Appunti di diritto penale
Per rimanere aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato----->
I
delitti di omicidio sono disciplinati dagli articoli 575 e seguenti del
codice penale e proteggono il bene vita del singolo individuo, bene
giuridico considerato indisponibile e irrinunciabile. L’articolo 575
disciplina il c.d. omicidio semplice, che si fonda sulla produzione
dell’evento morte di un altro uomo. La condotta può provenire da un uomo come derivare da un animale o da una cosa su cui egli ha un dovere di controllo per evitare danni a terzi.
Il soggetto passivo del reato è l’individuo nato, cioè il soggetto che,
da feto, è diventato persona attraverso il distacco totale dall’utero
materno. Se l’uccisione avviene per particolari motivi durante il parto o
subito dopo di esso, troverà applicazione l’infanticidio di cui
all’art. 578 cod. pen. (si veda, infra),
mentre se avviene nei confronti del concepito nascituro, troveranno
applicazione le norme sull’interruzione volontaria di gravidanza ( L.
194/1978). Soggetto passivo può essere anche l’umano c.d. mostruoso,
cioè con malformazioni tali da conferire sembianze distanti dal concetto
di uomo secondo il sentire comune, e secondo Mantovani anche l’umanoide, persona nata dalla bioingegneria. Alcuni Autori sono invece contrari, poiché si verificherebbe l’applicazione analogica della legge penale in peius,
in spregio del principio di tipicità. Tornando alla fattispecie base di
omicidio ( 575 c.p.), si deve rilevare come essa costituisca l’esempio
tipico del reato a forma libera, in cui è irrilevante il modo con cui
l’evento è cagionato,
essendo sufficiente che l’agente, con una propria condotta cosciente e
volontaria ( nel senso palesato dall’art. 42 comma I ) lo produca.
Irrilevante, quindi, l’errore sul nesso di causalità, il quale, secondo autorevole dottrina (Mantovani)
verrebbe in rilievo solo nei casi di reati a forma vincolata. V’è da
dire però che l’errore sul nesso di causalità viene in rilievo anche nei
reati a forma libera, nel caso di dolo colpito a mezza via dall’errore.
E’ il caso di chi reputa di aver ucciso una persona e ne occulta il
cadavere per liberarsi della prova principale dell’uccisione, ma in
realtà la vittima era viva e muore per soffocamento derivante dalla
sepoltura nella terra. In questo caso, lungi dal reputare meritevole di
considerazione la teoria del dolus generalis (dolo complessivo che parte dall’ideazione e arriva all’evento), che consentirebbe di applicare l’art. 575 c.p. sic et simpliciter in quanto “Tizio voleva uccidere, e alla fine ha ucciso”, la Giurisprudenza di Legittimità applica il concorso materiale
tra tentativo di omicidio e omicidio colposo. Chi scrive, poi, ritiene
che questo sia l’unico caso in cui è possibile applicare la
continuazione tra reato doloso e reato colposo, perché solo il regime
sanzionatorio del cumulo giuridico causerebbe il raggiungimento di una
pena equa. Al contrario, applicando il regime tot crimina tot poenae, si raggiungerebbe paradossalmente una pena più bassa di quella prevista per l’omicidio.
Si
ricordi, inoltre, che il nesso di causalità va sempre valutato con
l’applicazione della teoria condizionalistica sussunta sotto leggi
scientifiche, e che l’evento morte deve essere valutato secondo il criterio hic et nunc,
a nulla valendo il requisito della vitalità ( idoneità a sopravvivere),
di talché l’agente è punito per il delitto di omicidio anche se la
vittima sarebbe morta di lì a poco poiché ad esempio malata terminale.
Inutile dire che si richiede che la vittima sia viva, in quanto
altrimenti mancherebbe l’oggetto materiale del reato e si verificherebbe
un reato impossibile. Poiché l’articolo 49 fa salva la punibilità per
reato diverso da quello putativo o quello impossibile, potrebbe operare
l’articolo 410 c.p. sul vilipendio di cadavere, qualora la condotta sia
offensiva, oltraggiosa, dileggiante, o brutale.
Gli
articoli 576 e 577 prevedono alcune aggravanti, che consentono
l’applicabilità di una pena diversa da quella base (da 21 a 24 anni), e
cioè l’ergastolo, o la reclusione da 24 a 30 anni nel caso di cui
all’art. 577 ult. comma. Tra le predette aggravanti, ve ne sono alcune che meritano attenzione poiché manifestano
profili problematici. Nel caso in cui l’omicidio sia compiuto per
eseguire o occultare un altro reato (connessione teleologica), o
conseguirne il prodotto, il prezzo, il profitto o l’impunità, ci si
chiede cosa avviene nel caso di rapina impropria con esito infausto
(morte del soggetto passivo della rapina). Esemplificando: Tizio sottrae
la moto di Caio; questi esce dal negozio dove era entrato un attimo,
lasciando la moto parcheggiata e incustodita, e Tizio lo uccide per
assicurare a sé la moto appena rubata. Alcuni Autori ritengono che la connessione teleologica (61 n.2)
non operi, perché già operante in virtù dell’articolo 628 comma II. Chi
scrive ritiene che il 628 non contempli l’ipotesi di omicidio, bensì
solo le ipotesi di violenza che si traducano in percosse o lesioni, e
quindi l’omicidio dovrebbe essere aggravato dall’art. 61 n.2. e posto in
continuazione con il furto (624 c.p). Per quanto concerne, poi, l’omicidio come esito dello stalking, si sottolinea come l’assorbimento o il concorso materiale dipenda da se l’omicidio era stato minimamente preventivato o costituisce un esito imprevisto della condotta persecutoria. Nel primo caso, il suo disvalore può inglobare il reato di stalking, mentre nel secondo caso è aggiuntivo, e quindi concorrerà con esso. Continuando
con le ipotesi aggravanti più problematiche, si aggiunga che il mezzo
insidioso di cui all’art. 577 n. 2 è qualunque mezzo idoneo a costituire
pericolo occulto per il soggetto passivo, cogliendolo di sorpresa. La
premeditazione, di cui al medesimo articolo, n. 3, si compone di tre
elementi: ideologico, cronologico, e macchinazione, e si distingue dal
dolo di proposito poiché quest’ultimo non presenta tale ultimo
requisito. L’elemento cronologico si sostanzia nel distacco temporale
tra ideazione ed esecuzione, che deve essere idoneo a causare la
riflessione e il ripensamento circa l’azione
criminosa. L’elemento ideologico è strettamente connesso al primo, in
quanto si sostanzia nella permanenza del proposito. La macchinazione è
richiesta da dottrina e giurisprudenza maggioritaria, e consiste nella
programmazione di mezzi, modalità e circostanze di luogo e tempo
da usare per la perpetrazione del reato. Non è sufficiente, quindi, la
mera preordinazione, che ha ad oggetto solo la predisposizione dei
mezzi, e può al massimo costituire un indizio sull’esistenza della
premeditazione. La premeditazione è compatibile con il vizio parziale di
mente (salvo il caso in cui sia proprio il vizio di mente la causa
della persistenza del proposito) e con la provocazione (specialmente
quando la provocazione è frazionata e quindi permette al soggetto agente
di “covare” in se stesso il risentimento, da concretizzare in seguito
con l’eventuale “ultima goccia che faccia traboccare il vaso”), nonché
con i motivi abietti o futili. La premeditazione è incompatibile con il
dolo eventuale, poiché il soggetto programma totalmente il reato,
essendo ciò incompatibile con la mera accettazione del rischio che lo stesso si concretizzi.
Riguardo
l’elemento soggettivo del delitto di omicidio, è chiaro che esso potrà
essere commesso con dolo o con colpa (cosciente/incosciente), rimanendo
problematica la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente,
specialmente nei delitti relativi alla circolazione stradale o alla trasmissione di malattie potenzialmente mortali ( es. virus HIV, che poi dia origine all’AIDS e conduca alla morte dell’infettato).
Il dolo eventuale, originariamente accertato attraverso la teoria del
consenso e le due formule di Frank, viene attualmente riscontrato quando il soggetto agente si
rappresenta concretamente la possibilità che alla sua condotta segua la
morte di un soggetto passivo e ne accetta il rischio di verificazione,
subordinando, attraverso una evidente deliberazione psichica, il proprio
interesse o vantaggio personale alla lesione del bene giuridico altrui.
Si parlerà di colpa cosciente, invece, nel caso in cui l’agente si
immagini l’evento come astratto, cioè di lontana verificazione, nel
senso che esso, pur potendo generalmente accadere,
non si manifesterà nella realtà esterna grazie alla capacità di
intervento dell’agente, che lo scongiurerà grazie a proprie abilità (l’agente, si dice, confida nel non verificarsi dell’evento).
Il controllo del giudice sarà quindi finalizzato ad accertare la
ragionevolezza di tale pensiero dell’agente, anche e soprattutto alla
luce delle sue condizioni personali. Il
dolo eventuale è stato spesso applicato anche alle ipotesi di delitti
in sede stradale commessi da soggetto totalmente o parzialmente incapace
di intendere e di volere a causa di abuso di alcol o uso di stupefacenti, in virtù della fictio giuridica ex art. 92 c.p. Tale fictio, secondo chi scrive, si fonderebbe, nel caso di totale incapacità, sulla rimproverabilità di condotta non penalmente rilevante (rimprovero necessario ai fini general-preventivi),
poiché sarebbe biasimevole il soggetto mentre si poneva nello stato di
incapacità (mentre, ad esempio, beveva in un bar); mentre nel caso di
parziale incapacità, il legislatore considererebbe l’operatività della fictio al momento dell’inizio dell’azione
penalmente rilevante, riflettendo sul fatto che l’area “sana” della
mente del reo debba inibire il comportamento criminoso. Sulla base di
entrambi i momenti valutativi, si può giungere a riconoscere il dolo
eventuale poiché il soggetto sarebbe capace di rappresentarsi l’evento
morte (altrui) come concretamente possibile e dovrebbe, in conseguenza di tale rappresentazione, astenersi dal tenere comportamenti rischiosi per l’incolumitàdi terzi.
La
colpa, in generale, opera quando l’evento morte è concretizzazione del
rischio che la norma precauzionale mirava ad evitare. Si deve quindi
verificare: 1) che l’evento è conseguito alla condotta dell’agente, irrispettosa della regola cautelare ad hoc imposta dal legislatore; 2) che l’evento concretizzi il rischio
che tale norma mirava ad evitare; 3) che l’evento non si sarebbe lo
stesso verificato pur rispettando tale norma cautelare; 4) che il
mancato rispetto della norma abbia almeno accresciuto le possibilità di
verificazione dell’evento e, viceversa,
il rispetto della norma precauzionale avrebbe in maniera seria ed
apprezzabile limitato il rischio di verificazione dell’evento stesso.
Nel
caso in cui l’omicidio colposo sia compiuto attraverso il mancato
rispetto delle norme sulla circolazione stradale (da soggetto capace di
intendere di volere, o da soggetto incapace per uso di bevande alcoliche
o sostanze stupefacenti) e sulla prevenzione degli infortuni, l’art.
589 c.p. prevede aumenti di pena. L’ultimo comma prevede un’ ipotesi di
cumulo giuridico (concorso formale di reati) limitato nel massimo a 15
anni, nel caso di morte di più persone o morte di almeno un soggetto
cumulativamente alla lesione di almeno un soggetto, dovendosi ricavare
la pena dall’elevazione fino al triplo della sanzione prevista per il reato più grave, senza superare il suddetto limite dei quindici anni.
Per quanto concerne l’omicidio preterintenzionale, si rimanda a quanto detto nell’ articolo “Il Delitto Preterintenzionale”, con due possibili aggiunte:
1)
La Giurisprudenza, tempo addietro, considerava la morte del paziente
integrante omicidio preterintenzionale qualora il medico avesse operato
al di fuori del consenso valido, in quanto sarebbe possibile intravedere
una volontà diretta a ledere, nel caso in cui il medico, consapevole
della mancanza di consenso del paziente, si adoperi comunque
chirurgicamente. Successivamente,
tale tesi è stata abbandonata per eccesso di rigore formale, in quanto
omette di considerare il fine primario del medico, che è quello curativo,
a prescindere dalla sussistenza di un consenso valido del paziente. La
morte può quindi essere addebitata secondo le regole dell’art. 589, e
cioè dell’omicidio colposo, ma non in base alla sussistenza di una
presunta preterintenzione.
2)
Si svolgevano, già nell’articolo prima richiamato, le considerazioni in
merito a se l’articolo 584 richieda che gli atti diretti a ledere o
percuotere debbano essere idonei oltre che finalisticamente orientati.
Già si faceva notare come il tenore letterale dell’art. 584 c.p.,
nonché le riflessioni in merito alla offensività bifasica ( sulla quale
anche la Corte di Cassazione ha avuto implicitamente da ridire) portano a
ritenere che non sia necessario che si formi il tentativo di percosse o
di lesioni. Un ulteriore argomento, fornito dalla giurisprudenza a supporto di tale interpretazione della norma richiamata,
riguarda l’ammissibilità del dolo eventuale relativamente alla
configurazione degli atti diretti a ledere o percuotere. Poiché si
ammette il dolo eventuale, e tale forma di dolo è incompatibile col
tentativo, si sta implicitamente sostenendo la non necessità
dell’integrazione del tentativo in merito ai reati di base dell’omicidio preterintenzionale.
Esistono
poi ipotesi particolari, condensate nelle norme da 578 a 580, in cui il
soggetto agente causa la morte del soggetto passivo in condizioni
particolari (578 e 579 – rispettivamente infanticidio in condizioni di
abbandono e omicidio
del consenziente) o contribuisce all’auto-inflizione dell’evento morte (
580 - istigazione o aiuto al suicidio). L’infanticidio in condizioni di
abbandono è il particolare omicidio compiuto dalla madre ai danni del
feto (durante il parto) o del neonato (evidentemente
dopo il parto e nell’immediatezza), derivante dal turbamento
psico-fisico della donna, prodotto dalla condizione di alienazione
famigliare e sociale in cui ella si trova. Il turbamento non deve essere
scaturito da colpe della donna e deve causare un patimento interiore
che faccia rappresentare alla madre l’impossibilità di crescere il
figlio appena nato, a causa di difficoltà materiali oggettive legate al
suddetto fenomeno di alienazione ed emarginazione socio-famigliare.
L’infanticidio deve avvenire durante il parto o subito dopo di esso. L’immediatezza può significare non solo il tempo comprensivo degli istanti
immediatamente successivi al parto, ma anche un tempo maggiore, laddove
sia ragionevole ritenere che tale turbamento psico-fisico sia presente e incida sulla condotta omicida successivamente posta in essere dalla
madre. La Corte di Cassazione non ha mai applicato tale norma trascorsi
i due giorni dal parto, mutandosi, dopo tale termine, il nomen iuris da infanticidio a omicidio semplice (575) aggravato dall’aver compiuto il fatto contro il discendente (577 n. 1).
Per quanto concerne il reato
di cui all’art. 579, omicidio del consenziente, si deve rilevare come
il consenso non operi come scriminante ma come elemento del fatto
tipico. Esso deve essere cosciente, volontario, serio, esplicito, non
equivoco, specifico. In caso contrario, non sarà valido, e ci troveremo
dinanzi ad un bivio: se l’agente era consapevole dell’invalidità del
consenso, si avrà omicidio semplice, mentre se per errore si è
immaginato che il consenso fosse perfetto ed efficace, dottrina e
giurisprudenza si dividono sulle soluzioni da approntare. La
giurisprudenza ritiene che si applichi l’art. 47 comma II, e che quindi
il soggetto vada comunque punito per omicidio semplice, mentre la
dottrina rileva come il dolo di omicidio del consenziente non
presupponga il dolo di omicidio semplice, e quindi tale ipotesi di
errore su elemento degradante della fattispecie deve essere risolto
(secondo un principio di favor rei, o di giustizia sostanziale) con l’applicazione analogica dell’art. 59 ult.
comma in tema di errore scusabile sulle scriminanti. Se non si vuole
applicare tale analogia, la dottrina suggerisce di applicare la
fattispecie di omicidio con tutti i benefici di legge, tra i quali
spicca il riconoscimento dell’attenuante dell’aver agito per motivi di
alto valore morale o sociale. La Giurisprudenza di Legittimità, invece, è
contraria all’applicazione di tale attenuante, poiché non riconosce
ancora come generalmente condivisa l’idea dell’eutanasia.
Per
ultimo, si consideri il delitto di istigazione o aiuto al suicidio, di
cui all’art. 80 del codice penale. Tale reato è compiuto da chi, con un
contributo morale o materiale spiana la strada al suicidio altrui. Il
contributo morale è l’istigazione o la determinazione, fungendo, la prima, come accrescimento di un proposito lesivo già maturato dal futuro suicida, e
la seconda come creazione nella mente altrui di tale proposito.
Dottrina sottolinea come il legislatore punisca i due comportamenti allo
stesso modo, pur essendo il primo meno grave del secondo, con evidente trattamento sanzionatorio irragionevole.
Il contributo materiale, invece, si attua con la predisposizione di
mezzi o rimozione di ostacoli al suicidio. Due considerazioni sono
importanti. La prima inerisce al fatto che il soggetto agente (non il
suicida, bensì l’istigatore, il determinatore o l’agevolatore materiale)
non deve minimamente porre in essere attività esecutiva causalmente orientata
a infliggere la morte. Questa attività deve spettare a colui che ha
deciso di togliersi la vita, altrimenti il soggetto agente vedrà mutarsi
il titolo del reato
in omicidio del consenziente. Altresì, si consideri come la norma di
cui si discute rappresenti perfettamente la concezione del diritto alla
vita che l’ordinamento intende (purtroppo, ancora) portare avanti.
Per motivi legati all’impossibilità di rieducazione del soggetto che ha
tentato invano di suicidarsi (tale soggetto presenta evidentemente una
disperazione interiore che gli farebbe apparire l’opera punitiva come un
ulteriore tassello negativo alla sua vita, e perderebbe la fiducia nel
senso della sua esistenza, come nel valore dell’ordinamento giuridico),
quest’ultimo non è punito. In compenso,
è punito chiunque si avvicini con illecita ingerenza nella vita altrui,
a nulla valendo qualsiasi spirito solidaristico né qualunque finalità
di aiuto all’altrui bisogno di farla finita con un’esistenza oramai
disperata.
Nessun commento:
Posta un commento