del Dott. Davide Cappa*.
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Con
ordinanza del 30 gennaio 2014, la sesta sezione penale della Suprema Corte ha
rimesso alle Sezioni Unite la controversa questione circa l’applicabilità del
principio di irretroattività alla disciplina normativa della confisca di
prevenzione. In attesa di leggere ed annotare tale provvedimento, si intende offrire
ai gentili lettori alcuni spunti di riflessione in ordine a questa particolare
forma di ablazione patrimoniale.
Confisca: il
sostantivo ricorre frequente ogniqualvolta si parli di criminalità organizzata.
Molto spesso, infatti, i media riferiscono di operazioni di polizia che
portano alla «confisca dei beni» nella disponibilità di individui
particolarmente vicini ad ambienti mafiosi. Accade non di rado, però, che il
termine sia utilizzato generalmente, senza che ad esso venga attribuito il nomen
iuris corretto.
Nell'ottica
di una efficiente politica criminale volta a colpire le associazioni di tipo
mafioso sul versante finanziario, la confisca di prevenzione è, senza dubbio,
la misura patrimoniale maggiormente utilizzata.
Il tema è di
enorme attualità e, recentemente, la disciplina è stata rivisitata dal c.d. Codice
Antimafia[1] il
quale, tuttavia, non sembra aver risolto i problemi attinenti all’istituto
oggetto d’esame.
La confisca
di cui si discute appartiene al genus delle misure di prevenzione e,
pertanto, dovrebbe essere finalizzata a prevenire la commissione di reati
interrompendo il nesso di disponibilità tra un bene ed una persona considerata
socialmente pericolosa, a prescindere che la stessa sia condannata in seguito
all'accertamento di un fatto-reato. Eppure, risulta difficile considerarla
tale: è innegabile, infatti, il suo contenuto afflittivo che, come noto, è
«carattere essenziale e costante dello stesso concetto di pena»[2]. Ed
infatti, se da un lato il decreto adottato dal tribunale per disporla devolve
allo Stato i beni che ne sono oggetto in via definitiva, diversamente dai veri
provvedimenti di prevenzione per loro natura temporanei giacché condizionati al
permanere dello stato di pericolosità sociale, dall'altro, le recenti riforme
l'hanno spinta sempre più sotto l'egida di una vera e propria sanzione
patrimoniale, permettendone l'applicazione a prescindere dalla preventiva irrogazione
di una misura personale, sganciandola, così, da qualsiasi giudizio circa la
personalità del suo destinatario.
Insomma,
nonostante l'etichetta formale che il legislatore le ha attribuito, il
contenuto effettivo di tale confisca appare identico a quello di una vera e
propria misura sanzionatoria.
Ebbene,
qualora tale misura seguisse l'accertamento di un fatto penalmente rilevante,
nessuna critica le dovrebbe muoversi; l'istituto, però, è a dir poco assurdo
ove se ne considerino i presupposti applicativi.
Dal punto di visto soggettivo, l'art. 16 Cod.
Ant. prescrive che la misura si applica agli «indiziati di appartenere ad
associazioni di tipo mafioso»; pertanto, un mero indizio di partecipazione ad
un sodalizio criminale è da solo sufficiente a giustificare l'azione di
prevenzione con la precisazione che, qualora il quadro indiziario sia grave
preciso e concordante, è doveroso esperire quella penale volta all'accertamento
del fatto-reato di cui all'art. 416 bis c.p.
Dal punto di
vista oggettivo, poi, l'articolo 24 Cod. Ant. prescrive che il tribunale
dispone la confisca dei beni nella disponibilità dell'indiziato qualora
quest'ultimo non sia in grado di giustificarne la legittima provenienza e
questi risultino di origine illecita, ovvero quando il loro valore risulti
sproporzionato al reddito dichiarato ai fini fiscali o alla attività economica
del proposto.
L'ipotesi in cui sia fornita in giudizio la
prova, anche indiziaria, dell'origine illecita di uno o più beni non appare
particolarmente problematica. Tutt'altre considerazioni, invece, devono farsi
con riferimento all'elemento della sproporzione. La norma citata legittima il
provvedimento di confisca anche nel caso in cui il giudice ravvisi,
semplicemente, una discrepanza tra il valore dei beni nella disponibilità del
proposto e la sua dichiarazione dei redditi. La semplice sperequazione tra
reddito e valore dei beni, tuttavia, altro non è, a ben vedere, che un mero
indizio di origine illecita degli averi dell'indiziato.
Orbene, come
è noto, l'art. 192 del codice di rito ammette la prova indiziaria nel solo caso
in cui ricorrano indizi gravi precisi e concordanti; così, non può dedursi la
partecipazione di Tizio ad una consorteria di stampo mafioso da un mero ed isolato
indizio, né può provarsi l'origine illecita dei suoi averi o addirittura
dell'intero suo patrimonio sulla scorta del solo elemento della sproporzione.
Eppure, a ben vedere, in un numero statisticamente imponente di casi, la
confisca di prevenzione si fonda esclusivamente proprio sulla somma algebrica
di tali indizi.
In altri
termini, si applica una misura sostanzialmente repressiva senza che sussista
alcuna prova circa la partecipazione del proposto ad una consorteria di stampo
mafioso, né sia provata l'origine illecita dei suoi averi. Ed infatti, i
presupposti fondanti il provvedimento definitivo di confisca, ancorati allo
scivoloso terreno dell’indizio, sono assolutamente cementati nell'incertezza.
La misura, pertanto,
lungi dall'essere effettivamente preventiva, volta cioè a prevenire la
commissione di futuri reati, sembra finalizzata, piuttosto, a disarticolare le
organizzazioni criminali sul versante finanziario facendo a meno di qualsiasi
tipo di accertamento; così, mentre nel processo penale è necessario addurre
prove per addivenire alla dichiarazione della penale e personale responsabilità
dell’imputato, nel procedimento di prevenzione il legislatore si accontenta,
invece, di meri indizi per devolvere in via definitiva allo Stato i beni nella
disponibilità di un soggetto che neppure è stato condannato.
Nonostante
la finalità ultima di tale istituto sia senza dubbio meritevole, è assurdo, francamente,
che in uno Stato democratico si possa applicare una misura squisitamente
sanzionatoria sulla scorta di meri indizi, in esito ad un procedimento dove
regna sovrana la più totale rinunzia a qualsivoglia tipo di accertamento[3]. A ben
vedere, peraltro, esistono altri istituti che perseguono le medesime finalità e
che sembrano meglio garantire alcuni diritti costituzionalmente garantiti. Si
pensi, ad esempio, alla confisca ex art. 12 sexies D.l.
08.06.1992, n. 306, conv. in legge 07.08.1992, n. 356, i cui presupposti sono i
medesimi previsti per la confisca di prevenzione se non fosse per la necessaria
e preventiva condanna del destinatario che, pertanto, salva questa particolare
misura di sicurezza da tutte le considerazioni critiche appena fatte.
Potrebbe
obiettarsi a tali conclusioni che la misura è assolutamente efficace nonché legittimata
da evidenti ragioni pratiche. Tali rilievi sono solo in parte condivisibili; è
impensabile, infatti, dimenticare e maltrattare quel ventaglio di principi
costituzionali cui si ispira l'intera materia penale al solo fine di fronteggiare
un fenomeno, quello dell’associazionismo criminale, che ben può essere contrastato
con strumenti simili ma, al contempo, più rispettosi della carta fondamentale.
*Davide Cappa nasce a Camposampiero (Padova) l’11 maggio 1988.
Dopo il diploma di maturità scientifica, consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza
presso l’Università degli studi di Ferrara, discutendo nel dicembre 2013 una
tesi in Diritto Processuale Penale riportando la votazione di 110/110.
E’ praticante avvocato presso un noto studio legale di Padova che si
occupa principalmente di diritto penale. E’ fortemente interessato, in
particolare, al diritto penale tributario, fallimentare ed ambientale nonché agli
strumenti di contrasto alla criminalità organizzata.
Intende ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione forense e
partecipare, poi, al concorso in magistratura.
CONTATTI:
E-mail: davide.cappa@yahoo.it
[1] Il riferimento è allo ormai noto D. Lgs. 06 settembre
2011, n. 159.
[2] Il rilievo è di F. Mantovani, Diritto Penale. Parte Generale, 2007, p. 713.
[3] Circa il difficile (impossibile?) rapporto tra la
democrazia e la presenza in un determinato territorio di una criminalità
organizzata economicamente forte, si leggano le belle pagine di L. Ferrajoli,
Criminalità organizzata e democrazia,
in Studi sulla questione criminale,
3, 2010, pp. 15-23.