lunedì 30 aprile 2012

La responsabilità oggettiva nel diritto penale.


 Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

Per rimanere sempre aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ----->
1. Conflitto tra la responsabilità oggettiva e i principi costituzionali.
La responsabilità oggettiva è prevista a livello normativo nell’articolo 42 comma III del codice penale, laddove tale norma dispone che la legge determina i casi in cui l’evento è posto a carico del soggetto agente “altrimenti”, cioè a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, e sulla base del mero nesso di causalità. Per tale principio una persona può essere condannata alla fine di un processo penale sulla base del fatto che l’evento sia una conseguenza della sua azione od omissione, senza che rilevi il legame psichico tra soggetto e fatto. Secondo la dottrina la responsabilità oggettiva trova la sua ragion d’essere nel fatto che l’ordinamento abbia interesse a che determinati eventi non si verifichino. Tale necessità, reputata meritevole dall’ordinamento giuridico, non appare certamente in linea con alcune norme costituzionali, tanto da aver portato nel tempo (memorabile e fondamentale la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale) ad una rivisitazione di tutte, o quasi, le norme che comportano tale tipo di responsabilità. E ciò perché l’imputazione della responsabilità obbiettiva ostacola il funzionamento di due principi rilevanti a livello costituzionale, quali il diritto alla libertà personale (art. 13) e il principio di colpevolezza (di cui all’articolo 27). E’ chiaro sin dal principio come una responsabilità di tipo obbiettivo possa compromettere la libera autodeterminazione delle persone in quanto, dal momento in cui Tizio sa che può essere punito se la sua condotta può causare un evento non tollerato dall’ordinamento, al di là di una sua volontà di causarlo o di una sua imprudenza o negligenza, sarà molto più propenso a non tenere quella condotta. Risulterebbe, in tal modo, che l’ordinamento penale vada ad influire sulle azioni umane e sulla capacità di autodeterminarsi delle persone, con palese restringimento della garanzia connessa ad un valore assoluto come la libertà.
Ancora più problematico il rapporto tra la responsabilità oggettiva e l’articolo 27 Cost. Come si ebbe già modo di notare quando parlavamo della colpevolezza, l’articolo 27 Cost. presenta al comma I un principio degno di attenzione: la responsabilità penale è personale. Questo principio fu valutato secondo varie accezioni: 1) non esiste responsabilità per fatto altrui, salvo il caso in cui vi siano posizioni di garanzia per cui un soggetto ha l’obbligo giuridico di evitare il fatto illecito di terzi; 2) la responsabilità penale è della persona fisica e non dell’ente, questo qualora si accetti la natura amministrativa della responsabilità delle persone giuridiche disciplinata dal d.lgs. 231/2001; 3) la responsabilità penale è per fatto proprio. Tale ultima accezione faceva risultare costituzionalmente legittimo l’imputazione obbiettiva dell’evento, in quanto era sufficiente che l’evento appartenesse obbiettivamente all’agente, cioè fosse una conseguenza esteriore della sua azione od omissione. Reputare l’accezione predetta degna di considerazione in senso positivo è certamente fuorviante, poiché non si tiene in considerazione non solo il conflitto che essa comporta con l’articolo 13 Cost. prima citato, ma anche e soprattutto quello con il comma II del medesimo articolo, che dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. La disapplicazione di questo principio costituzionale è lampante laddove si consideri che un soggetto non legato psichicamente all’evento causato non comprenderà il trattamento sanzionatorio, poiché egli giustificherà la reazione dell’ordinamento solamente qualora abbia voluto l’evento lesivo o l’abbia causato con un comportamento comunque avvertito come biasimevole. La mancata accettazione dell’evento genera la percezione della pena come irragionevole ed ingiusta e paralizza la finalità rieducativa per il semplice motivo che il reo non si sottoporrà a tale trattamento, stante il fatto che egli si sentirà incolpevole rispetto all’accaduto.     

giovedì 26 aprile 2012

Il reato omissivo.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

Per rimenere sempre aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ------>

1. Diritto penale solidaristico e obbligo giuridico di agire.
Mentre nel reato commissivo la condotta si fonda sul compimento di un’azione, nel reato omissivo essa si fonda sull’omissione di un’attività doverosa per legge. L’omissione può atteggiarsi come pura inerzia (non facere) o come compimento di azione diversa da quella richiesta (aliud facere).
Il reato omissivo trova la sua ratio nell’essenza solidaristica del diritto penale, laddove l’ordinamento penale pone obblighi di azione per tutelare beni giuridici altrui di importanza fondamentale (normalmente legati all’integrità fisica e alla vita). I reati omissivi possono essere distinti in due categorie: i reati omissivi propri e i reati omissivi impropri. Quelli propri sono reati di mera condotta, poiché è penalmente rilevante che il soggetto abbia omesso un’azione richiesta dalla norma penale, senza che sia necessario che a ciò consegua un evento in senso naturalistico. Se seguiamo la concezione di evento in senso giuridico, potrà dirsi che i reati omissivi propri sono dei reati con evento di pericolo, concreto o astratto a seconda di se il concetto di pericolo sia rilevabile al livello del tenore letterale della norma. I reati omissivi propri trovano sempre la propria fonte nella legge penale. I reati omissivi impropri sono reati di evento (se si segue la concezione naturalistica di evento), o reati con evento di danno (se si segue la concezione giuridica di evento). Ciò significa che ad una condotta omissiva deve necessariamente conseguire una lesione di un bene giuridico tutelato. I reati omissivi impropri non sono tipizzati dalla legge penale, bensì sono ricavabili dal combinato disposto tra l’art. 40 co. II c.p. e la fattispecie normativa di parte speciale che verrà in rilievo volta per volta poiché contenente l’evento che il soggetto (non) agente ha “cagionato” con la sua condotta inerte o difforme da quella richiesta. L’articolo 40 comma II ci dice che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Esso è la formula di traduzione dei reati commissivi di parte speciale in reati omissivi corrispondenti. Sono reati omissivi a forma libera poiché ciò che è rilevante è che un soggetto non ha impedito il verificarsi un evento che doveva evitare; ecco perché, stante l’equivalenza non impedire-cagionare, si parla a proposito dei reati omissivi impropri di reati commissivi mediante omissione. L’utilizzo della clausola di equivalenza di cui all’art. 40 è giustificata da una impossibilità di tipizzazione di ogni singolo comportamento omissivo che possa originare un evento che il soggetto avrebbe dovuto impedire. Certamente non tutti i reati commissivi di parte speciale possono essere riportati all’equivalente fattispecie omissiva. Sono certamente da escludere i reati di pura condotta, i reati di mano propria, i reati con forma vincolata di tipo positivo. La fonte dell’obbligo giuridico di impedire l’evento ha fornito problemi di definizione, in quanto vi erano due tesi contrapposte, a riguardo. La prima teoria fu quella formale (detta anche “del trifoglio”) poiché riteneva che tale fonte fosse da riscontrare nella legge, nel contratto e nella precedente azione pericolosa. Altri Autori (ANTOLISEI) aggiunsero ulteriori fonti, come la negotiorum gestio e la consuetudine. Tra l’altro, tale teoria non andava esente da critiche, poiché dubbi sussistevano riguardo alla precedente azione pericolosa e sui requisiti della negotiorum gestio. Sulla prima si diceva che già l’azione fosse da considerare rilevante penalmente, e di conseguenza non doveva parlarsi di un reato omissivo ma di un reato commissivo colposo. Sulla seconda si disse che essa avrebbe potuto essere reputata fonte dell’obbligo solo nel caso in cui avesse costituito o accresciuto il pericolo di lesione del bene giuridico. Alla teoria formale si contrapponeva la teoria sostanziale della posizione di garanzia. Cioè si riteneva, in base a tale teoria, che la fonte dell’obbligo fosse da riscontrare in una particolare posizione di tutela che vedeva implicato un soggetto rispetto a beni giuridici altrui. Questa seconda teoria era (ed è) idonea a spiegare l’efficacia che bisogna riconoscere alla concreta presa in carico del bene giuridico, dalla cui verifica si sarebbe dovuto prescindere adottando la teoria formale. Attualmente le teorie devono essere sintetizzate, cioè unite concettualmente l’una all’altra. Cioè, dovrà accettarsi come fonte la posizione di garanzia giuridicizzata, ovvero il particolare legame che unisce un soggetto a beni giuridici a lui esterni e appartenenti a soggetti non in grado di tutelarli autonomamente, che sia un legame che trova il proprio riconoscimento normativamente, cioè sia al livello di fonti normative (legge, consuetudine), sia al livello dell’autonomia negoziale (negotiorum gestio, contratto). La posizione di garanzia potrà essere di controllo e di protezione. Quella di controllo garantisce beni giuridici indeterminati da fonti di pericolo determinate. Quella di protezione garantisce beni giuridici determinati da fonti di pericolo indeterminate.

lunedì 23 aprile 2012

Il concorso di persone nel reato

Appunti di diritto penale

Filippo Lombardi

Per rimanere sempre aggiornati con la rubrica "appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ------->

 Una fattispecie di reato può essere compiuta da un solo soggetto agente o da più autori. In quest’ultimo caso, sorge l’ipotesi del concorso di persone nel reato. La caratteristica basilare è quindi data dal fatto che più persone cooperano al fine di eseguire il reato. Dal punto di vista tipologico, possiamo avere varie ipotesi:
1) concorso eventuale di persone nel reato.
2) concorso necessario di persone nel reato (c.d. reato plurisoggettivo).
3) concorso esterno nel reato plurisoggettivo.

Iniziamo a parlare della prima tipologia.
Essa è disciplinata dall’attuale codice penale, agli articoli 110 e successivi. Si può fare un duplice discorso, per capire la problematica sottesa all’argomento. Il primo discorso è un discorso di tipizzazione legislativa ai fini sanzionatori. Esistono due tipi di tipizzazione possibile. Il primo è quello che regola la pena a seconda dei ruoli dei soggetti (tipizzazione differenziata), il secondo invece considera i soggetti in maniera unitaria (tipizzazione unitaria), e quindi li sottopone alla pena comune. Il nostro codice adotta formalmente la seconda soluzione, all’articolo 110 già citato in precedenza, ma sostanzialmente fa salva la possibilità di diversificazione secondo quanto prescritto dalle norme successive.
Il secondo discorso possibile in materia di più soggetto cooperanti nel reato è legato alla

venerdì 20 aprile 2012

Il reato continuato.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

Per rimanere sempre aggiornati co la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ---->

La vicenda processuale.
L’imputata, condannata due volte per reati legati alla detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, chiede che venga applicata la continuazione tra i due reati, e riformulata la pena con una di più tenue entità in virtù dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 81 cod. pen. I reati per i quali è stata condannata riguardano due episodi criminosi di smercio di cocaina in zone malavitose del napoletano, commessi a distanza di dieci giorni l’uno dall’altro. Dalle prove a carico, e segnatamente dalle intercettazioni telefoniche risulta come prima della commissione dei due fatti di reato, la donna e il suo interlocutore si scambiavano messaggi in codice, facendo riferimento alla droga chiamandola con il nome di generi alimentari.     

IL CONCORSO DI REATI IN GENERALE
Il caso presentato offre particolari spunti per trattare dell’argomento inerente al concorso di reati e, segnatamente, alla continuazione tra reati di cui all’articolo 81 comma II del codice penale vigente. Il reato continuato è un particolare tipo di concorso materiale di reati, il quale beneficia di un trattamento diverso quoad poenam rispetto a quello previsto per quest’ultimo. Il concorso materiale di reati, infatti, si ha quando un soggetto con più azioni od omissioni viola più volte la stessa o diverse disposizioni normative e la pena finale è calcolata secondo il meccanismo tot crimina tot poenae, cioè adottando come criterio quello della somma delle pene relative ai singoli reati, nel rispetto dei limiti sanciti dagli articoli 72 e successivi. Se un soggetto agente, con la stessa azione od omissione, viola più volte la stessa norma o più disposizioni normative, il concorso è detto “formale” e il reo soggiace ad una pena calcolata secondo il sistema del cumulo giuridico, cioè si terrà in considerazione la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, sempre nel rispetto degli articoli predetti. Lo stesso regime (cumulo giuridico) si applica nell’ipotesi del reato continuato, che non a caso è disciplinato dalla stessa norma che regola il concorso formale, pur rappresentando sostanzialmente un concorso materiale di reati. Questo fenomeno consiste nell’esecuzione di più reati, concernenti la stessa disposizione normativa o disposizioni diverse, con più azioni od omissioni, in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Devono essere chiarite due problematiche, e cioè, in primo luogo, quando si può dire che la condotta è unica o vi è pluralità di condotte e, in secondo luogo, cosa significhi “medesimo disegno criminoso”.

martedì 17 aprile 2012

Il delitto tentato

 di Filippo Lombardi

Appunti di diritto penale

Per rimanere sempre aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ----->
Il tentativo è disciplinato dall’articolo 56 del codice penale, il quale punisce chi commette atti idonei e diretti in maniera non equivoca al compimento di un delitto. La punibilità del tentativo deriva dalla messa in pericolo del bene giuridico protetto da una fattispecie normativa, e dalla pericolosità che il soggetto manifesta. La sua caratteristica pregnante è che esso si verifica quando il reato non giunge a consumazione, dove per consumazione si intende la concretizzazione di tutti gli elementi della fattispecie. Quando si parla di tentativo, quindi, si deve far riferimento al combinato disposto tra l’articolo 56 e un delitto di parte speciale. Il suddetto combinato darà però origine ad una fattispecie normativa autonoma. Si parlerà di tentato omicidio, di tentata truffa, di tentato furto, considerando gli articoli di volta in volta coinvolti non come distaccati dall’articolo 56 di parte generale, bensì come integranti lo stesso, dando origine ad un titolo autonomo di reato.
Originariamente, e cioè con il Codice Zanardelli, il tentativo veniva punito sulla base del fatto che l’attività costituisse l’inizio dell’esecuzione criminosa, cioè lo step successivo rispetto agli atti meramente preparatori, che non avrebbero consentito la punibilità. Vi fu una disputa su cosa significasse “atti esecutivi”, e la dottrina propose quattro tesi.
1) inizio dell’esecuzione si ha quando si rintraccia nell’azione il parametro della univocità degli atti, cioè della sicurezza sul fine degli stessi, proiettati inequivocabilmente verso la lesione del bene giuridico.
2) inizio dell’esecuzione significa ingerenza nell’altrui sfera giuridica. In questo senso si può dire che l’esecuzione criminosa è iniziata quando gli atti del soggetto agente cominciano ad interferire con la sfera soggettiva della vittima, producendo i primi effetti in essa.
3) inizio dell’esecuzione è compimento dei primi atti richiesti dal tenore letterale della fattispecie astratta e generale.
4) inizio dell’esecuzione non è solo compimento degli atti di cui al numero 3, bensì anche compimento di atti antecedenti, logicamente e coerentemente connessi con quelli che iniziano a comporre l’attività complessiva richiesta dalla norma.
La modifica della disciplina del tentativo ad opera del Legislatore del 1930 ha fatto in modo che queste teorie possano essere accantonate, poiché l’attuale questione interpretativa concerne non più il limite operativo tra atti preparatori e atti esecutivi, bensì i significati di idoneità e non equivocità degli atti.

sabato 14 aprile 2012

Evoluzione del concetto di colpevolezza tra teoria belinghiana (Concezione psicologica) e concezione normativa.

Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

Per rimanere sempre aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE  qui al lato ---->
Quello della colpevolezza è il terzo stadio del controllo sulla responsabilità penale (i primi due sono, come abbiamo già visto, la tipicità e l’antigiuridicità). Originariamente, cioè con la c.d. concezione belinghiana, essa contemplava gli elementi soggettivi del reato, ovvero il dolo e la colpa, in quanto legami psichici tra soggetto e fatto. Era questa la concezione psicologica della colpevolezza, che adottava una netta ripartizione tra gli elementi della fattispecie, in quanto teneva gli elementi oggettivi nell’ambito della tipicità, e trasferiva quelli soggettivi nella colpevolezza. Il noto teorico Frank elaborò successivamente una teoria diversa, basata su una riflessione in tema di concreta sanzione inflitta a soggetti che avessero compiuto il medesimo fatto con lo stesso elemento soggettivo (es. furto, con dolo specifico richiesto dalla norma). Egli si rese conto che la punibilità poteva in concreto essere diversa, pur oscillando tra i canoni edittali. Alla domanda “Cos’è che rende questa punibilità diversa tra due situazioni uguali dal punto di vista tipico?” egli rispose: la rimproverabilità del soggetto agente. La rimproverabilità sarà più elevata quanto più sarebbe stato esigibile un comportamento conforme alla norma di legge da parte dell’agente. E sarà minore quanto meno poteva in concreto richiedersi a quest’ultimo di rispettare la regola di condotta. La concezione di arrivo, che è quella attualmente utilizzata, è chiamata concezione normativa in quanto la rimproverabilità, criterio evidentemente elastico a differenza del legame psichico, viene valutata mettendo in correlazione le caratteristiche del soggetto individualmente considerato (età, cerchia sociale di appartenenza, esperienze, grado di intelligenza e socializzazione, cultura, professione, emozionalità, spirito di adattamento a circostanze nuove mai vissute, ecc.) con la norma comportamentale prescritta dal sistema normativo, di volta in volta considerata.  
Dal punto di vista concettuale, l’alveo della colpevolezza risulta svuotato degli elementi soggettivi, e riempito col concetto di rimproverabilità, cioè esigibilità in concreto di un comportamento conforme al dettato normativo. Gli elementi soggettivi vengono considerati come parti integranti la tipicità, come abbiamo più volte ripetuto, in quanto veri e propri elementi descrittivi del fatto. Se un soggetto compie un furto senza il dolo specifico richiesto dall’art. 624, non è necessario il controllo sulla colpevolezza (la quale, comunque verrà a mancare insieme all’antigiuridicità) bensì verrà meno innanzitutto il fatto tipico.   
L’ambito della colpevolezza, lungi dall’essere riempito solo col concetto di rimproverabilità, si vede addensato in concreto di norme vere e proprie del codice penale, che certamente hanno a che fare con suddetto concetto elastico. Le esamineremo successivamente.  

sabato 7 aprile 2012

L'antigiuridicità e le singole scriminanti.

 Appunti di diritto penale

di Filippo Lombardi

 Per rimanere sempre aggiornati con la rubrica "Appunti di diritto penale" cliccate sul tasto MI PIACE  qui al lato ------>
L’antigiuridicità è il secondo elemento strutturale nella concezione tripartita del reato. Il primo stadio da vagliare ai fini della responsabilità penale è quello della tipicità, che sussiste nel momento in cui il caso concreto presenta tutti gli elementi descrittivi e  (eventualmente) normativi della fattispecie astratta. Successivamente bisogna valutare se quello specifico comportamento tipico è anche antigiuridico, cioè contra ius. Per farlo, è necessario controllare se l’azione tipica tenuta in concreto dal soggetto agente non è tutelata, autorizzata, o comunque permessa e facoltizzata da qualsiasi ramo dell’ordinamento giuridico. Attualmente, l’antigiuridicità viene tradotta come assenza di cause di giustificazione. Esiste anche la cosiddetta antigiuridicità speciale, la quale sussiste quando nel tenore letterale della norma giuridica emergono parole o locuzioni come “abusivamente”, “illecitamente”, o altre. La dottrina si è divisa, al riguardo, in tre filoni di pensiero: c’è chi considera le predette locuzioni come pleonastiche e sovrabbondanti rispetto al disvalore già condensato nella norma; vi è chi indica invece un loro ruolo rafforzativo dell’illiceità della condotta; e, infine, l’ultimo filone dottrinale reputa questi concetti come concetti-guida per l’interprete nella ricerca di eventuali cause di giustificazione applicabili.
A proposito di cause di giustificazione, esse (anche dette “scriminanti”) si distinguono rispetto alle scusanti e alle cause di non punibilità. Le cause di giustificazione o scriminanti, infatti, elidono l’antigiuridicità; le scusanti elidono la colpevolezza, cioè incidono sulla rimproverabilità dell’agente; le cause di non punibilità, invece, lasciano intatte l’antigiuridicità e la colpevolezza ma prevedono la non punibilità in casi nei quali l’ordinamento tutela specifici interessi ritenuti prevalenti rispetto alla punibilità stessa (es. il figlio che ruba ai danni del padre non è punibile, poiché l’ordinamento vuole preservare l’unità della famiglia, e l’interesse della stessa a intervenire per prima su eventuali devianze dei suoi membri). E’ da segnalare, ai fini definitori, che mentre la dottrina parla indiscriminatamente delle tre categorie chiamandole “esimenti”, la giurisprudenza considera esimenti solo ed esclusivamente le cause di non punibilità.

LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. PRINCIPI GENERALI.
Secondo quanto premesso, siamo in grado di dire che le cause di giustificazione sono delle “circostanze” che elidono l’antigiuridicità, cioè fanno in modo che il fatto, seppur tipico (e quindi tendenzialmente illecito), non possa considerarsi illecito, poiché non contra ius. Potrà definitivamente dirsi che un fatto sarà antigiuridico quando non esiste una causa di giustificazione che lo scrimina.

lunedì 2 aprile 2012

Tutta la Cassazione penale 2012 (seconda parte)

Per rimanere aggiornati su tutte le ultime novità della Cassazione penale cliccate sul tasto MI PIACE qui al lato ---->

Il tentativo nel reato di estorsione.
Cassazione penale, sez. VI, 10 gennaio 2012, n. 197.

In tema di tentata estorsione, l'idoneità ed univocità degli atti vanno valutate con giudizio "ex ante", tenendo presenti la connotazione storica del fatto, le sue effettive implicazioni in riferimento sia alla posizione dell'autore della condotta che a quella del suo interlocutore, nonché il significato del linguaggio e del messaggio alla stregua delle abitudini locali. (Nella specie l'imputato, tramite un proprio emissario, aveva dapprima manifestato ad un imprenditore edile l'intenzione di parlargli e successivamente richiesto allo stesso di telefonare, giacché, diversamente, vi sarebbe stato un incendio).

L’aggravante delle più persone riunite nel delitto di estorsione.
Cassazione penale, sez. VI, 10 gennaio 2012, n. 197.

In tema di estorsione, la circostanza aggravante delle "più persone riunite" sussiste anche quando l'intervento dei concorrenti non si verifichi in un unico contesto, ma in momenti diversi, purché le diverse condotte risultino tutte parimenti finalizzate all'intimidazione della vittima.

Depenalizzazione del reato di immissione in commercio, venduta o dostribuzione di giocattoli privi del marchio CE.
Cassazione penale, sez. III, 17 gennaio 2012, n. 1400.

L'immissione in commercio, la vendita o la distribuzione al pubblico, a titolo gratuito od oneroso, di giocattoli privi del marchio CE, prevista come reato dall'art. 11 del D.Lgs. 27 settembre 1991, n. 313, integra, a far data dal 20 luglio 2011, l'illecito amministrativo di cui all'art. 31, commi quarto e settimo, del D.Lgs. 11 aprile 2011, n. 54, attuativo della direttiva 2009/48/CE sulla sicurezza dei giocattoli.

Tentata violenza sessuale.
Cassazione penale, sez. III, 17 gennaio 2012, n. 1397.
Integra il reato di violenza sessuale tentata, e non un'ipotesi di desistenza volontaria (art. 56, comma terzo, cod. pen.), il mancato soddisfacimento delle richieste a sfondo sessuale del reo da parte della vittima conseguente al rifiuto opposto da quest'ultima, in quanto l'impossibilità di portare a consumazione il reato per l'opposizione della parte offesa costituisce un fatto indipendente dalla volontà del reo.

Distruzione od occultamento di documenti contabili.
Cassazione penale, sez. III, 17 gennaio 2012, n. 1377.

Tra i "documenti contabili" di cui è obbligatoria la conservazione, il cui occultamento o distruzione, totale o parziale, a fini di evasione delle imposte, integra il reato di cui all'art. 10 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, rientrano anche le scritture, aventi rilievo fiscale, richieste dalla natura dell'impresa, la cui individuazione dev'essere effettuata ai sensi dell'art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. (Fattispecie relativa all'occultamento, da parte del titolare di un'agenzia immobiliare, di tre contratti preliminari di compravendita riguardanti altrettante unità immobiliari in ordine alle quali il prezzo effettivamente corrisposto era stato poi ridotto nei successivi rogiti).

Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.
Cassazione penale, sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 932.

Ai fini della configurabilità del reato di sottrazione di cose pignorate o sottoposte a sequestro, la nozione di proprietario è più ampia di quella assunta in sede civilistica, includendo necessariamente la posizione del soggetto nei cui confronti è stato eseguito il pignoramento e che abbia interesse a non subirne gli effetti pregiudizievoli. (Fattispecie relativa a bene pignorato al socio di una società debitrice, che aveva acquistato il bene in regime di "leasing").