di Filippo Lombardi
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Spesso può accadere che un fatto sia sussumibile sotto più fattispecie astratte, cioè sotto più norme incriminatrici, poiché possiede elementi che integrano il tenore letterale di più disposizioni. Il fenomeno è diverso dal concorso di reati (per la tematica del concorso di reati e per un focus sul reato continuato, si veda il relativo contributo pubblicato in questo Blog, “Il reato continuato”). Quest’ultimo, infatti, vede il soggetto effettivamente compiere più reati con un’azione o con più azioni, che possono essere all’occorrenza ritenute esecutive del medesimo disegno criminoso, mentre il fenomeno posto ora alla nostra attenzione ha a che fare con il principio del ne bis in idem, ovvero non si potranno applicare le molteplici norme rilevanti nel caso concreto, poiché esse sono solo apparentemente applicabili: il caso di specie è in realtà disciplinato da un’unica norma.
Come fare, quindi, a capire quale sia la norma che effettivamente deve essere applicata? L’ordinamento offre un solo criterio tipizzato, al fine di risolvere tale coinvolgimento di più norme incriminatrici, e cioè il principio di specialità, disciplinato dall’articolo 15 del codice penale. Tale articolo ci dice che, nel caso in cui due disposizioni normative regolano la stessa materia, si ha riguardo alla disposizione speciale, la quale deroga alla norma generale. Innanzitutto, una norma è speciale rispetto ad un’altra nel caso in cui apporti una o più aggiunte rispetto ad un nucleo comune di elementi (entrambe le norme disciplinano “X”, ma la norma n. 2 disciplina “X+1” >> si applicherà la norma n. 2). Vi è da dire, poi, che due norme regolano la stessa materia quando proteggono lo stesso bene giuridico. Dottrina ritiene che oltre al caso della specialità ordinaria, rispetto alla quale va applicata normalmente la norma speciale, esistano altri due tipi di specialità, ben definite al livello nominale, ma meno al livello contenutistico: la specialità in concreto e la specialità reciproca. La prima vi sarebbe nel caso in cui, pur non esistendo un regolare rapporto di specialità dell’una rispetto all’altra, le due norme si trovano in un rapporto reciproco di interferenza normativa, dove per interferenza bisognerebbe intuire che si tratti di una applicabilità in concreto delle due norme. La specialità reciproca si dovrebbe ritenere operante nei casi in cui le norme siano speciali l’una rispetto all’altra, cioè non si assiste ad un rapporto di X a X+1, ma un rapporto di X+Y a X+Z. I casi di specialità qui proposti sono in realtà contestati da ampia dottrina, anche considerando il fatto che della specialità non condividerebbero la norma operativa. Vale a dire che non si dovrebbe (poiché non si potrebbe!) applicare la regola “norma speciale deroga alla norma generale” bensì dovrebbe adottarsi il criterio del trattamento in concreto più severo. Tale trattamento opera scegliendo la norma da applicare considerando nell’ordine i seguenti fattori: 1) quale norma abbia il minimo edittale più elevato; 2) a parità di minimo, si ha riguardo al massimo edittale più elevato; 3) in caso di assoluta parità, si ha riguardo alla gerarchia di beni giuridici protetti dalle due norme. Si applicherà, cioè la norma che protegge il bene giuridico di importanza maggiore.
Il principio di specialità non è rimasto privo di compagnia quando si tratta di principi direttivi in tema di risoluzione del conflitto tra norme. La dottrina ha elaborato due principi ulteriori, molto usati in giurisprudenza. Essi sono il criterio di sussidiarietà e il criterio di assorbimento (anche detto del ne bis in idem sostanziale). Il criterio di sussidiarietà opera nel caso in cui le norme apparentemente applicabili stanno in realtà proteggendo lo stesso bene giuridico da condotte progressivamente offensive, o meglio condotte che causano stadi diversi e via via più approfonditi al bene. Normalmente la soluzione di quale norma si debba applicare, nonostante il principio di sussidiarietà non sia tipizzato, la si ricava al livello normativo tenendo in considerazione l’incipit che è possibile riscontrare in tante norme di parte speciale, quali “Salvo che il fatto costituisca più grave reato…” o “Al di fuori delle ipotesi di…”. Questi espedienti letterali aiutano l’interprete a capire quale sia il grado di offesa al bene giuridico, e a scegliere la norma applicabile seguendo le indicazioni del legislatore.
Il criterio dell’assorbimento, o del ne bis in idem sostanziale, è invece un criterio che si fonda sul disvalore del fatto, il quale può ritenersi assorbito in una fattispecie più grave (il fatto più grave ingloba in sé il disvalore del fatto meno grave). Mentre la giurisprudenza è incline ad applicare tale criterio solo in caso di identità del bene giuridico tutelato dalle due norme, la dottrina (con la quale chi scrive è d’accordo) auspicherebbe una sua applicazione anche in caso di beni giuridici differenti, valutando se secondo l’id quod plerumque accidit, e cioè una massima esperienza, sia normale e di ampia verificazione empirica che un soggetto commetta un reato al fine di compierne un altro. Ad esempio, se un soggetto commette un falso ideologico al fine di truffare taluno, la regola esperienziale può dirsi verificata, poiché è alto il tasso di verificazione di un falso commesso come finalizzato ad una truffa. L’intenzione criminosa principale è la truffa, e può dirsi che essa comprenda in sé il disvalore del fatto più tenue. Dal punto di vista sanzionatorio, anche qui ritroviamo l’applicazione della norma più severa afferente al fatto più grave. Non bisogna quindi cadere in un errore interpretativo comune: se un soggetto commette un fatto X per commettere un fatto Y, non sarà per forza la pena di Y ad essere irrogata, bensì potrà anche essere applicata la pena del reato-mezzo, se in concreto più severa. Tre situazioni particolari sono legate a tale criterio dell’assorbimento, e cioè la progressione criminosa, il post-fatto non punibile, l’ante-fatto non punibile. Il primo caso è integrato da condotte a catena che causano eventi di crescente offensività verso un bene giuridico altrui (è il caso di chi percuote, lede, uccide). Andrà applicata la norma relativa all’ultimo stadio di offesa, perché in grado di assorbire gli altri livelli precedenti. Il post-fatto non punibile si ha nel momento in cui è ragionevole ritenere, in base all’id quod plerumque accidit, che ad un reato ne consegua un altro, il quale si presenta come una sua conseguenza inevitabile ( ES. falsificazione di monete e messa in commercio. E’ ragionevole ritenere che al reato più grave si accompagnerà il reato meno grave come sua diretta conseguenza). Nell’ante-fatto non punibile si verifica l’inverso, e cioè l’agente commette un reato meno grave per uno specifico fine di passare in un futuro prossimo al compimento del reato più grave. E’ il caso del possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli, al fine di commettere un furto. Tra l’altro succede spesso, come nell’ambito di quest’ultimo esempio fatto, che il legislatore punisca condotte attraverso il ricorso a reati di pericolo, e più specificamente reati di mero possesso. Il legislatore incrimina il possesso di beni per evitare che essi confluiscano in una susseguente attività illecita. Nel caso proposto, colui che detiene i grimaldelli o le chiavi contraffatte crea il pericolo che egli stesso li utilizzerà per commettere un furto. A volte tali reati comportano problemi in termini di costituzionalità, perché spesso dispongono che il soggetto sia punito se non dimostra che il possesso fosse giustificato o che non era comunque rivolto ad attività illecita. Attenta dottrina ritiene che questo si ponga in contrasto con l’articolo 27 Cost., nella parte in cui assume il principio di non colpevolezza come principio cardine dell’ordinamento penale.
Un caso particolare di possibile progressione criminosa è quello relativo alla successione tra atti persecutori e omicidio della vittima (stalking culminante con l’eliminazione fisica della persona perseguitata). In questo caso ci si chiede se vi sarà un concorso materiale di reati o l’applicazione del principio di assorbimento, derivante dal fatto che l’omicidio sia in grado di assorbire il disvalore del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. Si ritiene che si debbano differenziare due casi: vi sarà concorso materiale di reati nel caso in cui l’omicidio non era stato preventivato, cioè nel caso in cui sia stato partorito esattamente nel momento culminante dello stalking, con un dolo d’impeto. Nel caso in cui il soggetto agente, sin dall’inizio si era prospettato di commettere gli atti persecutori per poi sfociare nel momento culminante dell’omicidio, potrà applicarsi il principio di assorbimento, e punire il reo solo per l’omicidio, poiché ritenuto in grado di contemplare il disvalore degli altri fatti precedentemente commessi.
Diverso dal concorso apparente di norme è il reato complesso, che si ottiene dalla combinazione di più condotte normalmente disciplinate in più norme slegate. Queste condotte vengono utilizzate dal legislatore per creare una fattispecie nuova, tipizzata. E’ il caso della rapina, che si ottiene dalla combinazione di due condotte già singolarmente punibili in virtù di altre norme: il furto e la violenza privata. Ciò significa che le due condotte diventano elementi costitutivi del reato complesso, e quest’ultimo potrà verificarsi solo ed esclusivamente quando tali condotte coesistono. Non si tratta di un concorso apparente di norme proprio a causa della tipizzazione fornita dal legislatore. L’interprete, quindi, troverà direttamente la norma applicabile risalendo alla fattispecie rappresentata da tale reato complesso.
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