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Cassazione
penale, SS. UU., 30 settembre 2013, n. 40354.
MASSIME
1
– Il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile
non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di
godimento, ma anche nel possesso - inteso come relazione di fatto che
non richiede la diretta fisica disponibilità - che si configura
anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si
costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che
anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di
persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre
querela. (In applicazione del principio, la Corte ha riconosciuto al
responsabile di un supermercato la legittimazione a proporre
querela).
2
– Nel reato di furto, l'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento
delinea una condotta, posta in essere nel corso dell'azione
delittuosa dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da
insidiosità, astuzia, scaltrezza, idonea, quindi, a sorprendere la
contraria volontà del detentore e a vanificare le misure che questi
ha apprestato a difesa dei beni di cui ha la disponibilità. (In
applicazione del principio, la Corte ha escluso la configurabilità
dell'aggravante nel caso di occultamento sulla persona o nella borsa
di merce esposta in un esercizio di vendita "self-service").
SENTENZA
RITENUTO
IN FATTO
1.
A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Sulmona ha
affermato la responsabilità di S.M. in ordine al reato di furto
aggravato di cui all'art. 624 c.p., e art. 625 c.p., comma 1, n. 2.
La
sentenza è stata confermata dalla Corte di appello dell'Aquila.
Secondo
quanto ritenuto dai giudici di merito, l'imputata sottraeva dagli
scaffali di un grande magazzino denominato Oviesse alcuni capi
d'abbigliamento per bambini ed un top da donna privi di placche
antitaccheggio, li occultava in una grande borsa che appariva piena,
passava la cassa senza pagare, usciva dall'esercizio e veniva fermata
dai Carabinieri cui era nota per precedenti, analoghi illeciti.
Nell'occultamento
della merce è stata ravvisata l'aggravante dell'uso di mezzo
fraudolento di cui al richiamato art. 625. Si è ritenuto che tale
condotta, improntata ad astuzia e scaltrezza, abbia costituito un
espediente utile per eludere i controlli visivi del personale e
superare le casse senza essere fermata.
2.
Ricorre per cassazione l'imputata deducendo tre motivi.
2.1.
Con il primo motivo si prospetta la mancanza, contraddittorietà,
manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta
esistenza della circostanza dell'uso del mezzo fraudolento. Si
argomenta che l'aggravante in questione richiede un comportamento
ingegnoso, un sotterfugio o un particolare accorgimento che abbia
consentito all'autore del reato di eludere o superare gli ostacoli
materiali o personali volti ad impedire la sottrazione del bene. La
ratio della detta circostanza va ricercata nell'intenzione del
legislatore di colpire con una sanzione più grave l'agente che,
mostrando particolari capacità criminose, riveli una spiccata
pericolosità sociale.
Tale
situazione non si configura nel caso specifico. L'imputata non ha
rimosso le placche antitaccheggio in quanto gli abitini rubati ne
erano privi, ed ha potuto facilmente raggiungere l'uscita
dell'esercizio. Inoltre, il mero occultamento della cosa sottratta,
non rappresentando un elemento in più rispetto all'attività
necessaria per operare la sottrazione, non configura l'aggravante in
questione, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
2.2.
Con il secondo motivo si deduce che, esclusa la detta aggravante, il
reato è perseguibile a querela, che nella specie è irrituale. Il
documento è stato redatto dalla responsabile del supermercato, senza
affermare nè allegare la qualifica di legale rappresentante
dell'esercizio. Neppure è stata prospettata la veste di institore,
cui in alcune pronunzie di legittimità si attribuisce rilievo ai
fini della legittimazione a proporre querela.
2.3.
Con il terzo motivo si lamenta vizio della motivazione per ciò che
attiene al diniego delle attenuanti generiche. La Corte di appello ha
omesso di prendere in esame la peculiare situazione soggettiva
dell'imputata prospettata dalla difesa. La ricorrente era incinta e
si è limitata a sottrarre alcuni vestitini per bambini, e non
articoli voluttuari; ed è ben probabile che la gravidanza abbia
procurato quantomeno un soggettivo perturbamento. Il giudice di
merito, a fronte di tali deduzioni, si è limitato ad evocare le
precedenti condanne per reati analoghi.
2.4.
Ha fatto seguito la presentazione di due memorie con le quali sono
state ribadite le prospettazioni difensive.
3.
La Quarta sezione penale cui il ricorso è stato assegnato lo ha
rimesso alle Sezioni Unite, avendo riscontato contrasti
giurisprudenziali in ordine ai temi oggetto dei primi due motivi di
ricorso.
Quanto
all'aggravante, si premette che, per costante giurisprudenza di
legittimità, l'espressione "mezzo fraudolento" fa
riferimento ad ogni attività insidiosa, improntata ad astuzia o
scaltrezza che soverchi o sorprenda la contraria volontà del
detentore della cosa ed abbia la meglio rispetto alle cautele
predisposte dal soggetto passivo a difesa del bene.
Si
aggiunge che, valorizzando tale connotato della circostanza, un primo
indirizzo giurisprudenziale ritiene che l'aggravante in questione
debba necessariamente costituire un elemento in più rispetto
all'attività materiale per operare la sottrazione e
l'impossessamento. Ne discende che, nell'ambito considerato,
afferente alla vendita con il sistema del cosiddetto self service,
l'impossessamento della merce esposta nei banchi di vendita si
realizza con il fatto stesso dell'occultamento. Tale nascondimento
non costituisce un mezzo fraudolento, cioè un insidioso
accorgimento, bensì il modo più semplice per la consumazione del
reato. L'occultamento, insomma, rappresenta un momento necessario per
la commissione dell'illecito e nulla aggiunge alla fattispecie di
base: senza di esso la perpetrazione del furto sarebbe impossibile.
L'opposto
orientamento giurisprudenziale, prosegue l'ordinanza di rimessione,
ravvisa astuzia e scaltrezza nell'occultamento della merce esposta e
ritiene, in conseguenza, che tale condotta integri l'aggravante. Si
rammenta che tale orientamento è stato proposto anche in relazione
al nascondimento della merce sulla persona, o in contenitori
appositamente attrezzati.
4.
La sezione rimettente scorge confligenti indirizzi della
giurisprudenza pure in relazione all'individuazione dei soggetti
legittimati a proporre la querela; questione la cui rilevanza è
evidentemente connessa alla pregiudiziale risoluzione del dubbio
sull'esistenza dell'aggravante e, conseguentemente, sulla
procedibilità a querela.
L'ordinanza
rammenta che, come dedotto dalla stessa ricorrente, la querela è
stata proposta da persona che si è presentata come responsabile del
supermercato; e pone in luce che, secondo un primo indirizzo
interpretativo, la legittimazione spetta al direttore di un esercizio
commerciale, nella veste di persona offesa: tale qualifica, infatti,
va attribuita non solo al titolare di diritti reali, ma anche ai
soggetti responsabili dei beni posti in vendita e della loro
custodia.
Secondo
altro indirizzo, invece, tale legittimazione del direttore
dell'esercizio non sussiste, a meno che egli provi la qualità di
legale rappresentante della società, con il potere di spenderne il
nome sul piano processuale. La veste di direttore dell'esercizio non
attribuisce automaticamente la qualifica di institore; ed il potere
di proporre querela va conferito dallo statuto o da altro atto
negoziale.
5.
Il Primo Presidente, con decreto del 2 aprile 2013, ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna
udienza.
CONSIDERATO
IN DIRITTO
1.
La prima questione problematica prospettata è "se, con
riferimento al reato di furto, il mero occultamento all'interno di
una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un
esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service
configuri la circostanza aggravante dell'uso di mezzo fraudolento
prevista dall'art. 625 c.p., comma 1, n. 2".
2.
Al riguardo, nella variegata giurisprudenza di questa Corte, si
scorgono differenti orientamenti.
2.1.
Un primo indirizzo esclude l'esistenza dell'aggravante. In una
recente sentenza (Sez. 6, n. 40283 del 27/09/2012, Diaji, Rv. 253776)
relativa ad un caso in cui le scarpe sottratte erano state deposte
nella borsa, si rimarca che la circostanza di cui si discute delinea
un tratto specializzante della condotta rispetto all'ordinarietà. Il
semplice occultamento della refurtiva rientra nelle modalità
ordinarie del furto. Invece l'aggravante del mezzo fraudolento
ricorre quando la condotta "presenti una significativa ed
oggettiva maggior gravità dell'ipotesi ordinaria in ragione delle
modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati
dal possessore del bene sottratto". Tale condotta deve
consistere in una modalità peculiare, o nell'utilizzazione di un
particolare strumento che consenta, oltre al mero occultamento,
l'elusione del controllo sui beni esposti per la vendita. Ciò
accade, ad esempio, quando il reo predisponga mezzi particolari per
superare i normali controlli, come una borsa con doppio fondo,
indumenti realizzati appositamente per agevolare l'occultamento della
merce rubata, attrezzi per rimuovere o schermare le targhe
antitaccheggio o per rendere comunque seriamente difficoltoso
l'accertamento della sottrazione. Nello stesso senso, da ultimo, Sez.
4, n. 10134 del 19/01/2006, Baratto, Rv. 233716.
In
altra sentenza relativa ad un caso in cui la merce era stata
occultata nella tasca del giaccone indossato, si è ribadito che
l'aggravante riguarda condotte caratterizzate da straordinarietà,
improntate a scaltrezza, astuzia ed idonee ad eludere le cautele
adottate dal proprietario: un elemento in più rispetto all'attività
necessaria per operare la sottrazione. Nel caso esaminato tale
situazione non si verificava, posto che la sottrazione era stata
realizzata con il mezzo più semplice (Sez. 4, n. 24232 del
27/04/2006, Giordano, Rv. 234516).
In
un caso in cui parte della merce prelevata dagli scaffali era stata
nascosta in una borsa e non dichiarata alla cassa, si è esclusa
l'aggravante posto che, se il cliente non nascondesse subito in
qualche modo la merce sottratta, la consumazione stessa del furto
sarebbe impossibile, poichè il personale sarebbe senz'altro in grado
di accorgersi dell'asportazione: l'occultamento è il mezzo
necessario e non può quindi rappresentare il quid pluris che
concreta l'uso di mezzo fraudolento (Sez. 2, n. 291 del 08/03/1967,
Castaidi, Rv. 105432).
In
consonanza con tale indirizzo, in altre pronunzie si pone in luce la
differenza tra il mero occultamento e l'adozione di più insidiose
misure per soverchiare le difese apprestate dal possessore.
In
un caso in cui le cose sottratte erano state nascoste in un'apposita
panciera (Sez. 5, n. 11143 del 06/10/2005, Battisti, Rv.
233886),
si è considerato che l'imputata non si era limitata ad impossessarsi
della merce esposta, nascondendola e sottraendola al controllo degli
addetti del supermercato, ma aveva operato con una maggiore astuzia,
avvalendosi di tale apprestamento per superare gli accorgimenti
approntati dal soggetto passivo a tutela delle proprie cose e,
quindi, utilizzando un mezzo fraudolento.
L'uso
di mezzo fraudolento è stato ravvisato anche nell'uso di pantaloni
elasticizzati indossati sotto l'abito per favorire il nascondimento
di quanto sottratto (Sez. 5, n. 15265 del 23/03/2005, Lamberti, Rv.
232142). Si è considerato che si è in presenza di accorgimento
malizioso che, pur posto in essere dopo la sottrazione, in quanto
finalizzato alla definitiva e piena disponibilità della cosa,
configura l'aggravante quale espressione di maggiore criminosità
desunta dalla dimostrata capacità di superare con la frode la
custodia apprestata dall'avente diritto e tale, pertanto, da
giustificare una più severa risposta sanzionatoria.
2.2.
Altro contrapposto orientamento ravvisa l'aggravante in caso di
occultamento di merce sulla persona (Sez. 5, n. 10997 del 13/12/2006,
Rada, Rv. 236516); o sotto l'abbigliamento (Sez. 2, n. 1862 del
21/10/1983, Salines, Rv. 162897). Si argomenta che un comportamento
siffatto è improntato ad astuzia e scaltrezza ed è diretto ad
eludere e vanificare le cautele e gli ordinari accorgimenti
predisposti dal soggetto passivo a difesa dei propri beni.
Anche
l'occultamento sotto il cappotto di una giacca sottratta ha dato
luogo alla configurazione della circostanza (Sez. 4, n. 13871 del
06/02/2009, Tundo, Rv. 243203). Secondo il giudice di merito, tale
nascondimento di per sè, non configurava l'aggravante in questione,
non trattandosi di attività idonea a sorprendere o soverchiare con
insidia ed astuzia la contraria volontà del detentore La Corte di
cassazione, invece, ha annullato con rinvio la pronunzia, affermando
che l'aggravante è da ravvisare in ogni caso di comportamento con
frode idoneo a superare la custodia apprestata dall'avente diritto
sui suoi beni. In tale nozione rientra ogni operazione improntata ad
astuzia o scaltrezza, diretta ad eludere le cautele ed a frustare gli
accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa delle proprie
cose, e cioè gli impedimenti che si frappongono tra l'agente e la
cosa oggetto della sottrazione.
3.
Le Sezioni unite ritengono che il primo indirizzo giurisprudenziale
colga nel segno.
La
questione prospettata pone un problema interpretativo che riguarda la
determinazione dell'espressione "si vale di qualsiasi mezzo
fraudolento" che compare nell'art. 625 c.p..
Il
lessico della legislazione penale, per la sua spiccata vocazione
generalizzante, mostra frequentemente l'uso di termini vaghi,
elastici come "violenza", "minaccia", "osceno",
"onore". Il loro significato deve essere definito,
concretizzato dall'interprete al fine di conferire, per quanto
possibile, reale valore alla legalità penale.
L'espressione
di cui ci si occupa è per l'appunto vaga, ma nell'elaborazione
giurisprudenziale di cui si è sopra dato sommariamente conto e negli
studi dottrinali si rinvengono chiarificazioni sostanzialmente
consonanti. Si parla di stratagemma diretto ad aggirare, annullare,
gli ostacoli che si frappongono tra l'agente e la cosa; di operazione
straordinaria, improntata ad astuzia e scaltrezza; di escogitazione
che sorprenda o soverchi, con l'insidia, la contraria volontà del
detentore, violando le difese apprestate dalla vittima; di insidia
che eluda, sovrasti o elimini la normale vigilanza e custodia delle
cose.
Tali
definizioni spiegano bene la ratio della circostanza: le cose altrui
vengono aggredite con misure di affinata efficacia che rendono più
grave il fatto e mostrano altresì maggiore intensità del dolo, più
intensa risoluzione criminosa e maggiore pericolosità sociale.
Si
tratta di chiarificazioni che, se aiutano a cogliere il nucleo
antigiuridico dell'aggravante, non risolvono i casi dubbi che si
rinvengono solitamente nell'area grigia posta ai margini di quasi
tutte le figure giuridiche.
L'inefficienza
delle evocate definizioni nelle situazioni controverse, sfumate, che
non mostrano macroscopicamente i tipici tratti di studiata,
fraudolenta aggressività propri dell'aggravante, è testimoniata dal
fatto che le medesime definizioni finiscono col dare copertura
argomentativa a soluzioni antitetiche sul piano applicativo.
La
ragione principale di tale insuccesso è costituita dal fatto che le
chiose alla legge fanno uso di termini non meno vaghi di quelli
utilizzati dal codice: sinonimi che risultano tautologici piuttosto
che esplicativi.
L'analisi
razionale della disposizione acquista qualche maggiore concretezza
proprio attraverso il riferimento alle specifiche modalità
dell'azione, alle tipologie dell'aggressione del bene.
Definita
la fenomenologia, si tratta di comprendere se essa presenti intensità
sufficiente a giustificarne la collocazione entro la fattispecie
aggravante; se essa presenti il grado di disvalore che, nell'ottica
della legge, giustifica la maggiore gravità del fatto e l'incremento
della sanzione che ne deriva. Si tratta, in breve, di interpretare la
disposizione aggravante al fine di definirne il contenuto offensivo
tipico.
4.
E' dunque chiamato in causa, sia pure in peculiare guisa, il
principio di offensività. Il tema ha straordinaria ampiezza e deve
essere qui accennato solo per il decisivo rilievo che assume
nell'interpretazione della fattispecie aggravata di cui ci si occupa.
La
riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato
l'esigenza che il fatto di reato esprima oltre ad un dato
naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso
come concreta offesa all'interesse delle vita tutelato dalla norma
incriminatrice.
La
tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell'art. 49 c.p., nel
quale si è ritenuto di individuare un'ipotesi tipica di divergenza
tra conformità allo schema descrittivo e realizzazione dell'offesa:
un comportamento perfettamente corrispondente alla norma
incriminatrice risulta per qualunque motivo posto in essere in
circostanze tali da rendere impossibile la realizzazione dell'evento
che costituisce il contenuto del reato. In breve il fatto, oltre a
possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in
concreto carico del significato in forza del quale è assunto come
fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.
La
portata di tale concezione realistica del reato, basata sull'idea di
offensività in concreto, è stata persuasivamente ridimensionata
sulla base della considerazione che se l'interesse tutelato deve
essere dedotto dall'intera struttura della fattispecie, riesce
difficile immaginare un fatto conforme ad essa e non lesivo, sicchè
l'inoffensività di un singolo elemento è in realtà l'inoffensività
di un requisito del tipo.
Il
principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta
espressione con la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso
la lettura integrata di diverse norme: l'art. 27, comma 3,
(l'equilibrio tra le funzioni retribuiva e rieducativa della pena
rappresenta una saldatura tra il momento garantista o liberale della
retribuzione per il reato necessariamente lesivo e le aperture
sociali e solidaristiche della rieducazione); l'art. 25, comma 2 (la
locuzione "fatto", che esclude la visione dell'illecito
come mera disobbedienza); l'art. 27, comma primo (il divieto di
strumentalizzazione dell'uomo a fini di politica criminale).
Nel
segno dell'offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a
reati solo fatti che siano concretamente offensivi di entità reali.
L'interprete
delle norme penali ha l'obbligo di adattarle alla Costituzione in via
ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente
offensivi, offensivi in misura apprezzabile. Insomma, i beni
giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una
interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza
scarti di sorta, la specifiche offesa già contenuta nel tipo legale
del fatto. E' dunque sul piano ermeneutico che, come è stato
suggestivamente considerato in dottrina, viene superato lo stacco tra
tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato dovranno essere
ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicchè tra
i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera
della legge si dovrà operare una scelta con l'aiuto del criterio del
bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i
comportamenti non offensivi dell'interesse protetto. In breve, è
proprio il parametro valutativo di offensività che consente di
individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità.
5.
Tale ordine concettuale ha altissime potenzialità, ancora non
compiutamente espresse, nell'orientare l'interpretazione delle
espressioni legali che individuano i tratti essenziali del reato; in
modo che la severità della legge penale si limiti a mostrarsi,
sensatamente ed equamente, solo di fronte a fatti gravidi di reale
disvalore.
Si
tratta di approccio che può essere trasposto, pur con ogni cautela e
con le dovute precisazioni, anche nell'ambito degli elementi
accidentali del reato costituiti dalle circostanze aggravanti.
Attraverso esse il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che
accrescono il disvalore della fattispecie e giustificano un
trattamento sanzionatorio più severo. Le valutazioni che attengono a
tali scelte normative sono le più disparate ed attengono solitamente
alla gravità delle conseguenze del reato, alle peculiarità della
condotta, alle connotazioni dell'atteggiamento interiore.
Tali
elementi, dunque, pur non concorrendo all'individuazione dell'offesa
tipica, rilevano ai fini della definizione del grado di disvalore del
fatto. Pure per essi si pone, dunque, un problema interpretativo
volto a cogliere nel lessico legale una portata che esprima
fenomenologie significative, che giustifichino l'accresciuta severità
sanzionatoria. Si tratta di assicurare che l'incremento di pena sia
proporzionato al grado dell'offesa o, in una prospettiva più ampia
conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle
modalità dell'aggressione del bene protetto o all'intensità
dell'atteggiamento interiore. Una lettura di tale genere dovrà
considerare i tratti, le finalità dell'aggravante e la portata del
relativo trattamento sanzionatorio.
Si
tratta di considerazioni che si attagliano particolarmente alla
fenomenologia di cui ci si occupa, giacchè l'aggravante afferisce
alla condotta inerente al momento della sottrazione che, come si avrà
modo di esporre più diffusamente nel prosieguo, costituisce il cuore
della fattispecie e ne contrassegna significativamente il disvalore
tipico.
6.
Venendo alla specifica aggravante in esame, occorre brevemente
rammentare che per tradizione risalente sino alla codificazione
preunitaria il furto è stato disciplinato non con una accurata
descrizione della fattispecie, bensì attraverso l'individuazione di
numerose tipologie tipiche costituenti circostanze aggravanti. Uno
stile esasperatamente casistico che si rinviene pure nel codice
Zanardelli, ove compaiono ben venti categorie che racchiudono
innumerevoli situazioni aggravanti, afferenti prevalentemente
all'oggetto della sottrazione od alle modalità della condotta. Esse
determinavano l'incremento della pena massima da tre a sei o ad otto
anni a seconda che si fosse in presenza di una o più circostanze.
Il
codice vigente ha sostanzialmente rispettato tale tecnica normativa.
E' stata proposta una definizione alquanto elaborata della
fattispecie e sono state al contempo tratteggiate otto categorie
aggravanti che riconducono a più affinata generalizzazione alcune
delle situazioni previste dalla precedente legislazione. Tale
generalizzazione ha condotto all'individuazione dell'aggravante della
violenza o della frode.
Come
è ben noto, tale modello casistito è accompagnato da uno speciale
rigore sanzionatorio che a molti pare eccessivo, anche in
considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato
dalla Costituzione. Infatti, la pena massima ascende da tre a sei o a
dieci anni a seconda che si sia in presenza di una o più aggravanti.
E
d'altra parte, la varietà delle situazioni aggravanti rende
difficile la perpetrazione del furto semplice.
Tradizionalmente
il furto con frode, definito nei termini esplicativi di cui si è
dato sopra conto, viene riferito a tipiche, ricorrenti situazioni
come l'uso di chiavi false o grimaldelli, la scalata dell'edificio,
l'uso di carte bancomat false e simili. Meno classificabile e più
raro l'uso di raggiri o artifizi volti ad ingannare la vittima in
modo che sia favorita l'acquisizione della cosa.
Si
richiede, in breve, una condotta caratterizzata da marcata, insidiosa
efficienza offensiva, che sorprende la contraria volontà del
detentore, vanifica le difese che questi ha apprestato a difesa della
cosa ed agevola la spoliazione della vittima.
Due
gli elementi di valutazione che si traggono da tale analisi della
fattispecie. Da un lato l'istanza di speciale funzionalità
aggressiva della condotta, attuata con artata predisposizione di
mezzi o con ingannevole messa in scena. Dall'altro, la speciale
gravità delle conseguenze sanzionatorie che da tale predisposizione
derivano.
Coniugando
tali coordinate, ne discende pianamente che un'interpretazione
dell'idea di frode, con riferimento alla fattispecie di furto, deve
tendere ad individuarvi condotte che concretino l'aggressione del
bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale
rigore sanzionatorio.
Tale
interpretazione è ispirata al principio di offensività definito nei
termini sopra esposti, afferente cioè non al nucleo offensivo del
reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa
aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini
della fattispecie aggravante. La condotta di spoliazione può
rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della
vittima. Allora, alla luce delle considerazioni generali qui
prospettate, la frode si riferisce non a qualunque banale, ingenuo,
ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un'astuta,
ingegnosa e magari sofisticata predisposizione.
Entro
questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle
tasche, in borsa, sulla persona di merce prelevata dai banchi di
vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in tale
genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole
efficienza aggressiva che caratterizza l'aggravante. Per contro, uno
sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di individuare
condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che
connotano e delimitano la fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia
pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto possibile,
l'argomentazione all'astrattezza. E' allora sufficiente richiamare i
casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la
merce, o di accorgimenti per schermare le placche antitaccheggio.
Coglie
dunque nel segno l'evocata giurisprudenza quando individua nella
condotta fraudolenta un tratto specializzante rispetto alle modalità
ordinarie, costituito da significativamente maggiore gravità a causa
delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di
tutela apprestati dal possessore del bene. Non meno puntuale appare
la sottolineatura della straordinarietà dell'azione, improntata a
scaltrezza, astuzia.
Meno
persuasivo appare il richiamo all'essenzialità dell'accorgimento ai
fini della sottrazione. La considerazione, generalmente parlando, può
avere qualche significato nell'ambito della peculiare fenomenologia
di cui ci si occupa, nella quale emerge un tratto ineliminabile di
affidamento al cliente, che limita l'efficienza delle difese, come
testimoniato dalla grandissima rilevanza complessiva delle
sottrazioni negli esercizi a self service. Si vuoi dire che, essendo
solitamente limitate le difese e forte l'affidamento, è difficile
(sempre in linea generale) che la condotta furtiva abbisogni delle
ingegnose predisposizioni che danno luogo alla condotta fraudolenta
tipica dell'aggravante. Si tratta, tuttavia, di un rilievo di sfondo
che non può obliterare la considerazione delle peculiarità di
ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto. L'argomento, in
ogni caso, risulterebbe erroneo e fuorviante ove venisse utilizzato
in contesti caratterizzati da affinate difese antifurto che
rendessero necessarie condotte di sottrazione violente o fraudolente.
In tali casi l'essenzialità di tali condotte non farebbe certamente
venire meno l'aggravante.
7.
Da quanto esposto discende il seguente principio di diritto:
"L'aggravante
dell'uso di mezzo fraudolento di cui all'art. 625 c.p., comma 1, n.
2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell'iter
criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da
insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria
volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha
apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza
offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o
nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self
service, trattandosi di banale, ordinano accorgimento che non vulnera
in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene".
8.
Da quanto precede traspare con evidenza che il comportamento della
S., consistito nel mero nascondimento della merce in una borsa, non
concreta la frode tipica. L'aggravante deve essere quindi esclusa e
la pronunzia va per tale parte annullata.
9.
L'esclusione dell'aggravante rende attuale l'altra questione
problematica rimessa a queste Sezioni unite. Il quesito è "se,
con riferimento al reato di furto, abbia la veste di persona offesa -
e sia conseguentemente legittimato a proporre la querela - il
responsabile dell'esercizio commerciale nel quale è avvenuta la
sottrazione che non abbia la qualità di legale rappresentante
dell'ente proprietario o non sia munito di formale investitura al
riguardo".
9.1.
Un primo indirizzo giurisprudenziale ritiene esplicitamente od
implicitamente che persona offesa dal reato sia il proprietario o il
titolare di altro diritto reale sul bene sottratto; e ne deduce che
il direttore di un esercizio commerciale che non ne sia pure
proprietario non è legittimato a proporre la querela. Tale figura
non riveste neppure necessariamente la veste di institore, dovendosi
verificare quali poteri l'imprenditore gli abbia attribuito (Sez. 4,
n. 44842 del 27/10/2010, Febbi, Rv. 249068; Sez. 2, n. 37214 del
19/10/ 2006, Tinnirello, Rv. 235105; Sez. 4, n. 1537 del 15/02/ 2005,
Gaffi, Rv. 231547).
Altra
giurisprudenza, invece, ritiene la legittimazione in questione in
capo all'institore, che conferisce il potere di compiere tutti gli
atti inerenti all'esercizio dell'impresa (Sez. 2, n. 1206 del
09/12/2008, Gulino, Rv. 242714).
9.2.
L'opposto orientamento della giurisprudenza assume, per contro, che
il responsabile dell'esercizio commerciale è legittimato alla
querela non in virtù di investitura formale o implicita da parte del
proprietario, bensì nella veste di persona offesa (Sez. 6, n. 1037
del 15/06/2012, Vignoli, Rv. 253888; Sez. 4, n. 41592 del 16/11/2010,
Cacciari, Rv. 249416 ; Sez. 4, n. 37932 del 08/09/2010, Klimczuck,
Rv. 248451; Sez. 5, n. 34009 del 16/06/2010, Labardi, Rv. 248411;
Sez.
5, n. 26220 del 18/03/2009, Kalandadze, Rv. 244090).
Tale
impostazione è stata recentemente tematizzata in modo assai puntuale
(Sez. 4, Cacciari, cit.). Si è considerato che l'incriminazione di
furto tutela il possesso di cose mobili. Evocando risalente ma mai
confutata giurisprudenza (Sez. 2, n. 181 del 08/02,1965, Mele, Rv.
99522), si è aggiunto che il possesso, peraltro, non va inteso
nell'accezione civilistica, ma "in senso più ampio e
comprensivo della detenzione a qualsiasi titolo, esplicantesi al di
fuori della diretta vigilanza del possessore (in senso civilistico) e
di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore".
Richiamando opinioni dottrinali, si è assunto che la norma protegge
la detenzione delle cose come mera relazione di fatto, qualunque sia
la sua origine. Tale relazione, non coincidente con i concetti
civilistici di detenzione e di possesso, rileva anche se costituitasi
senza titolo o in modo clandestino, con la conseguenza che pure il
ladro potrebbe divenire soggetto passivo del reato. Se ne desume che
il possessore nell'accezione penalistica è persona offesa e titolare
del diritto di querela. Tale veste si configura in capo al
responsabile di un esercizio commerciale, avendo costui dovere di
custodia della merce. Per contro, conclude la pronunzia, la qualità
di persona offesa difetta nel proprietario, che è non detentore
danneggiato dal reato".
In
termini coincidenti si è da ultimo ribadito che il possesso
tutelabile a garanzia degli interessi della collettività ha
un'accezione più ampia di quella civilistica includendo non soltanto
il possesso qualificato animo domini ma qualsiasi potere di fatto che
venga esercitato in modo autonomo e indipendente dalla proprietà del
bene. Tale potere si configura in capo al diretto dell'esercizio che
è custode e possessore dei beni e della merce; ed il furto vulnera
gli effetti del suo potere di vigilanza e di custodia (Sez. 6,
Vignoli, cit.).
10.
La soluzione interpretativa proposta da tale ultimo indirizzo è nel
suo nucleo corretta.
Posto
che la legittimazione alla proposizione della querela è dalla legge
attribuita alla persona offesa, occorre individuare l'interesse
protetto dalla norma incriminatrice ed il soggetto che ne è
titolare.
Il
tema agita ab immemorabile la dottrina e la giurisprudenza; e
permangono incertezze e contrasti, gravidi di implicazioni
applicative.
Nella
fattispecie di furto si riscontra una situazione per certi versi
paradossale. L'incriminazione affonda profondamente nei primordi del
diritto punitivo e costituisce una costante degli ordinamenti
giuridici. Il suo contenuto essenziale si propone con intuitiva
evidenza, tanto che nel passato il codificatore si è astenuto da una
definizione formale. Ciò nonostante risulta difficile definirne
razionalmente i tratti e rimangono aperte questioni di non poco
conto, che trovano il loro più cospicuo nucleo problematico proprio
attorno al tema del bene giuridico, di cui occorre qui occuparsi.
Sebbene
le incertezze siano molte, la lunga, tormentata riflessione giuridica
ha indicato alcune direttrici consolidate. Ispirandosi ad esse è
possibile tracciare brevemente il metodo dell'indagine.
L'intestazione
del Titolo XIII, dedicato ai reati contro il patrimonio, costituisce
solo una vaga etichetta di genere che non influenza la lettura delle
diverse incriminazioni. L'individuazione del bene giuridico protetto
da ciascuna fattispecie va compiuta cogliendone le peculiarità alla
stregua del dettato normativo, ed assicurando al contempo la coerenza
del sistema di protezione, nonchè una salda linea di confine tra i
diversi illeciti che compongono la categoria dei reati contro il
patrimonio. Si tratta di compiere un'indagine scevra da apriorismi ed
attenta da un lato alla fenomenologia, agli interessi della vita che
si trovano dietro le disposizioni; e dall'altro ai tratti
significativi della concreta disciplina legale, tentando di evitare
incoerenze sistematiche e di assicurare, soprattutto, la sensatezza
delle soluzioni interpretative alla luce dei loro risultati
applicativi.
Orbene,
guardando al carattere costante, universale, remotissimo del reato di
furto, traspare che l'incriminazione trova la sua più profonda
giustificazione in una primordiale istanza di protezione della vitale
relazione tra l'uomo ed i beni.
La
spoliazione che caratterizza l'illecito mina alla radice tale
relazione e minaccia al contempo le basi della pacifica, civile
convivenza. E' un atto antisociale che vulnera l'interesse pubblico
alla difesa della relazione possessoria e giustifica la punizione.
Sebbene
la figura giuridica assuma storicamente diverso peso a seconda delle
differenti gerarchie di valori, tale nucleo costituisce una costante.
Come è stato efficacemente affermato, il furto è innanzitutto
sottrazione, una condotta che, tuttavia, incide su una sfera di
interessi complessi, talvolta difficili da dipanare. Come pure è
stato considerato, il furto è un fatto antisociale che si concreta
nella sottrazione, ancor prima che nell'inflizione di un danno
patrimoniale.
Tale
essenziale aspetto aggressivo, di indubbia rilevanza pubblicistica,
si trova ben espresso nella definizione legale che, come è stato da
più parti convincentemente considerato, trova il suo cuore nella
descrizione della condotta di sottrazione della cosa mobile altrui a
chi la detiene. Diversi sono i tratti significativi del reato: la
sottrazione, l'impossessamento, il fine di profitto, l'altruità
della cosa, la detenzione da parte della vittima. Ma la spoliazione,
sebbene non esprima il momento consumativo, che si compie con
l'acquisizione di un autonomo possesso al di fuori della sfera di
vigilanza della vittima, tratteggia il momento aggressivo, il culmine
della trasgressione e del perturbamento socialmente e giuridicamente
rilevante: esprime l'archetipo della condotta di fattispecie.
Tale
constatazione orienta l'individuazione dell'interesse della vita
oggetto di protezione e del soggetto che ne è riconosciuto titolare
entro la trama della fattispecie. Il tema è fortemente legato
all'individuazione della vittima dell'aggressione, che il legislatore
denomina detentore. Esso si colloca nel più generale ambito che
attiene al significato, in ambito penale, di termini civilistici. Al
riguardo il lungo lavorio teorico ha prodotto risultati largamente
condivisi che qui è sufficiente tratteggiare sinteticamente:
nell'ambito
dei reati contro il patrimonio le categorie civilistiche non possono
essere pedissequamente riproposte. Il particolare, l'utilizzazione
nel significato civilistico dei termini "detenzione" e
"possesso" implicherebbe rilevanti vuoti di tutela e
difficoltà nella definizione della linea di confine tra i diversi
reati e particolarmente tra furto ed appropriazione indebita. Tali
termini vanno dunque modellati sulle esigenze dogmatiche del diritto
penale.
L'istanza
di autonomia, unita all'indicata individuazione del nucleo aggressivo
della fattispecie nella sottrazione al detentore, accredita il
diffuso, condiviso indirizzo teorico che coglie l'interesse protetto
in una qualificata relazione di fatto con il bene e,
conseguentemente, designa come soggetto passivo del reato la persona
che tale relazione intrattiene. La relazione di fatto tra l'uomo ed
il bene è il valore che il reato aggredisce e la legge penale
sanziona.
E'
conforto a tale opinamento l'insistenza, nei lavori preparatori,
sullo scopo di protezione del possesso di fatto separato dalla
proprietà, della detenzione come potere connotato dal minimo degli
attributi del possesso; accompagnata dalla precisazione che non è
escluso che il delitto possa consumarsi merce la sottrazione della
cosa alla persona che giuridicamente possiede.
I
tratti di tale essenziale detenzione qualificata, usualmente
denominata "possesso penalistico", devono essere meglio
definiti.
Come
si è accennato, la definizione civilistica di detenzione non trova
spazio nell'ambito di cui ci si occupa: essa condurrebbe sul piano
applicativo alla incongrua configurazione del reato di furto, e non
di appropriazione indebita, in tutti i casi in cui il detentore
nomine alieno (il locatario, il comodatario ecc.) apprenda il bene.
Tale
soggetto, invece si può trovare già con la cosa in una relazione
diretta, significativa, qualificata appunto, con la conseguenza, che
nella sua azione non è possibile riconoscere il tratto tipico del
furto, costituito appunto dalla sottrazione ad altri che intrattiene
col bene una propria relazione fattuale. Tale relazione di detenzione
qualificata, dunque è condizione negativa del furto. Essa, per
contro, ben si addice alla figura dell'appropriazione indebita e ne
costituisce condizione positiva. La stesso ordine di idee può essere
espresso affermando che solo quando si concreta la descritta
materiale azione di sottrazione al detentore qualificato si configura
il reato di furto. Insomma, la nozione di detenzione qualificata è
funzionale alla condotta di sottrazione, ne individua il bersaglio.
Quando
ci si sofferma a cogliere il tratto essenziale della figura di cui ci
si occupa (il possesso penalistico) vi si scorge una relazione di
fatto autonoma, una signoria di fatto che consente di fruire e
disporre della cosa in modo indipendente, al di fuori della sfera di
vigilanza e controllo di una persona che abbia su di essa un potere
giuridico maggiore. Tale autonomia può essere definita in termini
negativi: non vi è signoria di fatto del dominus, nè altrui
custodia o vigilanza. Entro tale ordine concettuale, conviene
ripeterlo, si usano in una peculiare accezione penalistica i termini
possesso e possessore.
Tale
soluzione interpretativa, come si è accennato, consente di definire
con sufficiente chiarezza la linea di confine tra furto ed
appropriazione indebita. La detenzione qualificata non rende
ipotizzabile la sottrazione da parte dello stesso detentore che,
invece, ben può rendersi protagonista di atti di appropriazione
indebita.
Il
possesso penalistico di cui si parla non è necessariamente
caratterizzato da immediatezza, a differenza di quello civilistico
che, come è noto, può configurarsi anche per mezzo di altra
persona. Esso, peraltro, non implica necessariamente una relazione
fisica con il bene. E' concepibile pure il possesso a distanza,
quando vi sia possibilità di ripristinare ad libitum il contatto
materiale; o anche solo virtuale, quando vi sia effettiva possibilità
di signoreggiare la cosa. Per ripetere un antico ed efficace esempio,
il possessore della valigia rimane tale anche se essa è nelle mani
del portabagagli che è, invece, mero detentore.
L'indicata
interpretazione della fattispecie attribuisce rilievo anche alla
relazione possessoria non sorretta da base giuridica, clandestina o
addirittura illecita, con la conseguenza che costituisce furto pure
la sottrazione della refurtiva al ladro. Tale soluzione, come si è
visto, è accreditata anche dalla giurisprudenza di questa Corte e
trova tradizionale, razionale giustificazione nella considerazione
che la spoliazione in danno del ladro, riguardata nell'ottica
pubblicistica del diritto penale, non rende meno aggressiva e
biasimevole la condotta e giustifica la reazione punitiva.
Per
quel che qui maggiormente interessa, la qualificata relazione di
fatto di cui si parla può assumere diverse sfumature, che
comprendono senz'altro il potere di custodire, gestire, alienare il
bene. Essa, dunque, si attaglia senz'altro alla figura del
responsabile dell'esercizio commerciale che, conseguentemente, vede
vulnerati i propri poteri sul bene; ed è perciò persona offesa,
legittimata alla proposizione della querela.
11.
Le conclusioni cui si è sin qui giunti non esauriscono in tema di
cui ci si occupa. Occorre infatti chiedersi se l'indagine fecalizzata
sulla già descritta lesione della qualificata relazione di fatto tra
la vittima e il bene esaurisca la disamina dei tratti tipici della
fattispecie. La domanda non è puramente teorica: si tratta di
comprendere se, oltre al detentore qualificato, altri soggetti
possano veder lesi interessi istituzionalmente protetti dalla norma
incriminatrice e siano quindi legittimati alla proposizione della
querela.
A
tale riguardo occorre rammentare che una scuola di pensiero opposta a
quella sin qui prospettata coglie nel furto la lesione di situazioni
giuridiche e non meramente fattuali, solitamente individuate nella
proprietà e nei diritti reali e di obbligazione caratterizzati,
rispetto al bene, dal potere di disporne, usarlo, goderlo. Tali
diritti, si assume, costituiscono il vero, primario oggetto giuridico
della fattispecie. Si argomenta che il furto aggredisce
necessariamente i poteri fondamentali esercitabili sulla cosa e cioè
la disponibilità ed il godimento.
Tale
indirizzo coglie senza dubbio un non trascurabile lato della
fattispecie e trova sostegno in diversi argomenti. Gli stessi
codificatori, pur ponendo insistentemente l'accento sul furto come
aggressione ad una relazione di fatto socialmente importante, non
erano inconsapevoli dell'intreccio di situazioni che si possono
riscontrare nella realtà. Si è perciò chiarito, come si è già
accennato, che evocando il detentore si è inteso fare riferimento
alla persona che abbia sulla cosa il minimo degli attributi del
possesso e cioè il potere di fatto su di essa, e non si è escluso
che il delitto possa consumarsi anche con la sottrazione al soggetto
che possiede. Si è aggiunto che, ove la tutela giuridica è
stabilita per i casi nei quali concorra un minimo di condizioni di
fatto, deve ritenersi che la stessa sia estensibile a tutte le
ipotesi nelle quali si verifichino condizioni che sono al di là di
quel minimo.
E'
chiara, in tale approccio, la sottolineatura della istituzionale
rilevanza di situazioni giuridiche, come il possesso in senso
civilistico, che possono non implicare pure la ridetta relazione
fattuale di detenzione qualificata. Tale rilevanza traspare
maggiormente se si considera che situazioni giuridiche e situazioni
fattuali possono essere separate, ripartite in varie guise, generando
incertezze applicative ed al contempo teoriche difficoltà nella
configurazione unitaria della fattispecie. Emerge, insomma, che al
furto non è estraneo il tema della lesione di situazioni giuridiche
oltre che meramente fattuali: esse assumono formale evidenza quando,
nella fattispecie concreta, sono distinte dalle relazioni di mero
fatto.
Tale
ordine di idee trova conforto nella definizione legale, che fa leva
sull'altruità del bene sottratto. Non è mancato chi ha attribuito a
tale requisito di fattispecie un ruolo minore e quasi superfluo.
Certamente l'evocazione dell'altruità del bene vale ad escludere la
rilevanza penale della sottrazione della res propria.
Tale
soluzione di un tema classicamente controverso trova peraltro
conforto anche nell'art. 627 c.p. che punisce la sottrazione di cosa
comune con una pena più lieve di quella prevista per il reato di
furto di cui all'art. 624 c.p.; e sarebbe irrazionale punire con la
più severa sanzione prevista da tale ultima fattispecie una condotta
sicuramente meno grave, costituita dalla sottrazione compiuta da chi
ha la piena proprietà della cosa.
Tuttavia
ciò non basta. L'altruità, come è stato da più parti ritenuto,
pone in luce un importante profilo di fattispecie costituito
dall'aggressione alle situazioni giuridiche che sono alle spalle del
potere concreto sulle cose, cioè delle relazioni fattuali cui si è
sopra ripetutamente fatto cenno.
Tale
linea interpretativa trova sostegno nelle situazioni nelle quali si
mostrano, anche in modo conclamato, i tratti della fenomenologia di
spoliazione che caratterizza la fattispecie; e tuttavia manca in capo
ad alcuno la signoria di fatto sulla cosa. Si fa riferimento, ad
esempio, allo sciacallaggio, alla sottrazione dei beni del defunto.
Qui,
come è chiaro, manca in radice un soggetto che intrattenga con il
bene la relazione di qualificata detenzione tipica del furto; e
tuttavia il metro della sensatezza, alimentato dalla realistica
considerazione del mondo della vita, induce a scorgere, ed anche in
forma marcata, l'offensività tipica della fattispecie.
A
tale riguardo è interessante osservare che il codice Zanardelli
aveva disciplinato tale situazione affermando che "il delitto si
commette anche sopra le cose di una eredità non ancora accettata"
(art. 402). Orbene, comunque si voglia configurare la relazione tra
l'erede ed il bene ereditario, si tratta certamente di relazione
giuridica e per nulla necessariamente fattuale. D'altra parte, il
silenzio del codice Rocco sul punto non è certo espressione di
benevolenza nei confronti dello sciacallo, bensì del sicuro
convincimento che la fattispecie protegga non solo relazioni fattuali
ma anche relazioni giuridiche, postulate dal requisito di fattispecie
costituito, appunto, dall'altruità della cosa.
Una
situazione non molto dissimile si configura in casi come quello in
esame. Si sono esposte le ragioni che consentono di attribuire al
direttore dell'esercizio commerciale la veste di persona offesa, per
via del pregiudizio socialmente protetto che questi subisce per
effetto della sottrazione del bene che gli è affidato. Orbene, in
tale situazione il proprietario è al contempo offeso nel proprio
rilevante interesse giuridico inerente alla disposizione ed alla
fruizione della cosa. Non sarebbe sensato pensare che tale situazione
giuridica non sia oggetto di diretta, primaria protezione nell'ambito
della fattispecie penale; che essa cioè non esprima la lesione del
bene giuridico, oltre che un danno materiale. D'altra parte, comunque
si vogliano vedere le cose, la situazione del proprietario (o, se si
vuole, del possessore iure civili) non è riconducibile in alcuna
guisa alla ridetta detenzione qualificata del direttore
dell'esercizio.
Da
quanto esposto si trae una conclusione univoca. La fattispecie
protegge ad un tempo la detenzione qualificata, nonchè la proprietà
e le altre situazioni giuridiche cui si è già ripetutamente fatto
cenno. Tale duplicità viene in evidenza, per quel che qui interessa,
quando situazioni giuridiche soggettive e situazioni fattuali fanno
capo a diverse persone. In tal caso, la lesione del bene giuridico è
duplice: proprietario e possessore in senso penalistico sono persone
offese e legittimate a proporre querela.
La
distinzione in questione non è per nulla formale: come si è
ripetutamente esposto, vi sono situazioni nelle quali gli interessi e
le relazioni che si trovano nella multiforme fenomenologia sono
scomposti e si configurano in capo a diversi soggetti. In conseguenza
disconoscere la posizione di uno dei soggetti lesi, non riconoscergli
la legittimazione a promuovere la protezione penale, risulterebbe
riduttivo e privo di giustificazione razionale.
Anche
dal punto di vista dogmatico non si scorgono ragioni che impediscano
di delineare plurime lesioni del bene giuridico e diversi soggetti
titolari dell'interesse protetto. E' ben vero che nella
configurazione qui prospettata nè la situazione giuridica nè quella
fattuale concretano immancabilmente il bene giuridico protetto.
Tuttavia
ciò che interessa è che ambedue rechino senza incertezze i segni
dell'offesa tipica. Nulla, in sostanza, si oppone a considerare le
dette situazioni come distinte configurazioni dell'unitario genus
costituito dal bene giuridico di fattispecie.
12.
Da quanto esposto si trae il seguente principio di diritto:
"Il
bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo
dalla proprietà e dai diritti reali e personali di godimento, ma
anche dal possesso, inteso nella peculiare accezione propria della
fattispecie, costituito da una detenzione qualificata, cioè da una
autonoma relazione di fatto con la cosa, che implica il potere di
utilizzarla, gestirla o disporne. Tale relazione di fatto con il bene
non ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e
si può configurare anche in assenza di un titolo giuridico, nonchè
quando si costituisce in modo clandestino o illecito. Ne discende
che, in caso di furto di una cosa esistente in un esercizio
commerciale, persona offesa legittimata alla proposizione della
querela è anche il responsabile dell'esercizio stesso, quando abbia
l'autonomo potere di custodire, gestire, alienare la merce".
13.
Alla luce di tale enunciazione è senz'altro rituale la querela
proposta dalla responsabile del grande magazzino Oviesse, afferente
alla sottrazione di merce esposta per la vendita. Il pertinente
motivo di ricorso è dunque infondato e va rigettato.
14.
E' pure infondato l'ultimo motivo di ricorso. La sentenza impugnata
considera che l'imputata è gravata da recidiva reiterata, specifica,
infraquinquennale; nè si scorgono ragioni concrete che possano
giustificare la concessione delle attenuanti generiche. La pena,
d'altra parte, è stata determinata in misura poco superiore al
minimo ed è perciò del tutto congrua.
In
tale argomentato apprezzamento non si scorgono vizi logici o
giuridici, essendosi attribuito preminente rilievo al negativo
profilo di personalità, ed essendosi altresì esclusa la necessità
di diminuire la pena per adeguarla al fatto. Tale valutazione di
merito non può essere rivisitata nella presente sede di legittimità.
15.
L'esclusione dell'aggravante di cui al ridetto art. 625 c.p., comma
1, n. 2, impone l'annullamento della pronunzia limitatamente a tale
punto, con rinvio alla Corte di appello di Perugia per la
rideterminazione della pena. Il ricorso deve essere per il resto
rigettato.
P.Q.M.
Annulla
la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di
cui all'art. 625 c.p., comma 1, n. 2, che esclude, e rinvia alla
Corte di appello di Perugia per la rideterminazione della pena.
Rigetta
il ricorso nel resto.
Così
deciso in Roma, il 18 luglio 2013.
Depositato
in Cancelleria il 30 settembre 2013
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