sabato 26 gennaio 2013

Diritto ad educare: brevi riflessioni in tema di evoluzione e contenuto.


di Filippo Lombardi 

Quante volte voi genitori avete rimproverato vostro figlio dopo un suo comportamento poco consono nei confronti dei nonni? Quante volte avete pronunciato nei suoi confronti la frase "Ora devi chiedere scusa"? ... Magari portandolo dinanzi al nonno offeso, per spronare il ragazzino a farsi perdonare da quest'ultimo? Penso che, per un genitore, un evento del genere è quasi all'ordine del giorno, specialmente quando il proprio figlio frequenta i nonni in maniera assidua. La Cassazione, però, avverte: si tratta di comportamenti al limite dell’intollerabile, perché potrebbero superare i limiti dello ius corrigendi e, nel caso concreto, dare origine al delitto di violenza privata, per il quale un padre è stato recentemente condannato dalla Suprema Corte. Il padre aveva infatti portato con la forza la propria figlia al cospetto del nonno, imponendole di chiedere scusa a quest’ultimo. [1]

Ma cos'è lo ius corrigendi e in cosa si sostanzia? Esso è il diritto di educare, e fino a poco tempo fa questo diritto, spettante al genitore, era in grado di fornire a quest'ultimo i mezzi, anche violenti, per "correggere" i comportamenti ancora sviati del proprio figlio. Si diceva, cioè, che il genitore poteva utilizzare modi anche coercitivi al fine di disciplinare la prole, risultando tali metodi approvati dall’ordinamento anche se costituenti reato in senso astratto.


Come si nota dalle ultime prese di posizione della Giurisprudenza e dal diritto internazionale, il diritto del minore a crescere in un ambiente fatto di libertà di autodeterminazione e benessere psico-fisico si fa sempre più imponente, facendo da contraltare una facoltà sempre più ridotta in capo all'ascendente di tenere comportamenti che ledano tale diritto, come quelli di ingerenza corporale o psichica. In effetti, pare sempre meno afferrabile il concetto di ius corrigendi, laddove, fino a qualche decennio fa, esso scriminava comportamenti del genitore normalmente costituenti reato (percosse, limitazioni di libertà di movimento), mentre in epoca attuale esso potrebbe apparire non più come una vera e propria scriminante, ma come possibilità, per il genitore, di utilizzare esclusivamente strumenti leciti per insegnare ciò che è bene e ciò che è male, in quanto sempre più comportamenti umani prima rientranti nell’ambito operativo della scriminante, ora costituiscono reato.

La presenza dell'articolo 571 del codice penale (abuso di mezzi di coercizione e disciplina), in realtà, lascia intendere che vi siano tuttora mezzi di coercizione e disciplina non abusivi: la questione è capire se l'ambito di condotta non abusiva sia qualcosa di autonomamente lecito, perché non rilevante penalmente, o sia qualcosa che costituirebbe reato se non esistesse la scriminante dell'esercizio del diritto ad educare. [2]

Considerando la prima ipotesi, potrei dire che l’unica forma in cui può tradursi il diritto pocanzi citato è il rimprovero "diplomatico e morbido", che costituisce un mezzo già lecito, senza che sia necessario l’intervento di una causa di giustificazione. Cioè, parlare affabilmente con una persona di nove anni per insegnarle i fondamenti dell'etica non è che sia reato scriminato da una causa di giustificazione: è semplicemente irrilevante penalmente. Ha lo stesso valore di una “chiacchierata da bar”. Di conseguenza, l’utilizzo di modalità diverse da quelle irrilevanti penalmente già fa scattare l’abuso e quindi il reato citato. Considerando la seconda ipotesi, invece, potrei dire che esistono condotte educative che, pur potendo costituire reato (esempio tipico: percosse), sono scriminate dal diritto di educare.

Mi viene da dire che, mentre fino a due o tre decenni fa poteva considerarsi in maniera preponderante il secondo caso, attualmente si è passati, tramite l'influsso dominante della psico-pedagogia moderna, a dover considerare in via sempre più stringente il primo caso. Dunque, in epoca moderna, il diritto ad educare si traduce in un diritto/dovere di utilizzare maniere di per sé sempre più tenere (la psicopedagogia sconsiglia anche il semplice "ceffone" occasionale) e, nel caso si trascendano questi limiti, si ricadrà nell'ambito di applicazione dell'articolo 571 (abuso di mezzi di coercizione e disciplina) del codice penale.

Le problematiche non sono sopite, perché ciò che abbiamo detto ha delle ricadute pratiche dal punto di vista dell’individuazione della linea di confine tra il reato di cui al citato articolo e quello di cui all'articolo successivo - art. 572 c.p. - inerente i maltrattamenti verso fanciulli. Tale delitto si realizza quando il genitore (o un soggetto in posizione di tutela o di autorità) tenga condotte che ledano la sfera psico-fisica del minore, causando il suo degrado, la sua denigrazione, alienazione, e comunque alterando il normale legame genitore-figlio e gli equilibri famigliari: causando, insomma, una soggezione del minore rispetto al genitore e, in modo eventualmente collaterale, dei riverberi sulla capacità del minore di sviluppare una coscienza di sé e una relazionalità genuina in ambito sociale. Poiché il nucleo comportamentale può essere comune ai due delitti in questione, la domanda è: se il padre forza psichicamente il figlio, o gli applica "sanzioni corporali" in senso lato, si realizza il delitto di abuso di mezzi di disciplina o quello di maltrattamenti verso fanciulli?

La distinzione che usualmente si fa in giurisprudenza è la seguente: si prende in considerazione il primo delitto (Abuso), cioè si valuta se la condotta del genitore, per mezzi, modalità e finalità, può considerarsi un eccesso di mezzo educativo [3]. Vale a dire che si deve considerare se il genitore stesse usando un mezzo idoneo alla correzione, non per natura eccessivo ma che, per circostanze, è trasmodato in un eccesso. Se la risposta è affermativa (esempio: al fine di educare, il padre usa “cinghiate” invece che lo schiaffo) siamo nell'ambito dell'abuso di cui all’art. 571. Se però l'Abuso (leggasi: l'eccesso) è sistematico, siamo nell'ambito del maltrattamento verso fanciulli , poiché, nel momento della reiterazione, si perfeziona l'elemento soggettivo del dolo generico avente ad oggetto la consapevolezza del padre di realizzare vere e proprie vessazioni [4].

Si noti che il maltrattamento verso fanciulli è un reato necessariamente abituale, cioè si perfeziona solo qualora vi sia più di una condotta vessatoria. Dunque, se l'intento di vessare il minore con atti lesivi si verifica in una singola circostanza, esso, non potendo dare origine all'abuso di mezzi di coercizione (poiché tale reato si fonda sulla volontà di educare), né al maltrattamento (perché serve più di una condotta), darà origine al singolo reato di parte speciale i cui elementi costitutivi si siano perfezionati (es.: se il padre lede fisicamente per il "gusto" di vessare, risponde di lesioni personali; se costringe psicologicamente il minore ad un comportamento per il puro fine di sopraffare, risponde di violenza privata, etc).

Dalle pronunce della Corte di Cassazione, si rinviene dunque che esista ancora una porzione di "violenza consentita", che fa sì che il diritto ad educare (e, di conseguenza, il delitto di Abuso di mezzi di coercizione e disciplina) siano ancora retti da una propria sostanza e da una ratio ideologicamente afferrabile. Come sentenziava la Cassazione poco più di un decennio fa "...non possono ritenersi preclusi quegli atti, di minima valenza fisica o morale che risultano necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiustificata, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente...".[5]

Il principio ora citato è in qualche modo ripreso dalla recente sentenza di cui si discuteva all’inizio, poiché la Corte dà atto che la punizione del padre troppo severo scaturisce dall’uso di un mezzo eccessivamente coercitivo. Il diritto ad educare, insomma, sussiste ancora, ma bisogna andarci (sempre più) cauti col suo utilizzo! Alla luce degli orientamenti attuali, dunque, saranno tollerati gli atti lesivi in forma minima, e comunque proporzionati al fine educativo ( immaginiamo lo “schiaffetto” correttivo occasionale, lo strattone per riportare il ragazzino al proprio posto, il rimprovero severo ma non fino al punto di terrorizzare, il divieto di svolgere attività come punizione per la mancanza di rispetto dimostrata, ma che non si traduca in una sistematica e gratuita privazione di libertà, ecc.).


[1] Cass. sent. n. 42962/2012
[2] Art. 51 c.p.
[3] Cass. sent. n. 3536/1996
[4] Cass. sent. n. 4904/1996
[5] Cass. sent. n. 3789/1998

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