di Filippo Lombardi
TRIBUNALE MILANO, G.M. LA ROCCA,
SENT. N. 13380/2012
Il caso
A
seguito della condanna inflitta al Sallusti per la precedente diffamazione
commessa nei confronti del Giudice Cocilovo, il Magistrato di Sorveglianza del
Tribunale di Sorveglianza di Milano emetteva un’ordinanza con cui l’imputato
veniva ammesso alla detenzione domiciliare da scontare presso la propria
abitazione. In data 1° dicembre 2012, la predetta ordinanza veniva notificata
al Sallusti, il quale veniva accompagnato presso la propria abitazione dagli
ufficiali di polizia giudiziaria.
Già
nella conferenza stampa del giorno precedente, l’imputato aveva rivelato la
propria contrarietà ad essere sottoposto alla citata misura di detenzione,
poiché ritenuta ingiusta nei confronti degli altri detenuti, i quali si trovano
nelle carceri per scontare pene per gli stessi fatti commessi dal giornalista.
Dunque, questi si esprimeva nel senso di non avere la minima intenzione di
sottoporsi alla detenzione domiciliare, puntualizzando che la motivazione non
fosse da scorgere nell’intento di ribellione rispetto al provvedimento
dell’Autorità, ma nei motivi appena citati.
Nel
giorno in cui l’ordinanza veniva eseguita, l’imputato manifestava prontamente
le proprie remore dinanzi agli ufficiali di p.g., lasciando intuire che fosse
prossimo il gesto di allontanarsi dall’abitazione. A tali manifestazioni,
seguiva il fatto: il Sallusti lasciava la propria abitazione, accedendo alla
pubblica via, commettendo prima facie
il reato di cui all’articolo 385 del codice penale, vale a dire il delitto di
evasione.
Durante
il processo, svoltosi con rito direttissimo dinanzi al Giudice Monocratico del
Tribunale di Milano, il pubblico ministero riqualificava il fatto come tentata
evasione.
La decisione del Giudice
Monocratico
La
fattispecie concreta non è sussumibile nel delitto di evasione, nemmeno nella
sua forma tentata. Il tentativo, infatti, presuppone atti univoci e idonei a produrre
l’evento offensivo del bene giuridico protetto
dalla norma. Il Giudice rimarca,
al contrario, come non sussista l’idoneità degli atti, stante la presenza delle
forze dell’ordine sul posto.
Dunque,
molteplici sono i punti evidenziati nella sentenza dal Giudice, il quale
richiama diverse massime della giurisprudenza di legittimità a conforto della
propria decisione. I principali nodi risolutivi sono i seguenti:
I)
il delitto di evasione si perfeziona nel momento in cui il reo lascia il luogo
in cui è obbligato a rimanere, allontanandosi da esso in modo da allentare
definitivamente la restrizione della libertà a cui è sottoposto, a nulla
valendo la durata della condotta illecita o la distanza percorsa. Fondamentale
è, dunque, la lesione del bene giuridico tutelato dall’articolo 385 cit., che è
l’interesse a che la restrizione della libertà inferta al detenuto, derivante
da un provvedimento dell’Autorità, sia effettivamente rispettata. Il delitto si
configura come reato proprio, di evento in senso naturalistico, e a forma
libera.
II)
alla condotta obbiettivamente considerata, va aggiunto il dolo generico, cioè
la consapevolezza che il proprio comportamento offenda il bene giuridico
tutelato dall’ordinamento e la volontà di produrre tale esito, senza che
rilevino i motivi interiori che danno origine alla condotta vietata.
III)
il caso di specie pecca di offensività. Il principio di offensività richiede
che la condotta, oltre a trascendere il foro interiore dell’agente (principio
di materialità), deve in concreto mettere a repentaglio o causare una lesione
effettiva all’interesse protetto dalla norma penale. L’offensività si
concretizza quando si verifica il danno o il pericolo, quest’ultimo a sua volta
inteso come alta probabilità che si verifichi il danno. La fattispecie concreta
sarebbe stata rispettosa del principio di offensività qualora l’allontanamento
del soggetto dal luogo di detenzione si fosse concretizzato in modo da svilire
in maniera nitida le esigenze di restrizione della libertà personale e
l’autorità del provvedimento disatteso. Verificandosi in presenza degli agenti
di p.g., la condotta è rimasta priva del connotato offensivo e dunque non può
né dirsi che sia stato leso il bene giuridico protetto, né tantomeno che esso
sia stato messo in pericolo attraverso atti idonei a lederlo.
IV)
il Giudice rammenta poi l’operatività del principio di offensività: in un primo
momento, esso opera al livello della normazione, vale a dire nel momento in cui
il Legislatore crea la norma. Ciò vuol dire che il Legislatore deve creare
fattispecie che possano tradursi, sul piano fattuale, in ipotesi offensive
degli interessi giuridici tutelati dal ramo penale. In secondo luogo, esso
opera al livello ermeneutico, da ciò discendendo che la norma deve essere
quantomeno suscettibile di una interpretazione, da parte degli operatori del
diritto, in modo conforme al principio dell’offensività. Nel caso in cui non si
rinvenga tale principio in alcuna delle due fasi, la norma è suscettibile di
vaglio costituzionale, poiché il principio di offensività è, per consolidata
giurisprudenza, rinvenibile agli articoli 13, 25, 27 della Carta Costituzionale.
Inoltre, stanti le oramai consolidate interpretazioni dottrinali e
giurisprudenziali, l’assenza di offensività agisce già al livello del fatto
tipico: vale a dire che non può esistere il fatto tipico non offensivo.
L’assenza di offensività, in altre parole, fa venir meno lo stadio della
tipicità. Di conseguenza, la formula assolutoria è “il fatto non
sussiste”.
Chi
scrive vuole sottolineare come il Giudice si limiti giustamente a parlare di
tentativo inidoneo e non di reato impossibile ex art. 49 comma 2 c.p., il quale
si verifica, per giurisprudenza oramai consolidata, o quando vi sia
l’inesistenza dell’oggetto materiale in
rerum natura (non accontentandosi la Suprema Corte, contrariamente a quanto
asserito da autorevole dottrina, della mancanza temporanea della cosa nel luogo
di compimento del tentato delitto) o quando vi sia l’inidoneità assoluta,
intrinseca, originaria della condotta a conseguire l’evento. L’inidoneità deve
essere dovuta alla assoluta inefficienza causale o alla totale inadeguatezza
del mezzo usato, e non deve essere possibile il verificarsi dell’evento,
nemmeno come sviluppo eccezionale. La valutazione dell’idoneità deve essere
effettuata con prognosi ex ante,
condotta su base parziale, cioè tenendo in considerazione quanto conoscibile o
conosciuto dal soggetto agente durante l’atto criminoso. L’analisi, dunque, non
deve essere effettuata ex post, in
quanto in tal modo ogni attività criminosa non sfociata in un evento darebbe
sempre origine ad un tentativo inidoneo o ad un reato impossibile e mai ad un
tentativo punibile, né ex ante su
base totale, come suggerisce autorevole ma minoritaria dottrina.
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