di Filippo Lombardi
Quante volte voi genitori
avete rimproverato vostro figlio dopo un suo comportamento poco consono nei
confronti dei nonni? Quante volte avete pronunciato nei suoi confronti la frase
"Ora devi chiedere scusa"? ... Magari portandolo dinanzi al nonno
offeso, per spronare il ragazzino a farsi perdonare da quest'ultimo? Penso che,
per un genitore, un evento del genere è quasi all'ordine del giorno,
specialmente quando il proprio figlio frequenta i nonni in maniera
assidua. La Cassazione, però, avverte: si tratta di comportamenti al
limite dell’intollerabile, perché potrebbero superare i limiti dello ius corrigendi e, nel caso
concreto, dare origine al delitto
di violenza privata, per il quale un padre è stato recentemente condannato
dalla Suprema Corte. Il padre aveva infatti portato con la forza la propria
figlia al cospetto del nonno, imponendole di chiedere scusa a quest’ultimo. [1]
Ma cos'è lo ius corrigendi e in cosa si sostanzia? Esso è il diritto di educare, e fino a
poco tempo fa questo diritto, spettante al genitore, era in grado di fornire a
quest'ultimo i mezzi, anche violenti, per "correggere" i
comportamenti ancora sviati del proprio figlio. Si diceva, cioè, che il
genitore poteva utilizzare modi anche coercitivi al fine di disciplinare la
prole, risultando tali metodi approvati dall’ordinamento anche se costituenti
reato in senso astratto.
Come si nota dalle ultime
prese di posizione della Giurisprudenza e dal diritto internazionale, il
diritto del minore a crescere in un ambiente fatto di libertà di
autodeterminazione e benessere psico-fisico si fa sempre più imponente, facendo
da contraltare una facoltà
sempre più ridotta in capo all'ascendente di
tenere comportamenti che ledano tale diritto, come quelli di ingerenza
corporale o psichica. In effetti, pare sempre meno afferrabile il concetto di ius corrigendi, laddove, fino a
qualche decennio fa, esso scriminava comportamenti del genitore normalmente
costituenti reato (percosse, limitazioni di libertà di movimento), mentre in
epoca attuale esso potrebbe apparire non più come una vera e propria
scriminante, ma come possibilità, per il genitore, di utilizzare esclusivamente
strumenti leciti per insegnare ciò che è bene e ciò che è male, in quanto
sempre più comportamenti umani prima rientranti nell’ambito operativo della
scriminante, ora costituiscono reato.
La presenza dell'articolo
571 del codice penale (abuso di mezzi di coercizione e disciplina), in realtà, lascia
intendere che vi siano tuttora mezzi di coercizione e disciplina non abusivi:
la questione è capire se l'ambito di condotta non abusiva sia qualcosa di
autonomamente lecito, perché non rilevante penalmente, o sia qualcosa che
costituirebbe reato se non esistesse la scriminante dell'esercizio del diritto
ad educare. [2]
Considerando la prima ipotesi, potrei dire che l’unica
forma in cui può tradursi il diritto pocanzi citato è il rimprovero
"diplomatico e morbido", che costituisce un mezzo già lecito, senza che
sia necessario l’intervento di una causa di giustificazione. Cioè, parlare
affabilmente con una persona di nove anni per insegnarle i fondamenti
dell'etica non è che sia reato scriminato da una causa di giustificazione: è
semplicemente irrilevante penalmente. Ha lo stesso valore di una “chiacchierata
da bar”. Di conseguenza, l’utilizzo di modalità diverse da quelle irrilevanti
penalmente già fa scattare l’abuso e quindi il reato citato. Considerando la seconda ipotesi,
invece, potrei dire che esistono condotte educative che, pur potendo costituire
reato (esempio tipico: percosse), sono scriminate dal diritto di educare.
Mi viene da dire che,
mentre fino a due o tre decenni fa poteva considerarsi in maniera preponderante
il secondo caso, attualmente si è passati, tramite l'influsso dominante della psico-pedagogia moderna, a
dover considerare in via sempre più stringente il primo caso. Dunque, in epoca
moderna, il diritto ad educare si traduce in un diritto/dovere di utilizzare
maniere di per sé sempre più tenere (la psicopedagogia sconsiglia anche il
semplice "ceffone" occasionale) e, nel caso si trascendano questi
limiti, si ricadrà nell'ambito di applicazione dell'articolo 571 (abuso di mezzi di coercizione e disciplina)
del codice penale.
Le problematiche non sono
sopite, perché ciò che abbiamo detto ha delle ricadute pratiche dal punto di
vista dell’individuazione della linea
di confine tra il reato di cui al citato articolo e quello di cui all'articolo
successivo - art. 572 c.p. - inerente i maltrattamenti verso fanciulli. Tale delitto si realizza quando il
genitore (o un soggetto in posizione di tutela o di autorità) tenga condotte
che ledano la sfera psico-fisica del minore, causando il suo degrado, la sua
denigrazione, alienazione, e comunque alterando il normale legame
genitore-figlio e gli equilibri famigliari: causando, insomma, una soggezione
del minore rispetto al genitore e, in modo eventualmente collaterale, dei
riverberi sulla capacità del minore di sviluppare una coscienza di sé e una
relazionalità genuina in ambito sociale. Poiché il nucleo comportamentale può
essere comune ai due delitti in questione, la domanda è: se il padre forza
psichicamente il figlio, o gli applica "sanzioni corporali" in senso
lato, si realizza il delitto di abuso di mezzi di disciplina o quello di
maltrattamenti verso fanciulli?
La distinzione che usualmente si fa in
giurisprudenza è la seguente:
si prende in considerazione il primo delitto (Abuso), cioè si valuta se la condotta del genitore, per mezzi, modalità
e finalità, può considerarsi un eccesso di mezzo educativo [3]. Vale a dire che si deve considerare se il genitore stesse
usando un mezzo idoneo alla correzione, non per natura eccessivo ma che, per
circostanze, è trasmodato in un eccesso. Se la risposta è affermativa (esempio:
al fine di educare, il padre usa “cinghiate” invece che lo schiaffo) siamo
nell'ambito dell'abuso di cui all’art. 571. Se però l'Abuso (leggasi:
l'eccesso) è sistematico, siamo
nell'ambito del maltrattamento verso fanciulli , poiché, nel momento della
reiterazione, si perfeziona l'elemento soggettivo del dolo generico avente ad
oggetto la consapevolezza del padre di realizzare vere e proprie vessazioni [4].
Si noti che il
maltrattamento verso fanciulli è un reato necessariamente abituale, cioè
si perfeziona solo qualora vi sia più di una condotta vessatoria. Dunque, se
l'intento di vessare il minore con atti lesivi si verifica in una singola
circostanza, esso, non potendo dare origine all'abuso di mezzi di coercizione
(poiché tale reato si fonda sulla volontà di educare), né al maltrattamento
(perché serve più di una condotta), darà origine al singolo reato di parte
speciale i cui elementi costitutivi si siano perfezionati (es.: se il padre
lede fisicamente per il "gusto" di vessare, risponde di lesioni
personali; se costringe psicologicamente il minore ad un comportamento per il
puro fine di sopraffare, risponde di violenza privata, etc).
Dalle pronunce della
Corte di Cassazione, si rinviene dunque che esista ancora una porzione di
"violenza consentita", che
fa sì che il diritto ad educare (e, di conseguenza, il delitto di Abuso di
mezzi di coercizione e disciplina) siano ancora retti da una propria sostanza e
da una ratio ideologicamente afferrabile. Come
sentenziava la Cassazione poco più di un decennio fa "...non possono ritenersi preclusi quegli atti,
di minima valenza fisica o morale che risultano necessari per rafforzare la
proibizione, non arbitraria né ingiustificata, di comportamenti oggettivamente
pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione
del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente...".[5]
Il principio ora citato è
in qualche modo ripreso dalla recente sentenza di cui si discuteva all’inizio,
poiché la Corte dà atto che la punizione del padre troppo severo scaturisce
dall’uso di un mezzo eccessivamente coercitivo.
Il diritto ad educare, insomma, sussiste ancora, ma bisogna andarci (sempre
più) cauti col suo utilizzo! Alla luce degli orientamenti attuali, dunque,
saranno tollerati gli atti lesivi in forma minima, e comunque proporzionati al
fine educativo ( immaginiamo lo “schiaffetto” correttivo occasionale, lo
strattone per riportare il ragazzino al proprio posto, il rimprovero severo ma
non fino al punto di terrorizzare, il divieto di svolgere attività come
punizione per la mancanza di rispetto dimostrata, ma che non si traduca in una
sistematica e gratuita privazione di libertà, ecc.).
[1] Cass. sent. n. 42962/2012
[2] Art. 51 c.p.
[3] Cass. sent. n. 3536/1996
[4] Cass. sent. n. 4904/1996
[5] Cass. sent. n. 3789/1998
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