che l'idea di gravità del
rimprovero intuitivamente implica.
Il
panorama normativo non fornisce aiuto concreto. In diverse norme
compare l'evocazione della colpa grave, senza che segua alcuna
definizione che possa ritenersi anche solo limitatamente pertinente
al contesto. Per contro, qualche indicazione può essere fornita
propria dalla già evocata giurisprudenza di questa Corte suprema.
Come
si è visto, per un lungo periodo si è ritenuto che la
responsabilità colposa del sanitario potesse configurarsi solo in
caso di macroscopica violazione delle regole più elementari dell'ars
medica: la plateale ignoranza o l'altrettanto estrema assenza di
perizia nell'esecuzione dell'atto medico. Naturalmente, in casi di
tale genere non vi può essere dubbio sulla gravità della colpa.
Tuttavia
tale definizione appare riduttiva. Essa si confronta con la marcata
violazione delle regole basilari e traccia la figura di un terapeuta
radicalmente inadeguato rispetto al suo ruolo. Tuttavia, occorre
considerare che lo stato attuale della medicina appare assi più
complesso e sofisticato: la valutazione sull'adeguatezza
dell'approccio terapeutico non può essere realisticamente rapportata
a poche, essenziali regole di base. Al contrario, si assiste al
proliferare di complesse strategie diagnostiche e terapeutiche,
governate da "istruzioni" articolate, spesso tipiche di
ambiti specialistici o superspecialistici. In tali contesti sarebbe
riduttivo discutere di gravità della colpa con riguardo alle sole
regole basilari. Al contrario, l'entità della violazione delle
prescrizioni va rapportata proprio agli standard di perizia richiesti
dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, In mancanza, da
corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà
il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la
colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando
si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire
appropriato definito dalle standardizzate regole d'azione. Attraverso
tale raffronto la ponderazione demandata al giudice acquisisce una
misura di maggiore determinatezza o, forse, solo di minore vaghezza.
Infatti
non può essere taciuto che, per quanto ci si voglia sforzare di
congegnare la valutazione rendendola parametrata a dati oggettivi, a
regole definite, e quindi non solo intuitiva, resta comunque un
ineliminabile spazio valutativo, discrezionale, col quale occorre
fare i conti.
L'indicato
criterio generale non appare incompatibile con la nuova normativa. La
novella, infatti, come si è visto, si riferisce ad un terapeuta che
si sia mantenuto entro l'area astrattamente, genericamente segnata
dalle accreditate istruzioni scientifiche ed applicative e tuttavia,
nel corso del trattamento, abbia in qualche guisa errato
nell'adeguare le prescrizioni alle specificità del caso trattato.
Qui, verosimilmente, per misurare il grado della colpa sarà
scarsamente concludente il raffronto con le regole standardizzate,
con le linee guida, che si assumono rispettate nella loro
complessiva, generica configurazione. Si può ragionevolmente
affermare che, in tale situazione, la colpa assumerà connotati di
grave entità solo quando l'erronea conformazione dell'approccio
terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di
adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle
condizioni del paziente.
Discorso
non dissimile può esser fatto nel caso in cui il terapeuta si
attenga allo standard generalmente appropriato per un'affezione,
trascurando i concomitanti fattori di rischio o le contingenze che
giustifichino la necessità di discostarsi radicalmente dalla
routine. In tale situazione potrà parlarsi di colpa grave solo
quando i riconoscibili fattori che suggerivano l'abbandono delle
prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non
lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un
intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare
condizione del paziente.
E'
chiaro che la ponderazione sulla gravità della colpa, nelle
situazioni descritte sopra in coerenza con la conformazione della
nuova disciplina legale, tende ad allontanarsi dal piano delle regole
oggettive e standardizzate per concentrarsi su differenti criteri di
valutazione. Si tratta di compiere un apprezzamento basato sulle
conoscenze scientifiche ed al contempo marcatamente focalizzato sulle
particolarità del caso concreto.
Gli
strumenti concettuali per muoversi su tale terreno sono quelli della
tradizione. Invero non si potrà mancare di individuare le
caratteristiche dell'atto medico, la sua complessità; e di definire
la figura di professionista, l'agente modello cioè, adeguatamente
qualificato per gestire lo specifico rischio terapeutico; e di
comprendere se l'agente concreto si sia altamente discostato dallo
standard di qualità dell'agire terapeutico che il professionista
archetipico esprime regolarmente. Si tratta del classico modello
dell'homo eiusdem professionis et condicionis, di un professionista,
cioè, che opera al livello di qualificazione dell'agente concreto e
che esprime un modo di operare appropriato, tipico. In breve, ci si
sposta sul terreno della colpa propriamente generica e si utilizza lo
strumento di analisi dell'agente modello, accreditato sia in dottrina
che nella prassi. A tale riguardo occorre chiarire che questa Corte
suprema non ha alcuna ragione per prender parte alla disputa teorica
tra quanti preferiscono accreditare un modello di valutazione della
condotta basato sulle regole e procedure scientifiche qualificate,
nel segno delle oggettività e della determinatezza e quanti, invece,
preferiscono concepire un giudizio basato sul raffronto con la figura
archetipica e quindi inteso a valorizzazione le componenti più
soggettive della colpa. L'enorme compito che grava sul giudice lo
induce senza riserve o incertezze ad un approccio eclettico: si usano
gli strumenti di analisi appropriati alla concreta situazione
probatoria del processo.
A
tali generali indicazioni di metodo si devono aggiungere altre più
specifiche e forse anche più decisive. Per articolare un giudizio
sulla colpa ispirato al canone del rimprovero personale si dovrà
porre speciale attenzione alle peculiarità del caso concreto; ci si
dovrà dedicare a considerare i tratti della specifica vicenda, in
linea con le istanze che si sono espresse nella recente
giurisprudenza di legittimità e che sono state prima sintetizzate.
Allora,
non si potrà mancare di valutare la complessità, l'oscurità del
quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le
informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della
situazione data. Neppure si potrà trascurare la situazione nella
quale il terapeuta si trovi ad operare: l'urgenza e l'assenza di
presidi adeguati, come si è esposto, rendono difficile anche ciò
che astrattamente non è fuori dagli standard. E quanto più la
vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata
dall'impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a
considerare lieve l'addebito nei confronti del terapeuta che, pur
uniformandosi ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di
produrre un trattamento adeguato e determini la negativa evoluzione
della patologia.
15.
Occorre infine chiarire quale influenza abbia la nuova normativa sul
caso in esame. Si pone un problema di diritto intertemporale che
trova piana regolamentazione alla luce della disciplina legale. Non
pare dubbio, infatti, che la riforma abbia determinato la parziale
abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le
professioni sanitarie ed, in particolare, per quel che qui interessa,
di quella di cui all'art. 589 cod. pen..
Come
si è visto, la restrizione della portata dell'incriminazione ha
avuto luogo attraverso due passaggi: l'individuazione di un'area
fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida;
e
l'attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole
condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell'attuazione in
concreto delle direttive scientifiche. Insomma, nell'indicata sfera
fattuale, la regola d'imputazione soggettiva è ora quella della
(sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante
Tale struttura della riforma da corpo ad un tipico caso di abolitio
criminis parziale. Si è infatti in presenza di norma incriminatrice
speciale che sopravviene e che restringe l'area applicativa della
norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in
rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella
successiva restringe l'area del penalmente rilevante individuata da
quella anteriore, ritagliando implicitamente due sottofattispecie,
quella che conserva rilievo penale e quella che, Invece, diviene
penalmente irrilevante. Tale ultima sottofattispecie è propriamente
oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per controprova,
si guardano le cose sul piano dei valori: il legislatore ha ritenuto
di non considerare soggettivamente rimproverabili e quindi penalmente
rilevanti comportamenti che, per le ragioni ormai più volte
ripetute, presentano tenue disvalore.
Il
parziale effetto abrogativo, naturalmente, chiama in causa la
disciplina dell'art. 2 c.p., comma 2, e quindi l'efficacia
retroattiva dell'innovazione. Tale ordine di idee trova conforto
nella giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte: si
è infatti condivisibilmente affermato che il fenomeno
dell'abrogazione parziale ricorre allorchè tra due norme
incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di
genere a specie (Sez un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez.
Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607).
Invero,
quando ad una norma generale subentra una norma speciale "ci si
trova in presenza di un'abolizione parziale, perchè l'area della
punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta,
rimanendone espunti tutti quei fatti che, pur rientrando nella norma
generale venuta meno, sono privi degli elementi specializzanti. Si
tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e
quindi restano assoggettati alla regola dell'art. 2 c.p., comma 2,
anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può
ravvisarsi una parziale continuità" (Sez. Un. 26 marzo 2003,
Giordano, cit.).
16.
Ne discende che nel caso in esame la vicenda illecita dovrà essere
nuovamente esaminata dalla Corte d'appello. Infatti, come emerge
esplicitamente dalla sentenza impugnata, il giudizio in ordine alla
colpa si è incentrato proprio sul tema delle linee guida e delle
prassi terapeutiche, nonchè sulla loro osservanza da parte del C..
Si è discusso se esistessero direttive scientificamente accreditate
in materia, pertinenti alle modalità di esecuzione dell'intervento
ed in particolare alla profondità dell'Inserimento dello strumento
chirurgico. Si è pure dibattuto se le prescrizioni in questione
fossero rigide ovvero elastiche, tanto che la questione ha formato
oggetto di specifico motivo di ricorso, incentrato sui ritenuto
travisamento delle indicazioni espresse al riguardo in un documento
scientifico.
Ne
consegue che il giudice di merito dovrà stabilire se il fatto si
collochi nella sottofattispecie abrogata o in quella ancora vigente.
L'indagine
si muoverà con le cadenze imposte dalla riforma. Posto che
l'innovazione esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da
colpa lieve che si collochino all'interno dell'area segnata da linee
guida o da pratiche mediche scientificamente accreditate, il caso
dovrà essere riesaminato per determinare se esistano direttive di
tale genere afferenti all'esecuzione dell'atto chirurgico in
questione. Nell'affermativa, si dovrà accertare se l'intervento
eseguito si sia mosso entro i confini segnati da tali
raccomandazioni. In tale eventualità dovrà essere pure chiarito se
nell'esecuzione dell'atto chirurgico vi sia stata colpa lieve o
grave. Ne discenderà l'esistenza o meno dell'elemento soggettivo del
reato alla stregua della normativa sopravvenuta.
Altra
sentenza sull’argomento:
Cassazione
penale, sez. IV, 11 marzo 2013, n. 11493.
La
Sezione IV della Suprema Corte ha ritenuto che, ai fini
dell’accertamento della responsabilità del medico, la limitazione
della responsabilità in caso di colpa lieve, introdotta dall’art.
3 della legge n. 189 del 2012, opera soltanto per le condotte
professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia,
ma non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o
imprudenza.
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