Appunti di diritto penale
di Filippo Lombardi
1.
IMPUTABILITA’ COME PRESUPPOSTO DELLA RIMPROVERABILITA’ DEL REO
L’imputabilità,
disciplinata dagli articoli 85 e seguenti del codice penale, si traduce nella
capacità di intendere e di volere della persona. Trattasi di due distinte
capacità che devono sussistere nello stesso tempo, in quanto la capacità di
intendere consta del fatto che la persona ha coscienza dei significati delle
proprie azioni, degli impulsi provenienti dalla realtà circostante, e del loro
modo di relazionarsi: in particolare, la persona comprende gli effetti delle
proprie azioni sulla realtà naturalistica e nei confronti degli altri
consociati. La capacità di volere è, invece, capacità di autodeterminarsi
attraverso l’utilizzo della forza psichica per scegliere tra motivi antagonisti
e portare avanti l’azione prescelta. Quando tali capacità mancano, totalmente o
parzialmente, il soggetto agente è, rispettivamente, non imputabile totale o
parziale. Nel caso di parziale imputabilità, si applicherà la pena prevista per
il reato compiuto, diminuita fino ad un terzo, alla quale andrà ad aggiungersi,
se il reo è pericoloso socialmente in base al controllo ex art. 133 comma II
(capacità a delinquere proiettata nel futuro), una misura di sicurezza. Nel
caso di totale assenza di imputabilità, la pena non è irrogabile, e l’unica
reazione dell’ordinamento potrà constare della sola misura di sicurezza, secondo
i parametri prima indicati. In dottrina si sosteneva che l’imputabilità non
fosse presupposto della colpevolezza, poiché anche il non imputabile agisce con
colpa o dolo (Antolisei). In realtà, tale concezione è stata largamente
superata in quanto gli elementi soggettivi suindicati, qualora reggano l’azione
del non imputabile, diventano in realtà dolo e colpa atipici o, come dir si
voglia, pseudo-dolo e pseudo-colpa. Essi infatti si atteggiano, rispettivamente,
come cieco finalismo e come imprudenza in senso lato.
L’imputabilità finisce
quindi per costituire la prima base per il giudizio di colpevolezza, in quanto
incide sulla possibilità di rimproverare l’agente per la sua condotta, distante
dal paradigma di legalità. Una questione che arguta dottrina ha sottoposto
all’attenzione del pubblico più curioso riguarda la possibilità di ottenere,
per mancanza di imputabilità, la formula assolutoria “… perché il fatto non
sussiste”. Con una valutazione prima
facie, sembra quasi applicabile tale formula se si pensa che a difettare
nel suo senso tecnico ordinario è proprio l’elemento soggettivo (si parlava
pocanzi di pseudo-dolo e pseudo-colpa), che è elemento del fatto tipico, la cui
mancanza dà appunto origine alla insussistenza del fatto, prima di tutto. Ma
con una valutazione più approfondita si comprende come il difetto di elemento
soggettivo sia una conseguenza dell’incapacità di intendere e di volere,
rilevando quest’ultima (e quindi l’imputabilità) come primo scoglio di
valutazione. In altri termini: il soggetto non è punibile perché non
imputabile, ergo l’elemento
soggettivo è imperfetto. Di talché l’elemento primordiale su cui fondare il
giudizio di responsabilità penale è proprio l’imputabilità, elemento della colpevolezza.
Ciò è confermato dal comma primo dell’art. 530 c.p.p. che fa specificamente
riferimento all’assoluzione “perché il
reato è stato commesso da persona non imputabile”, prevedendo quindi una
formula assolutoria ad hoc. La non imputabilità,
come ogni causa idonea ad escludere la colpevolezza, incide sulla possibilità,
per la pena, di esplicare la sua funzione rieducativa, in quanto solo il
soggetto (almeno parzialmente) capace di intendere e di volere può comprendere
la riprovevolezza del proprio comportamento e accettare l’intervento punitivo
dell’ordinamento.
2. RAPPORTI TRA IMPUTABILITA’
(art. 85 c.p.), DOLO (art. 43 co. I c.p.) E SUITAS (art. 42 co. I c.p.)
I
concetti di coscienza e volontà sono ricorrenti nell’ordinamento penale, poiché
ripresi da più norme. Anche l’imputabilità, come già si è notato, si fonda
sulla coscienza (capacità di intendere) e sulla volontà (capacità di volere), e
ciò rischia di causare un overlap di nozioni tra essa e altri due importanti presupposti
del reato: il dolo e la suitas della
condotta. Si presenta la necessità di chiarire quali siano le distinzioni
doverose da fare in merito a questi tre istituti del diritto penale.
Sinteticamente, i criteri discretivi possono essere così dati: l’imputabilità
fa parte dell’alveo della colpevolezza, è capacità di intendere e di volere, la
quale rende rimproverabile il soggetto poiché egli può rendersi conto della
riprovevolezza della propria condotta e del gap tra essa e la condotta lecita:
essa si atteggia come comprensione del significato e dell’evoluzione offensiva
della propria azione o omissione. Il dolo è legame psichico tra il soggetto e
il fatto e si atteggia come conoscenza/previsione degli elementi del fatto
tipico (conoscenza se tali elementi sono già esistenti, come l’oggetto
materiale del reato e il soggetto passivo; previsione se sono futuri, come nel
caso del nesso causale e dell’evento offensivo). Il dolo, oltretutto, è
battezzabile come criterio base di imputazione del delitto, nel senso che,
salvo che sia tassativamente prevista la punizione aggiuntiva a titolo di
colpa, un delitto sarà punito sempre e solo per dolo. Nelle contravvenzioni,
invece, succede il contrario: nel silenzio del legislatore, il reato è punibile
alternativamente per colpa o dolo. La suitas, invece, è richiesta dall’art. 42
comma primo, che richiede ai fini della punibilità che l’azione o l’omissione
siano commesse con coscienza e volontà. Tale binomio pone le basi
dell’appartenenza della condotta all’agente. Quest’ultima, cioè, proverrà
materialmente dal reo, e costituirà il c.d. fatto proprio. Tale considerazione
è utile per comprendere il senso delle parole della Consulta nella sentenza 364
del 1988, quando i Giudici parlano della responsabilità personale da intendersi
come responsabilità per fatto proprio e colpevole. Il fatto verrà individuato
come proprio quando appartiene all’agente, poiché è eziologicamente connesso a
quest’ultimo ed egli l’ha commesso in maniera cosciente e con volontà. La
suitas veniva basata sulla presenza del c.d. impulso psichico reale della
volontà, considerandosi esclusa nei casi di: atti automatici, istintivi, di
riflesso, o condotte derivanti da distrazione o dimenticanza. Tale concezione
dovette essere aggiornata, poiché garantiva fenomeni di impunità nel caso in
cui, secondo un giudizio di ragionevolezza, tali atti potessero essere evitati
con maggiore diligenza, specialmente nei casi di distrazione o dimenticanza,
poiché si rischiava di accantonare la responsabilità colposa. Si indicò quindi
una nuova via interpretativa, che consisteva nel valutare la suitas anticipando
l’oggetto del controllo fino a vagliare atti precedenti a quelli sforniti di
impulso psichico reale. Ma anche in tal caso, si rischiava di rendere
penalmente rilevante un atto ben distante dal fatto illecito, o di incontrare
sulla propria strada ulteriori atti non coperti dalla suitas, rendendo il
controllo eccessivo, aleatorio e fuorviante. Si giunse quindi alla teoria oggi
dominante, che vede la suitas come somma
di impulso psichico reale della volontà e inerzia del volere. Cioè, la
condotta sarà considerata propria del reo non solo nel momento in cui una mente
cosciente ha fornito l’impulso al movimento corporeo (nei casi di facere o
aliud facere) o alla stasi (pura inerzia nei reati omissivi), ma anche nel caso
in cui il soggetto agente poteva in concreto evitare l’incombente assenza di
suitas secondo il senso prima descritto o comunque evitare il fatto. Ad
esempio, se un uomo dorme nel letto con il proprio figlio di pochi anni ed è
consapevole dei movimenti inconsulti che fa durante il sonno, non potrà andare
impunito nel caso in cui nulla faccia per ovviare al pericolo di colpire il
figlio durante lo stato di incoscienza e, fatalmente, finisce effettivamente
per colpirlo una notte facendolo cadere al suolo con esiti infausti. Tornando
un attimo alla locuzione “fatto proprio e colpevole”, una riflessione è
doverosa: le circostanze che escludono la suitas, come la forza maggiore, il
caso fortuito e il costringimento psichico (a cui vanno ad aggiungersi altri
fenomeni estemporanei come il malore improvviso, il sonnambulismo et similia)
certamente escludono la colpevolezza come rimprovero che sia possibile muovere all’agente,
ma prima di tutto escludono proprio il nesso di coscienza e volontà tra agente
e condotta richiesto dall’art. 42 comma primo c.p., e chi scrive appoggia
pienamente la parte della dottrina che definisce i casi di cui agli artt. 45 e
46 come cause di esclusione del fatto tipico, senza dover nemmeno giungere al
controllo circa la colpevolezza. Si può dire, per concludere in merito alle
distinzioni, che anche il non imputabile conservi un minimum di coscienza e
volontà se questa viene intesa come appartenenza dell’azione all’agente, mentre
mancherà della coscienza e volontà intesa come comprensione del gesto.
3. CAUSE DI ESCLUSIONE O
LIMITAZIONE DELL’IMPUTABILITA’
L’imputabilità
può essere esclusa o diminuita a causa dell’età, del vizio di mente, del
sordomutismo, o dell’uso di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti. Il
maggiorenne è considerato imputabile, salvo che ricorra altra causa che la
escluda, mentre il minore di anni quattordici è considerato non imputabile, e
gli si potrà applicare una misura di sicurezza se pericoloso socialmente. Il
soggetto che ha compiuto quattordici anni ma ancora minorenne dovrà essere
valutato di caso in caso dal giudice, avendo riguardo alla sua maturità
psichica e al suo grado di percezione della riprovevolezza e dell’offensività
della condotta. Se il giudice deciderà di irrogare una pena, questa sarà
diminuita fino ad un terzo. Il vizio di mente idoneo ad escludere o scemare
l’imputabilità è oggi visto non solo come patologia, cioè malattia catalogata
dalla scienza medica, ma anche come disturbo atipico della personalità
(schizoide, schizotipico, paranoide, antisociale, ossessivo compulsivo), grazie
alla sentenza 9163 del 2005 emessa dalla Cassazione a Sezioni Unite, la quale
rende rilevanti anche tali abnormità psichiche quando, per la loro rilevanza,
gravità e intensità, abbiano la capacità di incidere effettivamente sulla
capacità di intendere e di volere. Non rileva la c.d. pazzia morale, cioè il
modo di essere e di operare che riveli un’aggressività derivante dalla rabbia
nei confronti della società. In tal caso, infatti, il soggetto è lucido e ben
comprende il valore delle proprie azioni. Sono esclusi anche, ex art. 90, gli
stati emotivi e passionali, che la Giurisprudenza ritiene non idonei ad
influire sull’imputabilità, poiché sono alterazioni della psiche derivanti da
sentimenti umani normalmente gestibili e che non giustificano la rottura dei
paradigmi di legalità. La dottrina si oppone a tale tesi restrittiva poiché
ritiene che sia necessario effettuare un controllo caso per caso, onde valutare
i caratteri esteriori della condotta, tali da rivelare eventualmente
sfaccettature tipiche delle patologie mentali: si prenderebbe in
considerazione, in tal senso, anche la personalità del soggetto agente, che può
già in partenza rivelarsi debole e predisposta a sfociare all’esterno in forma
scomposta. Ugualmente escluse dalla Cassazione sono le reazioni a corto
circuito, poiché equiparate proprio agli stati emotivi e passionali. Ricordiamo
che il vizio di mente deve porsi, secondo la Giurisprudenza, come condicio sine qua non rispetto al fatto,
quindi in rapporto di causa-effetto e non di mera compresenza rispetto alla
condotta. Deve cioè accertarsi che in assenza del vizio di mente l’agente non
avrebbe tenuto quel comportamento. Ciò è importante per valutare la colpa del
non imputabile: nel caso in cui la violazione della regola precauzionale non
sia una stretta conseguenza del vizio di mente, il soggetto potrà essere
normalmente punito, mentre, qualora fosse stata sufficiente la compresenza di
vizio di mente e violazione della norma precauzionale, l’agente sarebbe
risultato sempre e comunque non punibile. Connesso a tale tematica è il caso
dell’errore del non imputabile. Anche in questo caso, si applicheranno le
normali conseguenze legate all’incapacità di intendere e di volere quando la
falsa rappresentazione della realtà abbia trovato il proprio presupposto nel
vizio di mente. Viceversa, sarà punibile (evidentemente per colpa) il soggetto
psichicamente malato che è caduto nell’errore non a causa del vizio. Anche il
sordismo, cioè la compresenza di mutismo e sordità, viene inserita tra le cause
che possono escludere la capacità di intendere e di volere, anche se
attualmente, dati i progressi della scienza, le persone affette da tale
disabilità riescono comunque a fronteggiare esperienze di vita che le rendano
psichicamente mature. Ad ogni modo, acuta dottrina ritiene che la norma si
applicherebbe solo ai sordomuti dalla nascita o da età precoce, in quanto gli
altri beneficerebbero, nel periodo in cui la disabilità non si sia ancora
manifestata, di una crescita ordinaria idonea a formare una coscienza sociale
adeguata.
4. L’INCAPACITA’ DI INTENDERE E
DI VOLERE DERIVANTE DALL’USO DI BEVANDE ALCOLICHE O ASSUNZIONE DI SOSTANZE
STUPEFACENTI.
Come
è noto, l’utilizzo di bevande alcoliche e di sostanze stupefacenti influisce
sui nostri sensi, e sulla capacità di “essere presenti a noi stessi”. Ecco
perché tale utilizzo rileva penalmente. A seconda della causa che ha originato
l’assunzione delle bevande ( il riferimento sarà sempre valido anche per l’uso
di sostanza drogante), vi potrà essere una punibilità o una non punibilità del
soggetto protagonista. L’ubriachezza, infatti, può essere fortuita o derivare
da causa di forza maggiore, può essere abituale, può assumere i connotati della
cronica intossicazione, può essere preordinata ( e tale caso è sussumibile
nella tipologia di actio libera in causa),
o può derivare da leggerezza o volontà di varcare i limiti. Se l’ubriachezza
deriva da caso fortuito o da forza maggiore ( il caso di scuola, forse l’unico
caso credibile, è l’operaio della distilleria che, a contatto con gli effluvi
alcolici, si ubriaca senza neanche realizzarlo) il soggetto che dovesse
successivamente commettere un fatto di reato andrà impunito nel caso di
incapacità totale, mentre subirà negli altri casi una pena diminuita fino ad un
terzo. L’ubriachezza abituale si pone al confine con la cronica intossicazione
da alcol: mentre la prima rivela uno stato di ebbrezza frequente ma non
costante, e quindi intervallato in concreto da casi di normalità psichica
assoluta, la seconda è una vera e propria patologia di cui l’agente è affetto,
che si sostanzia in una continua compromissione delle facoltà psichiche, senza
pause di normalità. L’ubriachezza abituale, giustamente, non è sostenuta da
alcuna possibilità di impunità, ma ciò che fa pensare a male è la presenza
dell’aggravio di pena previsto per l’ubriaco abituale, posto che con tale
aggravante si sta punendo non per il fatto ma per il modus vivendi. Tale
aggravante viene considerata una manifestazione del deprecabile diritto penale
d’autore, di cui a volte l’ordinamento penale lascia residuare tracce
inequivocabili (un altro segnale è dato dalla punibilità della pedopornografia
virtuale, su cui la dottrina ha rintracciato un’ipotesi di diritto penale
d’autore, stante il fatto che nessun bene giuridico è in concreto offeso dal
comportamento integrante il detto crimine).
L’ubriachezza
può anche essere preordinata alla commissione di un reato (art. 92 secondo
comma c.p.). Ciò vuol dire che il soggetto agente si pone in tale stato per
rimuovere quelle barriere interiori che normalmente non gli consentirebbero di
violare la legge penale. Ma può compiere tale gesto per prepararsi una scusa.
Ciò vuol dire che egli, in questo secondo caso, è già autonomamente in grado di
rimuovere i freni psichici predetti e avanzare fino al compimento del reato, ma
si pone nello stato di ubriachezza per far valere l’incapacità di intendere e
di volere al momento del fatto. L’articolo 92 comma II prevede un’aggravante se
l’ubriachezza è preordinata, e si colloca come norma speciale rispetto
all’articolo 87, che esclude l’applicabilità dell’articolo 85 ai casi in cui è
l’agente a rimuovere artificialmente e fraudolentemente la propria capacità di
intendere e di volere. Di talché, l’articolo 92 comma secondo altro non fa che
applicare il principio di cui al menzionato articolo 87, riferendosi
espressamente al caso in cui la causa della non imputabilità sia l’ubriachezza
preordinata e non altro comportamento, e prevedendo per tale caso un aggravio
di pena. Dubbi vi erano sull’elemento soggettivo da abbinare al reato compiuto
da colui che si è posto in maniera preordinata in stato di incapacità. La tesi
dominante in dottrina e in giurisprudenza ritiene che il reato sarà doloso nel
caso di corrispondenza tra programmato ed eseguito, mentre sarà colposa nel
caso in cui vi fosse divergenza tra le due fasi.
Il
principio generale della non punibilità del non imputabile, ex art. 85 cod.
pen., è scalfito dal 92 comma primo, laddove prevede che il reato commesso in
stato di ubriachezza volontaria o colpevole è punito normalmente, secondo i
normali canoni. Innanzitutto deve chiarirsi cosa si intende per ubriachezza
volontaria o colposa. La prima si ha quando il soggetto raggiunge lo stato di
ubriachezza finalisticamente: lo scopo dell’uso della bevanda alcolica è quello
di inibire i sensi e porsi nello stato di incapacità, ma senza che tale
comportamento rispecchi i canoni del comma successivo. L’ubriachezza colposa è
quella dovuta a leggerezza nel bere: la persona non vuole ubriacarsi, ma è poco
attenta alla quantità di bevanda alcolica bevuta e finisce per raggiungere tale
stato contro la propria volontà. Se l’articolo 92 comma primo consente la
normale punizione a tali soggetti, la questione complessa che si presenta è
relativa al titolo dell’addebito, cioè all’elemento soggettivo che accompagnerà
il reato. L’agente, infatti, è comunque in stato di incapacità di intendere e
di volere, e quindi ci si chiede quale sia il momento in cui andare a valutare il
tipo di elemento soggettivo. Due tesi si sono sviluppate a riguardo: la prima
fa riferimento al momento dell’attività prodromica all’ubriachezza (es. il bere
in un bar con gli amici), mentre la seconda fa leva sul momento in cui è
commesso il fatto tipico. La prima tesi consentirebbe un’eccessiva
anticipazione del penalmente rilevante, comprendendo tra gli atti punibili
quelli che sono privi di rilevanza penale. Altresì, non si potrebbe nemmeno
punire tali atti come atti preparatori, innanzitutto perché l’atto preparatorio
afferisce al tentativo, e quindi al dolo, e non ammetterebbe un’estensione tale
da comprendere l’ubriachezza colposa, ma, in secondo luogo, come da precedenti
giurisprudenziali della Corte di Cassazione, la punibilità dell’atto preparatorio
(tesi non condivisa dallo scrivente) dipende da due presupposti: che l’agente
sia arrivato ad un punto di non ritorno nella sua azione, la quale non solo non
deve poter essere compresa nella nozione di “esecuzione del fatto tipico” ma
deve rivelare allo stesso tempo un’alta probabilità che il reato verrà
commesso. Tesi dominante in dottrina rileva come l’atto preparatorio non debba
essere punito, per carenza di univocità, in quanto atti univoci possono essere
solo gli atti che si collocano nel tenore letterale della fattispecie normativa
di riferimento. Pur volendo considerare applicabile la tesi della Suprema Corte
sulla punibilità dell’atto preparatorio, sarebbe facile rilevare come
raggiungere un’ubriachezza colposamente tenga la fattispecie già ab origine
distinta dalla nozione di atto preparatorio, e raggiungere tale stato di
incapacità volontariamente non si accompagnerebbe ai presupposti richiesti
dalla Cassazione, in precedenza elencati. Un’ ulteriore critica che si può
muovere a questa tesi è relativa alla divergenza tra elemento soggettivo
correlato all’azione prodromica ed elemento soggettivo correlato al fatto
tipico: si rischierebbe di punire per dolo un reato sostanzialmente colposo, e
viceversa, facendo leva sul momento “ludico” e non su quello effettivamente
criminoso. Ecco perché si è giunti al riconoscimento di una maggiore
attendibilità della seconda tesi, relativa al vaglio dell’elemento soggettivo
durante la commissione del fatto tipico. Tale concezione ammette che un reato
sarà doloso o colposo a seconda che sia voluto o meno dall’agente nel momento
in cui lo compie. Ne consegue un profilo problematico, relativo al fatto che,
nel momento in cui il reo compie l’illecito, è incapace di intendere e di
volere, almeno parzialmente. Ecco perché nei primi tempi di applicazione della
norma (che, facile intuirlo oramai, prevede una fictio iuris, poiché considera
normalmente punibile un soggetto che può essere completamente inconsapevole di
ciò che fa) la giurisprudenza più cauta riconosceva spesso e volentieri
l’elemento soggettivo della colpa, incosciente, in quanto se fosse stata
riconosciuta la colpa cosciente, si sarebbero aperte le porte verso il
riconoscimento della possibilità di previsione dell’evento, e questo avrebbe
generato un breve step tra colpa cosciente
dolo eventuale. Successivamente, invece, la Corte di Cassazione ha
aperto i propri orizzonti verso il riconoscimento della colpa cosciente e del
dolo (normalmente, eventuale), applicando i normali canoni di valutazione
legati ai due elementi soggettivi. Ne è derivata una questione circa la
considerazione che tale approccio ermeneutico riserva alla fictio iuris. In
altre parole è necessario comprendere se l’atteggiamento della Giurisprudenza
di Legittimità è semplicemente volto all’applicazione di detta fictio, o vi è
la possibilità di rendere l’operato della Corte compatibile con il principio di
colpevolezza. A ben vedere, sembra lecita una considerazione che si pone come
tentativo di conciliare l’applicazione di tutti gli elementi soggettivi
riconosciuti dall’ordinamento penale con il parametro di cui all’art. 27 Cost.
Si
ritiene doveroso distinguere i due casi della semi-incapacità di intendere e di
volere e della incapacità totale. Nel primo caso, la psiche del soggetto agente
non è del tutto compromessa, e ciò vuol dire che residua una porzione di
lucidità mentale. Il Legislatore, attraverso la fictio iuris di cui all’art. 92
c.p., starebbe imponendo la punizione non sic et simpliciter ma
subordinatamente alla presupposizione di un dovere di ogni persona di far
prevalere la propria parte sana di psiche per evitare di cadere in
comportamenti lesivi per il prossimo. Utilizzando tale riflessione, ben si
comprende come la colpevolezza rimane valutabile al momento del fatto tipico
(seconda teoria). Tale assunto troverebbe un sostegno giurisprudenziale nella
sentenza 36190/2007 della IV sezione della Cassazione, con la quale i Giudici
di Legittimità hanno reputato lecito un contenimento della diminuzione di pena,
nel caso in cui il soggetto, parzialmente capace di intendere e di volere, date
le circostanze fattuali concrete e i rapporti con la vittima, avrebbe potuto
comprendere la riprovevolezza del proprio gesto nei confronti di quest’ultima,
ed evitare il fatto tipico. Da questa pronuncia citata si comprende come il
legislatore reputi esigibile da ogni persona l’utilizzo della propria lucidità
mentale parziale, in modo da contrastare adeguatamente gli impulsi illeciti che
possano provenire dalla “parte” incapace della psiche. Resta comunque da dire
che rintracciare la colpevolezza nel momento del fatto tipico, pur volendo
sostenere le considerazioni addotte finora, causa una forte applicazione della
fictio giuridica, poiché viene evitato un controllo in concreto (che porterebbe
alla diminuzione o all’esclusione della pena) e viene al contrario presunto che
la zona sana della mente del reo avrebbe dovuto e potuto governare
l’instabilità della restante psiche. Se il soggetto è totalmente incapace di
intendere e di volere, poiché ubriaco, la punizione è legata in maniera ancora
più salda alla funzione generalpreventiva. Il fine è quello di scoraggiare
l’abuso di bevande alcoliche quando la persona è consapevole che una volta
raggiunto lo stato di ubriachezza può seriamente mettere in pericolo terzi. Ma
la valutazione della predominante funzione generalpreventiva fa sì che si debba
per forza di cose adottare una concezione di colpevolezza in senso normativo
estesa a ricomprendere comportamenti di gran lunga precedenti alla commissione
di un fatto tipico (e quindi si ricade nell’applicazione della prima tesi
esposta – relativa alla rilevanza penale di comportamenti normalmente
irrilevanti). In sintesi, il Legislatore sta imponendo una diligenza anticipata
in capo ai consociati: essi dovranno regolare le proprie azioni, nel senso di
evitarle o moderarle in modo da renderle innocue, quando, in virtù di massime
di esperienza, esse possano portare a danneggiare l’altrui bene giuridico. La
concezione normativa della colpevolezza anticipatamente applicata sembra essere
idonea ad essere ricondotta anche al caso prima citato, relativo alla parziale
incapacità dell’agente, poiché sgombra il campo da incertezze intorno al
riconoscimento degli elementi soggettivi: potrà valutarsi senza problemi di
sorta la presenza del dolo eventuale quando il soggetto si è ubriacato
nonostante si sia rappresentato la concreta possibilità di compiere il reato, e
deliberatamente subordinando il proprio piacere personale al bene giuridico
(per forza di cose indeterminato, poiché il soggetto non è ancora un vero e
proprio soggetto agente e quindi non ha contezza degli elementi costitutivi del
reato che sta per compiere) poi risultato leso. Si tratterà di colpa cosciente
nel caso in cui il soggetto, pur prevedendo l’evento, se lo sia immaginato come
astratto, confidando nel fatto che esso non si sarebbe verificato, grazie alle
sue capacità di controllo e discernimento. Molto più complessa da applicare,
quindi, sarà la colpa incosciente, in quanto, è difficilmente immaginabile che
una persona che beve non rifletta sul fatto che il possibile abuso può causare
conseguenze infauste per se e per altri. Risulterebbe quindi utile, anche se
può apparire come una forzatura, valutare l’elemento soggettivo della colpa
come inerente a due momenti: in primis quello dell’ubriacatura, in secundis
quello del possibile reato successivo. La colpa incosciente si applicherebbe
solo qualora l’agente non volesse raggiungere lo stato di ebbrezza, e questo si
verifica per circostanze imponderabili.
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