Art. 3, L. 189 del 2012: “L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.
PREMESSA. IL REATO COLPOSO IN GENERE E LA COLPA MEDICA
L’interpretazione della norma ha destato difficoltà, tanto da portare taluno ad utilizzare la locuzione “in culpa sine culpa”. Partiamo dal principio, valutando come la nozione di colpa si innesta sull’attività sanitaria. Il reato colposo si fonda sull' attribuibilità di un evento lesivo sanzionato dall'ordinamento al soggetto agente poiché concorrono vari elementi. Come la Corte Costituzionale insegna, l'articolo 27 Cost. va letto nel senso che la responsabilità penale deve essere personale, vale a dire propria e colpevole. La responsabilità penale è propria quando sussistono la suitas rispetto alla condotta e il nesso causale tra condotta ed evento; è colpevole quando, sussistendo almeno l'elemento soggettivo della colpa, il soggetto agente è in concreto rimproverabile per non essersi discostato dalla condotta tenuta, potendo intraprendere una strada alternativa lecita. L'elemento soggettivo della colpa è poi scomponibile in due sub-elementi: uno di tipo psicologico e uno di tipo normativo. Quello di tipo psicologico consta della previsione/prevedibilità dell'evento e della sua consequenziale evitabilità, congiuntamente all'assenza di volontà di cagionarlo, mentre quello di tipo normativo consta della violazione di una regola precauzionale, positivizzata o di provenienza sociale, funzionale a scongiurare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Nel caso di diligenza positivizzata in una norma di legge, regolamento, ordine o disciplina, il mero distaccarsi dalla condotta prescritta, dà origine alla presenza dell'elemento soggettivo qualora si tratti di norma rigida; qualora la norma sia "elastica", essa va ancorata al caso di specie, nel senso che il contenuto della norma è indicativo, e va plasmato in base alle circostanze concrete (es. la distanza di sicurezza nella circolazione dei veicoli). E' anche possibile che la responsabilità penale non venga meno pur avendo il soggetto agente rispettato la norma scritta cautelare, potendosi richiedere allo stesso di distaccarsi dal suo contenuto in base ad una norma di diligenza generica, qualora il suo utilizzo possa servire ad evitare l'evento. La diligenza generica da richiedere all'agente è quella dell'homo eiusdem condicionis et professionis, cioè un soggetto della medesima cerchia sociale o professionale, tenuto conto però delle carenze psicofisiche che l'agente concreto presentava al momento dell'illecito, e del contesto in cui si trovava ad agire. Riguardo l'assenza di volontà, mentre essa è meglio dimostrabile in caso di colpa incosciente, risulta più complesso il suo accertamento nel caso di colpa con previsione, poiché questo tipo di colpa si trova sul confine con il dolo eventuale e il discrimine è attualmente rinvenuto in una teoria mista: si tratta di dolo eventuale quando il soggetto agente ha tenuto la condotta rappresentandosi l'evento come concretamente possibile, accettando il rischio della sua verificazione attraverso una deliberata opera di subordinazione del bene giuridico leso ad un proprio interesse o vantaggio personale, senza approntare alcuna contromisura atta ad evitare l'evento dannoso o pericoloso. Se l'agente si è invece rappresentato l'evento come astrattamente possibile e comunque ha confidato nel mancato verificarsi dello stesso grazie a proprie abilità personali, confortate da contromisure idonee a scongiurare il risultato nefasto, si avrà colpa cosciente (che contraddistingue una circostanza aggravante ex art. 61 cod. pen.). Il controllo sulla causalità, poi è effettuato così come segue: si deve valutare se l'evento è conseguenza della condotta, secondo la teoria condizionalistica sussunta sotto leggi scientifiche; l'evento deve appartenere al tipo di eventi che la norma cautelare non rispettata mirava a prevenire; si deve poter ritenere che la norma di diligenza violata, qualora rispettata, avrebbe aumentato in maniera apprezzabile la probabilità che l'evento non si sarebbe verificato. In tema di colpevolezza, infine, si prende in considerazione il c.d. doppio grado della colpa: il primo grado è la discrasia tra condotta concreta e condotta richiesta dalla norma cautelare, e opera sul piano della tipicità; il secondo grado opera sul piano della colpevolezza e si fonda sul controllo dell'esigibilità da parte dell'autore dell'illecito di una condotta conforme alla norma cautelare.
La responsabilità medica, pur fondandosi sulle medesime regole, ha delle particolarità. Il medico (o, amplius, l’esercente attività sanitaria) svolge un’attività che comporta un rischio per il paziente, ma, poiché la sua attività è fondamentale per garantire un diritto costituzionalmente rilevante come quello alla salute, il rischio derivante rientra tra i c.d. rischi “consentiti”. Il rischio consentito, però, non deve tramutarsi in “licenza di ledere o uccidere”, e dunque va delimitato. La delimitazione è fornita, trattandosi di responsabilità in ambito professionale, dalle leges artis , cioè dai principi operativi e comportamentali che reggono l’attività medica generalmente intesa. Le leges artis sono dunque parametri di diligenza (o meglio: di perizia) a cui il medico deve attenersi, poiché indicano le regole a cui il sanitario deve ispirarsi per risolvere le questioni inerenti la salute del paziente. Particolarmente significativa la diligenza richiesta nelle operazioni di equipe, laddove solo in via astratta e preliminare ogni membro risponde esclusivamente per la propria condotta. In realtà, secondo giurisprudenza consolidata, l'equipe deve tendere al risultato come gruppo, e ogni membro deve sempre tentare di porre rimedio agli errori del soggetto che l'ha preceduto nella catena operativa. Significativo anche il ruolo del capo-equipe, in quanto egli ha doveri di sorveglianza, direzione e informazione, sia durante l'attività operatoria, sia in fase post-operatoria. Identificate le speciali norme di diligenza che l'esercente attività sanitaria deve seguire, si deve prendere atto che la disciplina della responsabilità colposa per tale tipo di professionista rimane segnata, per quel che rimane, dalle normali regole in tema di colpa, avendo però conosciuto già in passato una questione problematica inerente la punibilità del medico per colpa lieve: problematica che pare ripresentarsi con questa nuova norma contenuta nella legge 189 del 2012, e che dunque merita un approfondimento.
APPLICABILITA’ IN AMBITO PENALE DELL’ARTICOLO 2236 C.C. : EVOLUZIONE STORICA
Il Legislatore non è nuovo all'esclusione della responsabilità del professionista per colpa lieve, tanto che ne troviamo un esempio nell'articolo 2236 del codice civile. Questa norma aveva causato una disputa circa la sua applicabilità in campo penale (il medico, cioè, non risponderebbe dell’evento lesivo per colpa lieve laddove si tratti di attività tecnica particolarmente complessa), per danno cagionato al paziente. E' opportuno quindi un richiamo della problematica, per comprendere i legami con l'articolo 3 della legge 189 del 2012.
La prima tesi, in vigore fino al 1973, riteneva applicabile l'articolo 2236 c.c. all’ambito penale, e dunque il medico che avesse causato la morte del paziente per colpa lieve non sarebbe stato punito penalmente (e nemmeno civilisticamente). Si diceva, in sintesi, che l’attività medica è sempre attività particolarmente complessa, tanto da giustificare l’applicazione generale dell’articolo 2236 cod. civ.
La Consulta, nel 1973, intervenne a limitare tale applicazione della norma, sostenendo che essa fosse applicabile solo quando effettivamente l’attività medica avesse comportato la soluzione di problemi tecnici di elevata difficoltà. La Corte, cioè, statuisce che l’esclusione della responsabilità per colpa lieve non può derivare, come una sorta di automatismo, dal
fatto che l’attività medica sia sempre particolarmente complessa: nell’ambito dell’attività medica esistono attività complesse e attività ordinarie, e le attività complesse sono solo quelle effettivamente difficoltose, e cioè – esemplifica la Corte - il caso di diagnosi ambigua, e il caso di patologia curabile con più metodi. La tesi della Corte Costituzionale è compatibile con l’interpretazione del concetto di diligenza richiesta al medico alla luce dell’articolo 2236 c.c. La norma veniva originariamente interpretata nel senso di ricavare dall’esclusione della responsabilità per colpa lieve il fatto che, al contrario, fosse possibile la responsabilità per colpa grave. Ma, poiché la colpa grave si ha quando la diligenza da riporre nell’obbligazione è diligenza minima, si stava creando un paradosso: il medico sarebbe perciò tenuto ad una diligenza minima. Per assurdo, si arrivava a richiedere ad un professionista che ha a che fare con la vita delle persone, di impegnarsi in misura assolutamente sproporzionata in senso sfavorevole al valore degli interessi in gioco. In realtà, la norma necessita di reinterpretazione, e la tesi accreditata è la seguente: il medico non è tenuto ad una diligenza minima in senso assoluto, ma in senso relativo, cioè ad una diligenza minima rispetto all’elevata perizia di cui egli dispone, e quindi pur sempre di una “diligenza minima rispetto alla diligenza massima”: dunque, di una diligenza media. Da questo assunto deriva che, se al medico può essere richiesta una diligenza media, vuol dire che nell’ambito medico esistono attività che richiedono una diligenza media (cioè ordinaria). Nel caso in cui esistano anche attività estremamente complesse, il medico è punito per colpa grave. Ma poiché si è puniti per colpa grave quando la diligenza richiesta nell’obbligazione è minima, allora vuol dire che il medico, qualora il danno sia derivato dalla cattiva risoluzione di questioni tecniche molto complesse, sarà punito solo qualora non sia riuscito nemmeno ad arrivare, con il proprio comportamento, al livello di diligenza minima. Dunque, la Corte Costituzionale, nel 1973, supera la prima tesi dell’applicabilità tout court dell’articolo 2236 c.c. all’ambito penale, e ne permette l’estensione solo in casi particolari, effettivamente difficoltosi.
Gli orientamenti della Cassazione post-1973 sono invece difformi dalla presa di posizione della Consulta, in quanto escludono tout court l’applicazione del 2236 c.c. all’ambito penale, sia in virtù del fatto che si tratterebbe di un beneficio ingiustificato per la categoria professionale, sia per il principio di autonomia del diritto penale. Dunque la tesi della Cassazione è la seguente: in caso di danno al paziente, il medico risponde per dolo e per ogni tipo di colpa, lieve o grave che sia.
L’ESIMENTE DEL RISPETTO DELLE LINEE-GUIDA IN AMBITO MEDICO
L’articolo 3 della legge in epigrafe esclude la responsabilità penale per colpa lieve, solo qualora il medico si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate.
Due sono le tesi che paiono affermarsi attualmente in dottrina, in assenza di correnti giurisprudenziali interpretative della norma. Tali orientamenti analizzano l’utilità della norma, cercando di comprendere se essa si risolva in mere petizioni di principio, in dettami utili, o al contrario inapplicabili.
I) La prima tesi tende ad effettuare una scomposizione della norma:
a) relativamente alla non punibilità per colpa lieve, la norma sarebbe inconferente in quanto si tratterebbe di un’ipotesi di colpa senza colpa: secondo i sostenitori di questa concezione, le linee guida sono i parametri di diligenza che il medico deve rispettare; se egli li rispetta, tiene la diligenza richiesta e non si troverà in colpa rispetto all’evento. Dunque il tessuto normativo, con riferimento all’ipotesi della colpa lieve, si tradurrebbe in una tautologia “Non risponde penalmente chi non deve rispondere penalmente”, e dunque non
sarebbe innovativo. L’ipotesi della culpa sine culpa avrebbe ovviamente effetti anche per la colpa grave, poiché il rispetto dei parametri di diligenza escluderebbe la colpa tout court.
b) relativamente alla punibilità per colpa grave, si rimarca come, al di là di quanto esposto sub a), essendo le linee guida “specialistiche”, il rispetto delle stesse già postula che il medico abbia tenuto una diligenza minima. Se ha tenuto una diligenza minima, non incorrerà in colpa grave, e la norma sarà comunque inapplicabile, nel senso che la colpa grave non emergerà mai nella prassi.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, si comprendono le tesi di chi, considerando la norma richiamata nel senso di non lasciar residuare né la colpa lieve (poiché il rispetto delle leges artis esclude la colpa tout court), né la colpa grave (poiché comunque la diligenza minima sarebbe sempre tenuta dal medico seguendo le linee guida), lamenta un intervento del legislatore in grado di garantire la completa impunità del medico in ambito penale qualora si sia affidato alle linee guida, in quanto il dolo, unico elemento soggettivo in concreto operante, sarebbe di altrettanto impossibile verificazione.
II) La seconda tesi ritiene che la norma abbia un senso, e sia applicabile, in virtù del seguente ragionamento: le linee guida non sono norme di diligenza totalizzanti l’ambito medico. Vale a dire che il medico non può sic et simpliciter utilizzare la best practice per scagionarsi da colpa, bensì deve sempre comparare la regola, “suggerita” dalla Comunità Scientifica, al caso concreto, onde valutare se sia o meno perfettamente applicabile. Le regole di best practice vengono infatti accreditate dalla Comunità Scientifica in quanto probabilisticamente utili a risolvere una questione concreta. Ciò non vuol dire, però, che il medico non sia tenuto ad una diligenza ulteriore (sulla falsariga di ciò che accade nelle ipotesi che richiedono il cumulo di diligenza positivizzata e diligenza derivante da regole sociali), secondo le sue conoscenze, funzionale a capire se quella specifica regola dell’arte venga in rilievo nel caso affidato alle sue cure. Se ne deduce che: 1) se il medico, utilizzando il proprio bagaglio esperienziale e di conoscenze tecniche, avrebbe potuto agevolmente comprendere di doversi distaccare dalla regola dell’arte e non l’ha fatto, la sua violazione sarà macroscopica, e dunque la colpa sarà grave; 2) se il dovere di distaccarsi dall’applicazione della lex artis non risultava evidente all’epoca dei fatti, il soggetto sarà in colpa ma tale colpa sarà lieve, e dunque scatterà solo l’illecito civile e non quello penale.
I sostenitori della prima tesi tentano di scardinare la concezione opposta testé richiamata, alla luce di un paradosso riscontrabile nella norma in parola: se è vera la seconda tesi, dovrebbe ammettersi che il medico, per occuparsi di un caso, si attenga a linee guida che però non hanno a che fare con quest’ultimo. Dunque, in realtà, il medico per il caso specifico non si è attenuto veramente alle linee guida (!), e quindi l’articolo 3 sarebbe inapplicabile. A tale assunto si potrebbe replicare sostenendo che potrebbero esistere casi in cui la linea guida suggerisca di curare una patologia con una certa modalità secondo conoscenze oramai sedimentate nell’ambito scientifico, ma in concreto, alla luce di sperimentazioni recentissime (che hanno portato a risultati considerabili ma non ancora accreditati dalla Comunità Scientifica) risulti praticabile un’altra via, maggiormente rispondente al caso del paziente. In tale situazione non può dirsi che il medico non abbia seguito la linea guida relativa al caso del paziente. Egli, anzi ha fatto riferimento alla linea guida giusta in senso teorico ma errata relativamente al caso posto alla sua attenzione. Alla luce della propria esperienza e delle proprie conoscenze specialistiche, cioè, sarebbe stato più adeguato seguire la seconda via. Se l’obiezione mossa è esatta, allora essa arricchisce il ruolo del giudice, in quanto egli sarà legittimato a dare rilevanza alle tecniche scientifiche in via di sviluppo.
LA NATURA GIURIDICA DELL’ ESIMENTE
In ultima analisi, è bene interrogarsi sulla natura di tale norma, che esclude la responsabilità penale, pur facendo residuare il dovere risarcitorio ex art. 2043 c.c., posto che finora la letteratura parla in maniera vaga di “esimente”, ed essendo consapevoli delle diatribe interpretative che spesso tale termine ha comportato (la Cassazione utilizza spesso il termine per individuare tutte le cause ostative alla responsabilità penale, mentre la dottrina utilizza il concetto solo per riferirsi alle cause di non punibilità in senso stretto). In prima battuta è da escludere che si tratti di causa di giustificazione, in quanto essa ha la funzione di escludere l’illiceità della condotta (aderendo alla concezione tripartita di reato) o addirittura già il fatto tipico (aderendo alla concezione bipartita). L’articolo 3 menzionato esclude solo una porzione di elemento soggettivo (colpa lieve) e dunque non incide né sulla illiceità del fatto, né tantomeno sulla tipicità. Inoltre, le scriminanti, secondo orientamenti consolidati, si reggono sui concetti di “interesse prevalente” ed “interesse mancante”. Paiono scartabili entrambe le motivazioni, in quanto il primo si atteggerebbe come “interesse prevalente del medico all’assenza di incriminazioni rispetto al diritto – soccombente - del paziente, soluzione estremamente deprecabile; il secondo, cioè l’interesse mancante, sarebbe quello dell’ordinamento a reprimere penalmente un illecito, e dire che l’ordinamento non ha interesse a punire un evento drammatico derivante comunque da una atteggiamento colposo del medico, porta a conclusioni paradossali e biasimevoli. D’altra parte, anche il concetto di scusante non è adattabile al caso di specie, in quanto la scusante esclude il rimprovero, cioè esclude la punizione penale in quanto al soggetto non poteva essere richiesto un comportamento difforme da quello tenuto. Stante questa premessa, non si può non notare che la decisione di non punire non vuol dire necessariamente che il medico non sia rimproverabile. Anzi, il medico è rimproverabile, e proprio perché è tale, e la rimproverabilità è suscettibile di giudizio di gradazione, sarà possibile per il giudice valutare il grado di colpa (lieve o grave). Pare, per queste vie, più rispondente alla norma in questione la qualificazione in termini di causa di non punibilità: la condotta medica trascendente il rischio consentito sarebbe dunque tipica, antigiuridica e colpevole (poiché evitabile e rimproverabile), ma l’ordinamento, per esigenze di protezione della categoria professionale, continuamente esposta a rischi, decide per ragioni di opportunità di non estendere lo strumento penale ai casi in cui la responsabilità del medico derivi da colpa lieve, ma si accontenta dello strumento civilistico del risarcimento del danno, facendo un evidente utilizzo del principio di frammentarietà e sussidiarietà del diritto penale. Tale utilizzo può in concreto destare perplessità poiché l’assenza di responsabilità penale del medico può ben venire in rilievo in casi drammatici, e comunque sussistendo una colpa dell’agente. In tal senso, dunque, vi sarebbe un soggetto che ha commesso un reato, il cui evento è capace di annientare il bene giuridico di riferimento, ma l’ordinamento starebbe chiedendo ai danneggiati di accontentarsi di un ristoro monetario, pur obbiettivamente sussistendo una responsabilità penale, valutabile, in assenza della novella in parola, solo ai fini della commisurazione della pena ex art. 133 del codice penale ( comma 1, n. 3 ).
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