giovedì 4 ottobre 2012

Assunzione lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno: del reato ne risponde il gestore di fatto.


Cassazione penale, sez. I, 21 maggio 2012, n. 19201.

Per rimanere aggiornati su tutte le ultime sentenze della Cassazione cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ------->
Nella sentenza in commento la Suprema Corte afferma che a rispondere del reato di occupazione di lavoratori dipendenti stranieri privi del permesso di soggiorno (art. 22 del D.Lgs. n. 286 del 1998) debba essere il gestore di fatto di un esercizio commerciale formalmente intestato ad altri (nella specie al coniuge), quando la prestazione lavorativa del dipendente extracomunitario si svolga nel suo interesse e sotto la sua direzione.
Di seguito il  testo della sentenza

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con sentenza resa il 25 gennaio 2010 il Tribunale di S. Maria Capua Vetere dichiarava Tizio colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12, contestatogli per avere l'imputato, quale titolare di esercizio commerciale, occupato alle proprie dipendenze una lavoratrice ucraina sprovvista di permesso di soggiorno, e lo condannava alla pena di mesi due di arresto ed Euro 3500,00 di ammenda, sostituendo la pena detentiva con quella pecuniaria; fatti accertati in Calvi Risorta, il 28.12.2006. Avverso la sentenza di prime cure proponeva appello l'imputato sostenendo: di non essere il titolare del bar presso il quale era stata controllata la dipendente extracomunitaria; che titolare dell'esercizio era la moglie; che detta circostanza era stata provata nel processo con esibizioni documentali e con la testimonianza del teste Mevio.
La Corte di appello di Napoli, con pronuncia del 19 luglio 2011, confermava la decisione di primo grado.

A sostegno delle decisione osservava il giudice territoriale che la norma incriminatrice contestata punisce colui che procede alla stipulazione del rapporto di lavoro con il cittadino extracomunitario, mentre non ha rilevanza alcuna la collocazione del contraente nell'azienda ove l'attività lavorativa negoziata deve essere svolta.
Nel caso in esame, rilevava la corte di merito, risultava provato, attraverso la testimonianza del m.lllo dei cc. da anni in servizio sul posto, che l'imputato era il reale gestore del bar soltanto formalmente intestato al coniuge e che lo stesso era la persona costantemente presente nell'esercizio commerciale e comunemente considerato nella collettività municipale come il vero proprietario. 2. Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, assistito dal difensore di fiducia, illustrando due motivi di impugnazione.
2.1 Denuncia con il primo di essi la difesa ricorrente, violazione della norma incriminatrice e di quelle in materia di lavoro ed assunzione di cittadini extracomunitari, sul rilievo che non risulta provato, nel processo, che l'imputato abbia assunto la dipendente e che la decisione di colpevolezza si fonda, illegittimamente, sulla mera presunzione di una titolarità effettiva dell'esercizio commerciale nonostante sia provata documentalmente una titolarità diversa.
Nè, ad avviso della difesa, la testimonianza del m.llo dei CC. può superare il dato documentale secondo cui l'imputato non è titolare dell'esercizio ove era occupata la dipendente ucraina, imputato che non può assumere detta titolarità solo perché colto nello svolgimento di una attività di collaborazione con la moglie nella gestione del bar.
2.2 Col secondo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione alle prove acquisite ed al reato contestato, sul punto in particolare deducendo che non è stata provata la condotta riferibile all'imputato relativa alla definizione del contratto di lavoro con la dipendente, al pagamento del salano e con riferimento ad ogni altro aspetto del rapporto lavorativo, prova desunta da presunzioni, in quanto tali illegittime e comunque irrituali in costanza di una realtà documentale contraria all'assunto dei giudicanti in ordine al ruolo dell'imputato nell'esercizio commerciale.
3. Il ricorso è infondato.
3.1 Giova prendere le mosse dal testo normativo il quale, come è noto, per quanto di interesse nel presente giudizio, al comma 10 vigente all'epoca dei fatti (ma l'attuale comma 12, novellato dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, nulla ha su tale punto specifico modificato nella descrizione della condotta) dispone: "il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito.... ". La difesa istante in relazione alla figura di reato come innanzi tipizzata pone la questione giuridica della identificazione della persona che il legislatore ha inteso penalizzare e, pertanto, di cosa debba intendersi a tal fine per "datore di lavoro". La tesi difensiva è nel senso, così sembra di capire, che il datore di lavoro punito dalla norma di riferimento sia il soggetto che provvede all'assunzione del lavoratore straniero, e che nello specifico non è stato provato che a concludere il contratto di assunzione sia stato l'imputato.
3.2 L'argomento appena riportato non è coerente con la normativa di riferimento e lo stesso, inoltre, mal interpreta l'insegnamento di questa Corte.
In primo luogo osserva il Collegio che la norma incriminatrice punisce, prescindendo pertanto dalla fase specifica e precipua dell'assunzione, "chi occupa alle proprie dipendenze", condotta questa la quale, come reso palese dal significato letterale delle parole utilizzate, fa riferimento all'occupazione lavorativa, condotta che può realizzarsi con l'assunzione, ma non soltanto con essa. Ai sensi di legge risponde infatti del reato in esame non soltanto chi assume il lavoratore straniero che si trovi nelle condizioni indicate dalla fattispecie incriminatrice, bensì anche chi, pur non avendo provveduto direttamente ad essa (assunzione), se ne avvalga tenendo alle sue dipendenze, eppertanto occupando più o meno stabilmente, l'assunto (Cass., Sez. 1^, 18/05/2011, n. 25615). E tanto ha inteso questa Corte affermare con numerose sue pronunce (Cass., Sez. 1^, 22.6.2005 n. 34229 e da Cass., Sez. 1^, 8.7.2008 n. 29494) le quali appaiono concordi nell'affermare il principio di diritto che la norma penale in esame punisce sia chi procede all'assunzione della manodopera in situazione di illegalità quanto alle condizioni di permanenza nel nostro Paese, sia chi tale manodopera comunque occupi alle sue dipendenze giovandosi dell'assunzione personalmente non effettuata, dovendosi attribuire rilievo all'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa assai più che al momento della costituzione.
3.3. Orbene, nel caso di specie il ricorrente è stato ritenuto colpevole del reato ascrittogli sulla base della testimonianza del m.llo dei CC, da tempo in servizio presso il comune ove le condotte sono state consumate, il quale ha riferito che l'imputato è il reale gestore del bar ove l'occupata straniera lavorava, che nella considerazione sociale l'imputato è considerato il reale proprietario del bar medesimo, che nel bar continuativamente opera, lavora e gestisce l'esercizio l'imputato.
Di qui la prova, del tutto logicamente dedotta dai giudici di merito, che l'intestazione formale del bar non corrisponde alla realtà sostanziale (ed anche giuridica, vertendosi in ipotesi di chiara simulazione soggettiva del rapporto amministrativo, della licenza di commercio e degli atti connessi) e che comunque, di fatto, chi si è avvalso dell'attività lavorativa della dipendente extracomunitaria senza permesso di soggiorno, è stato l'imputato, dato quest'ultimo essenziale, secondo l'insegnamento di questo giudice di legittimità, per ritenere riferibile al Tizio l'occupazione lavorativa della dipendente (Cass. pen., Sez. 1^, 25/02/2010, n. 11048). Il ricorso in esame, conclusivamente, deve essere rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: risponde del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22 comma 12il gestore di fatto di un esercizio commerciale formalmente intestato al coniuge, che occupi un dipendente extracomunitario sprovvisto di permesso di soggiorno, dappoiché e quando la prestazione lavorativa del dipendente extracomunitario si svolge nel suo interesse e sotto la sua direzione.
3.4 Al rigetto dell'impugnazione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 c.p.p..
 P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 aprile 2012. Depositato in Cancelleria il 21 maggio

Nessun commento:

Posta un commento